L`OSSERVATORE ROMANO

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L’OSSERVATORE ROMANO
GIORNALE QUOTIDIANO
Unicuique suum
Anno CLVI n. 7 (47.142)
POLITICO RELIGIOSO
Non praevalebunt
Città del Vaticano
lunedì-martedì 11-12 gennaio 2016
.
Il dramma delle migrazioni al centro del discorso del Papa al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede
Per non perdere i principi di umanità
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Fenomeno
mondiale
Il panorama disegnato dal Papa
nel tradizionale discorso d’inizio
anno agli ambasciatori conferma
che lo sguardo della Chiesa di
Roma su «questo nostro mondo,
benedetto e amato da Dio, eppure travagliato e afflitto da tanti
mali» ha un’ottica davvero planetaria. E questo punto di vista
mondiale sa abbracciare con lucidità e altrettanta speranza i due
fenomeni che più inquietano e
preoccupano la comunità internazionale: l’onda crescente della
violenza che usa e quindi bestemmia il nome di Dio da una parte,
il dramma che segna gran parte
delle migrazioni dall’altra.
Di fronte a queste emergenze il
Pontefice riprende il tema centrale della misericordia, che è al cuore del Vangelo. Per questo sin
dall’inizio del pontificato Bergoglio vi insiste, al punto da aver
indetto un giubileo straordinario
della misericordia che ha voluto
aprire nella Repubblica Centrafricana. Indicata come filo conduttore dei viaggi internazionali
dell’anno appena trascorso, è infatti la misericordia che permette
di avanzare insieme e di ripetere,
come Francesco con i musulmani
di Bangui, che «chi dice di credere in Dio dev’essere anche un uomo o una donna di pace».
Come i predecessori, Francesco
oggi ribadisce che «ogni esperienza religiosa autenticamente vissuta non può che promuovere la pace» e condanna ancora una volta
attentati terroristici, massacri e soprusi che si accaniscono su persone inermi e indifese, obbligando
intere minoranze — come moltissimi cristiani del Vicino e Medio
oriente, ricordati a più riprese dal
Pontefice — a esodi drammatici, e
persino al «martirio per la sola
appartenenza religiosa». E colpisce nel discorso papale l’intreccio
di questi fenomeni del nostro
tempo con l’insegnamento che
viene dalle parole delle Scritture
ebraiche e cristiane.
Già nel 1952, nella costituzione
apostolica Exsul familia che affrontò con ampiezza il fenomeno
migratorio, Pio XII evocò la famiglia di Gesù che cercava scampo
in Egitto come modello e sostegno di tutti i profughi che, «incalzati dalla persecuzione o dal
bisogno, si vedono costretti ad
abbandonare la patria». Allo stesso modo oggi il suo successore
chiede che si ascolti «il grido di
Rachele che piange i suoi figli
perché non sono più», secondo le
parole profetiche di Geremia riprese dall’evangelista Matteo. Affinché si affrontino con umanità e
con coraggio questi drammi mondiali.
g.m.v.
Alla «grave emergenza migratoria che stiamo
affrontando» Francesco ha dedicato i passaggi
più significativi del discorso al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, riunito
lunedì mattina, 11 gennaio, nella Sala Regia
per la tradizionale udienza di inizio anno. Una
scelta motivata dalla volontà del Papa di contribuire a «discernerne
le cause» e a «prospettare delle soluzioni»,
aiutando così a vincere
«l’inevitabile paura che accompagna un fenomeno così massiccio e imponente».
L’incontro, come di consueto, ha offerto al
Pontefice l’occasione per un’ampia panoramica
internazionale. Preceduta dalla significativa
sottolineatura dei risultati dell’impegno diplomatico della Santa Sede nel 2015, anno in cui
è cresciuto il numero di ambasciatori residenti
a Roma e sono stati conseguiti importanti accordi internazionali. Un’attività che ha trovato
nuove motivazioni e prospettive nel “filo conduttore” della misericordia indicato da Papa
Francesco alla Chiesa e al mondo con l’indizione del giubileo straordinario. Nel
ricordarlo il Pontefice ha ribadito la
necessità di «ritrovare le ragioni del dialogo» e di respingere
in particolare ogni tentativo di utilizzare la religione «per commettere
ingiustizia nel nome di Dio», come è
avvenuto nei sanguinari attentati terroristici dei mesi scorsi in Africa, Europa e
Medio oriente.
Rivolgendo lo sguardo alla complessa at-
tualità mondiale, carica di «sfide» e attraversata da «non poche tensioni», il Papa ha puntato l’attenzione sul fenomeno migratorio. Nel
quale — ha osservato — finiscono per concentrarsi le conseguenze delle grandi tragedie
umanitarie che affliggono oggi il pianeta:
guerre, violazioni dei diritti umani, persecuzioni a sfondo religioso, miseria estrema, malnutrizione, cambiamenti climatici. Drammi che
alimentano veri e propri esodi di massa, spingendo milioni di uomini, donne e bambini a
fuggire dalle loro terre per sottrarsi a violenze
e «barbarie indicibili praticate verso persone
indifese».
«Gran parte delle cause delle migrazioni —
è la realistica constatazione di Francesco — si
potevano affrontare già da tempo». Ma ancora
oggi «molto si potrebbe fare per fermare le
tragedie e costruire la pace». A patto, tuttavia,
che si abbia il coraggio di rimettere in discussione «abitudini e prassi consolidate»: a cominciare da quelle legate al commercio delle
armi, all’approvvigionamento di materie prime
e di energia, agli investimenti, alle politiche fi-
nanziarie e di sviluppo. Per il Pontefice c’è bisogno di «progetti a medio e lungo termine
che vadano oltre la risposta di emergenza»,
col duplice intento di «aiutare effettivamente
l’integrazione dei migranti nei Paesi di accoglienza» e di favorire «lo sviluppo dei Paesi di
provenienza con politiche solidali».
Mentre i massicci sbarchi in Europa sembrano far vacillare il sistema di accoglienza, l’appello di Francesco al vecchio continente è di
non perdere «i valori e i principi di umanità»,
salvaguardando il giusto equilibrio fra il «dovere morale di tutelare i diritti dei propri cittadini» e quello di «garantire l’assistenza e l’accoglienza dei migranti». Fermo restando per
chi arriva «il dovere di rispettare i valori, le
tradizioni e le leggi della comunità» ospitante.
Dal Papa particolari espressioni di gratitudine
nei confronti di quei Paesi, fra i quali l’Italia,
che hanno mostrato generosità verso i rifugiati: «è importante — ha auspicato — che le nazioni in prima linea non siano lasciate sole».
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E
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Più di cento profughi morti in un naufragio al largo delle coste somale
Altre vittime in mare
MO GADISCIO, 11. I 112 morti accertati
nel naufragio — venerdì, ma se ne è
avuta notizia solo ieri — nelle acque
somale di un’imbarcazione di profughi e migranti diretti verso le coste
yemenite conferma la dimensione
mondiale di una tragedia, quella della mobilità forzata di persone in cerca di scampo da guerre, persecuzioni
e fame, alla quale la comunità internazionale non sembra ancora aver
trovato risposte adeguate.
Le vittime del naufragio, avvenuto
di fronte alle coste del Somaliland,
la regione somala da oltre un ventennio dichiaratasi autonoma da
Mogadiscio, provenivano dalla stessa
Somalia e dall’Etiopia. Dai racconti
dei settantacinque scampati al naufragio emerge che l’imbarcazione era
in condizioni fatiscenti e che una
volta verificatasi un’avaria è colata
rapidamente a picco. Il mare ha gettato sulla costa i corpi di 112 persone
annegate, ma s’ignora ancora quanti
uomini, donne e bambini fossero a
bordo del natante e quanti siano
quindi i dispersi. «La guardia costiera ha tratto in salvo 75 persone e i
locali hanno localizzato 112 cadaveri» ha detto alle agenzie di stampa
Abdurahman Yasin, del personale
sanitario del Somaliland.
Quella tra il Corno d’Africa e lo
Yemen, nel Mar Rosso e nel golfo di
Aden, sono tra le rotte più pericolose per profughi e migranti. Ogni anno vi muoiono persone in cerca di
scampo da guerre e fame costrette a
mettersi in mare in condizioni di assoluta insicurezza nel tentativo, appunto, di raggiungere lo Yemen, dal
quale sperano di arrivare ai ricchi
Paesi del Golfo Persico. Né il conflitto che insanguina da mesi lo stesso Yemen ha fermato o diminuito
questi tentativi.
In un altro dei più drammatici
scenari di questa emergenza epocale,
quello del Mediterraneo, intanto, si
è allungato il tragico conteggio di
morti che ormai si registra da anni.
Si cercano ancora quattro persone,
forse tutte donne, che risultano disperse dopo essere state scaraventate
in mare dagli scafisti nello sbarco di
migranti avvenuto stamani nelle ac-
que del Salento, al largo del Capo
di Leuca. Il cadavere di un’altra
donna è stato trovato sulla costa. Finora sono stati rintracciati 37 superstiti, tutti somali e in maggioranza
donne. Cinque persone, compreso
un bambino di dieci anni, sono state
ricoverate in ospedale per ipotermia
e contusioni. Secondo quanto raccontato ai soccorritori da alcuni dei
superstiti, il gruppo, composto da
42 persone, sarebbe partito un paio
di giorni fa dalla Grecia. Il corpo
della donna recuperato vicino a uno
scoglio, in località Felloniche, non
lontano da Capo di Leuca, è stato
avvistato da un pescatore che ha dato l’allarme.
Accanto al flusso di profughi e
migranti verso l’Europa dalle coste
Incertezza sull’apertura del corridoio umanitario per la città siriana allo stremo
Madaya attende aiuti
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africane del Mediterraneo, non s’interrompe neanche quello dei rifugiati, soprattutto siriani ma non solo,
provenienti dalla Turchia e diretti alla Grecia. In realtà i numeri della
prima settimana di gennaio sono inferiori alla media degli ultimi mesi
del 2015. Secondo l’O rganizzazione
mondiale per le migrazioni, infatti,
nei primi sette giorni del mese in
Grecia ne sono arrivati 9900, mentre
la media settimanale dall’inizio di
ottobre alla fine di dicembre era stata di 16.300. Ma non è chiaro se una
tale contrazione sia dovuta a maggiori controlli sulla costa turca da
cui partono o al maltempo. Nella
parte orientale dell’Egeo vi sono infatti stati nei giorni scorsi forti venti
che hanno bloccato anche la partenza dei traghetti.
In ogni caso, è ancora lontana
l’effettiva applicazione del piano per
contenere il flusso di profughi in
Europa sottoscritto da Unione europea e Turchia solo nelle sue linee generali. Il primo vice presidente della
Commissione europea, Frans Timmermans, è partito ieri per Ankara
con il mandato di spingere il più
possibile sul Governo turco. Lo stesso Timmermans ha dichiarato questa
mattina che il flusso di profughi e
migranti dalla Turchia resta troppo
elevato, nonostante gli impegni già
presi dalle autorità di Ankara.
Tra due giorni, inoltre, ci sarà a
Bruxellese una riunione dei rappresentanti
dei
ventotto
Paesi
dell’Unione per cercare un’intesa
sulla ripartizione tra la Commissione
e i Governi dei tre miliardi di euro
destinati a essere spesi in Turchia
proprio in base alle intese sull’immigrazione con Ankara.
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lunedì-martedì 11-12 gennaio 2016
La facciata della stazione centrale di Colonia
di fronte alla quale
hanno avuto luogo le violenze (Reuters)
Putin auspica una coalizione internazionale
Parigi commemora
le vittime
del terrorismo
BERLINO, 11. C’è anche la città di
Bielefeld, in Westfalia, nell’elenco di
quelle dove si sono registrate violenze contro le donne a capodanno: secondo la stampa locale, almeno 500
uomini avrebbero forzato l’ingresso
in una discoteca, l’Elephant Club, e
avrebbero molestato molte donne.
La polizia ha confermato che sono
arrivate le prime denunce e che verranno fatti i relativi accertamenti.
Intanto, le forze dell’ordine di
Colonia hanno comunicato che le
denunce per i fatti di capodanno sono salite da 379 a 516. Nel quaranta
per cento dei casi si tratta di molestie sessuali. Ad Amburgo, dove si
sono verificati fatti analoghi, sono
133. Altre città coinvolte in maniera
minore sarebbero Düsseldorf, Francoforte e Berlino.
Per il ministro della Giustizia tedesco Heiko Maas, gli attacchi subiti dalle donne a Colonia sono stati
«organizzati». L’esponente del Governo presieduto da Angela Merkel
ha infatti dichiarato che «quando si
incontra un’orda del genere per
commettere dei reati, deve esserci
una certa forma di organizzazione
dietro. Nessuno può venirmi a raccontare che non sia stato preparato
o concordato».
Secondo gli ultimi dati della polizia di Colonia, sono quindi 516 le
denunce presentate finora di presunte aggressioni commesse davanti alla
stazione ferroviaria di Colonia la
Oltre 500 denunce per le violenze di Colonia mentre si rafforza l’ipotesi di un’azione organizzata
Sdegno senza fine
notte di San Silvestro. La maggior
parte degli aggressori proveniva da
Paesi del Nord Africa. Molti sono richiedenti asilo e persone che si trovano in Germania in situazione illegale. La polizia — riferiscono fonti
di stampa — indaga sui messaggi
pubblicati sui social network da parte di nordafricani nei giorni precedenti capodanno e sulla presenza a
Colonia di persone arrivate dai din-
Carles Puigdemont eletto presidente della Generalitat
Madrid si oppone
alla secessione catalana
torni e anche da Paesi vicini, cioè
Belgio, Olanda e Francia.
Sabato scorso il cancelliere Merkel
aveva di nuovo preso posizione in
merito ai fatti di capodanno con parole ferme, pronunciate proprio alla
vigilia delle manifestazioni, previste
appunto a Colonia, per fare chiarezza: «Sono azioni criminali disgustose», aveva detto e annunciato che
andranno «cambiate le leggi, che
siano più dure, e che poi siano effettivamente applicate». Il cancelliere
aveva assicurato che saranno espulsi
dal Paese tutti i profughi condannati, anche quelli la cui condanna sia
stata sospesa con la condizionale.
Oggi il portavoce di Merkel, Steffen
Seibert, ha detto che «nulla giustifica le ostilità contro i musulmani».
E sempre sabato a Colonia si sono
svolte due manifestazioni contrapposte sulle aggressioni di Capodanno.
Davanti al piazzale della stazione
centrale sono scesi in piazza i militanti sostenitori di movimenti islamofobi e di estrema destra da un lato e dall’altro i partiti della sinistra e
le organizzazioni antirazziste. La polizia era presente in forze. A un cer-
to punto, il corteo dell’ultradestra è
stato sospeso a causa dei disordini.
Intanto, forte preoccupazione per
i fatti dell’ultimo dell’anno è stata
espressa anche dai vescovi tedeschi.
«Non deve esserci alcuno spazio per
la violenza sessista» ha spiegato in
un’intervista il cardinale Rainer Maria Woelki, arcivescovo di Colonia.
«Sono preoccupato perché ora ci sono troppi populisti pronti a cogliere
l’attimo a loro favore». Quanto accaduto — ha aggiunto il cardinale —
«viola la dignità umana ed è assolutamente disgustoso». Gli autori delle
violenze «dovrebbero essere considerati dei criminali, e non importa
quale sia la loro origine o se si sia
trattato di violenza di gruppo. Colonia è sempre stata una città cosmopolita e tollerante e non c’è posto
per simili episodi». Sulla stessa linea
il cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco, per il quale «abbiamo ora bisogno di informazioni
precise e una chiara risposta del diritto. Questa forma di violenza a noi
sconosciuta e soprattutto il trattamento disumano nei confronti delle
donne non può essere tollerato».
PARIGI, 11. Cerimonia sobria, sotto
un cielo color grigio, volti tirati e
molta commozione. A Place de la
République, diventata negli ultimi
tempi il centro delle commemorazioni delle vittime, si è svolta ieri la
cerimonia finale di questa settimana di ricordo degli attentati terroristici di «Charlie Hebdo» e del 13
novembre. Erano presenti il presidente francese François Hollande,
il premier Manuel Valls e molti ministri del Governo. Le autorità avevano definito l’evento «l’apice di
una settimana di celebrazioni».
Tuttavia Place de la République,
anche a causa delle ingenti misure
di sicurezza, era semiderserta. Anne Hidalgo, sindaco socialista di
Parig, ieri sera ha presieduto una
seconda commemorazione con l'accensione di luci alla Quercia della
Memoria.
Erano le undici del mattino
quando Hollande ha scoperto la
targa dorata incastonata nel marciapiede della piazza. Subito dopo,
Johnny Hallyday ha intonato, accompagnato da una sola chitarra,
Un dimanche de janvier, canzone
composta a partire dal ricordo della grande marcia della solidarietà
che l’11 gennaio riunì nella capitale
ferita i leader internazionali. La cerimonia è proseguita con un brano
di Jacques Brel eseguito dal Coro
dell'Esercito francese e con la lettura di un testo di Victor Hugo. Alla
fine, il Coro dell'esercito ha eseguito il canto simbolo della Comune
di Parigi, Le temps des cerises, prima
che Hollande deponesse una corona sul luogo della memoria delle
vittime. In conclusione, un minuto
di silenzio, quindi la Marsigliese.
Hollande si è poi recato in visita
alla Grande Moschea di Parigi, per
partecipato all’iniziativa “porte
aperte” di tutti i luoghi di culto
musulmani in Francia durante questo fine settimana in omaggio alle
vittime del terrorismo. Dopo il “té
della fratellanza”, il presidente —
accompagnato dal ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve — si è
brevemente trattenuto con il rettore
della Moschea, Dalil Boubakeur, e
con il presidente del Consiglio
francese del culto musulmano,
Anouar Kbibech, salutando poi
tutti gli imam presenti. Hollande
ha ricordato, riferisce un testimone
dell’incontro, «che l’islam fa parte
della Repubblica e che la comunità
musulmana è la prima vittima degli
attentati».
Nel frattempo, l'allerta terrorismo resta alta. Oggi è stato evacuato un liceo a Compiègne, settanta chilometri a nord di Parigi,
per un sospetto allarme bomba. E
a Marsiglia un minore con problemi di squilibrio mentale, riferisce la
polizia, ha ferito con un coltello un
uomo che indossava la kippa ebraica. Il ragazzo è stato quindi fermato dagli agenti che lo stanno interrogando. Proseguono poi le indagini sull’uomo che giovedì scorso è
stato ucciso a Parigi dalla polizia,
mentre era in procinto di commettere un attentato. Dalle ultime piste emerge che abitava in un alloggio per profughi in Germania.
E, intanto, il presidente russo,
Valdimir Putin, in un’intervista rilasciata alla «Bild», ha rinnovato
l’appello all’unità auspicando una
coalizione internazionale contro il
terrorismo. Il mondo oggi «affronta numerose minacce e sfide comuni, dal terrorismo internazionale al
traffico di essere umani, fino alla
crisi dei profughi e per superarle è
necessario unire gli sforzi a livello
internazionale» ha detto Putin.
Si completa così la transizione democratica dopo la destituzione di Mursi
Insediato
il nuovo Parlamento egiziano
Il Parlamento catalano a Barcellona (Ap)
MADRID, 11. «Il Governo difenderà
l’unità del Paese». Lo ha detto ieri
il presidente del Governo spagnolo, Mariano Rajoy, poco dopo il
discorso di inaugurazione del nuovo presidente della Catalogna, Carles Puigdemont, che ha promesso
di promuovere un processo separatista per la regione. «Non si aprirà
alcun processo costituente al margine della legge» ha precisato Rajoy, aggiungendo di aver avuto un
colloquio con Pedro Sánchez e Albert Rivera, i leader di Psoe e Ciudadanos, partiti che si oppongono
alla secessione della Catalogna.
Il presidente del Governo ha poi
detto di avere dato istruzioni perché qualsiasi iniziativa del nuovo
Esecutivo catalano ritenuta contraria alla Costituzione o alla legge
«ottenga la risposta dello Stato di
diritto». Rajoy, che dalle legislative
del 20 dicembre dirige un Governo
incaricato degli affari correnti, ha
detto di avere ottenuto l’appoggio
di Sánchez e Rivera per opporsi alle spinte indipendentiste catalane.
Rajoy ha garantito che agirà con
«fermezza e determinazione per difendere l’unità della Spagna».
Puigdemont, sindaco di Girona,
entrato in corsa dopo la rinuncia
del presidente uscente, Artur Mas,
è stato eletto al primo turno con 70
voti a favore e 63 contrari. Due gli
astenuti. Nel discorso di investitura
ha confermato il traguardo dell’indipendenza nel 2017, affermando di
volere applicare la dichiarazione secessionista approvata dai deputati
catalani lo scorso 9 novembre. Dichiarazione respinta come illegale
dal Governo di Madrid.
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IL CAIRO, 11. Si aprono i lavori del
nuovo Parlamento egiziano, eletto
con le legislative dello scorso autunno. È la prima volta dopo la dissoluzione — nel giugno del 2012 — delle
precedenti Camere. La sessione
inaugurale, trasmessa ieri in diretta
dalla televisione di Stato, è stata presieduta dal deputato di maggior età,
Bahaa Abu Sheqa, 77 anni, affianca-
Bombardata la centrale elettrica di Bengasi
Libia
in balia dell’Is
TRIPOLI, 11. Non decolla l’accordo
mediato dalle Nazioni Unite per
un Governo di unità nazionale e
la Libia rimane in balia del terrorismo, soprattutto quello legato ai
miliziani del cosiddetto Stato islamico (Is). Dopo la strage a Zliten
(81 poliziotti uccisi) lo stesso premier designato Fayez Al Sarraj è
stato oggetto sabato di un attacco
armato. E un intenso bombardamento di artiglieria ha colpito ieri
la principale centrale elettrica di
Bengasi, che rifornisce di corrente
la maggior parte della Libia orientale fino alla frontiera con l’Egitto,
circa 500 chilometri più a est: lo
ha reso noto un portavoce dell’im-
GIOVANNI MARIA VIAN
direttore responsabile
Giuseppe Fiorentino
vicedirettore
Piero Di Domenicantonio
pianto secondo cui sono stati messi fuori uso cinque trasformatori
su sei. Si prevedono pertanto aggravamenti dei blackout che già
affliggono la Cirenaica, per rimediare ai quali sarà necessario l’intervento di tecnici stranieri, peraltro ostacolato dalle pessime condizioni di sicurezza. Stando alle autorità, è probabile che chi ha scatenato l’attacco avesse contatti
all’interno del complesso, i quali
hanno fornito agli assalitori le
coordinate per centrare il bersaglio. Le salve hanno raggiunto anche un vicino campo profughi, uccidendo una donna e ferendo altre
nove persone.
Servizio vaticano: [email protected]
Servizio internazionale: [email protected]
Servizio culturale: [email protected]
Servizio religioso: [email protected]
caporedattore
Gaetano Vallini
segretario di redazione
to dai più giovani, una coppia di
ventiseienni.
I parlamentari hanno prestato giuramento e, successivamente, hanno
votato Ali Abdel Al come nuovo
presidente della Camera dei rappresentanti egiziana. Abdel Al ha ricevuto 401 preferenze su un totale di
595 voti espressi, di cui cinque annullati. Insieme ad Abdel Al, dato
già per favorito nei giorni scorsi,
erano in corsa altri sei parlamentari,
fra i quali l’ex ministro per gli Affari
sociali, Ali Moselhy, giunto secondo
con 110 voti, e il presentatore televisivo e deputato indipendente Tawfiq
Okasha. Nel suo discorso poco dopo l’elezione Abdel Al ha dichiarato
che «il Parlamento difenderà la democrazia richiesta dalla popolazione
il 25 gennaio 2011 e il 30 giugno
2013», ponendo i suoi omaggi al
Servizio fotografico: telefono 06 698 84797, fax 06 698 84998
[email protected] www.photo.va
presidente Abd Al Fattah Al Sisi che
ha sostenuto le aspirazioni del popolo egiziano. La nuova Assemblea legislativa è dominata da indipendenti
e partiti favorevoli al presidente Al
Sisi. La precedente, eletta nel 2011,
era invece dominata dai Fratelli musulmani, e fu disciolta dalla Corte
Costituzionale.
La seduta di ieri rappresenta il
completamento del percorso politico
dell’Egitto dopo la deposizione del
presidente Mohamed Mursi nel
2013. Come detto, la sessione è stata
la prima dopo che i due Parlamenti
precedenti sono stati sciolti, la prima
volta nel febbraio 2011 e la seconda
volta nel giugno 2012. Le altre tappe
del percorso politico sono state la
promulgazione della Costituzione,
nel gennaio 2014, e l’elezione di Al
Sisi, avvenuta nel giugno del 2014.
Segreteria di redazione
Tipografia Vaticana
Editrice L’Osservatore Romano
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direttore generale
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NOUAKCHOTT, 11. Il gruppo jihadista Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi) ha diffuso nel fine
settimana un video, inviato
all’agenzia di stampa mauritana
Al Ajbar, in cui mostra lo svedese
Johan Gustafsson e il sudafricano
Stephen Malcolm rapiti oltre tre
anni fa a Timbuctu, nel nord del
Mali. Nel video un portavoce
dell’Aqmi legge in inglese un
messaggio in cui non specifica le
richieste per la loro liberazione,
ma precisa che sono sempre le
stesse, note ai due Governi.
Denunciate
violenze
nel Darfur
KHARTOUM, 11. Nuove violenze
sono state segnalate dal Darfur, la
regione occidentale sudanese teatro dal febbraio del 2003 di un
conflitto civile che soprattutto nei
suoi primi anni provocò centinaia
di migliaia di morti e una delle
maggiori crisi umanitarie di sempre, con tre milioni di profughi.
Secondo i ribelli del Movimento
di liberazione sudanese, quattro
persone sono state uccise ieri dalle forze di sicurezza che hanno
disperso una manifestazione a
Geneina. Le autorità hanno confermato disordini, ma smentito
che ci siano state vittime.
La seduta inaugurale del Parlamento egiziano (Ansa)
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Video di ostaggi
rapiti in Mali
oltre tre anni fa
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lunedì-martedì 11-12 gennaio 2016
pagina 3
Raccolta di fondi in Libano
per la popolazione
della città assediata (Afp)
A Islamabad tra Afghanistan, Pakistan, Cina e Stati Uniti
Arrestati quattro palestinesi
Vertice
sul dialogo con i talebani
Non si attenua
la tensione
in Terra santa
ISLAMABAD, 11. I rappresentanti di
Pakistan, Afghanistan, Cina e Stati
Uniti sono riuniti oggi a Islamabad
per rilanciare i negoziati di pace
con i talebani afghani. I lavori sono
stati aperti dal consigliere del premier pakistano per gli Affari esteri,
Sartaj Aziz. La delegazione afghana
è guidata dal vice ministro degli
Esteri, Khalil Hekmat Karzai.
I talebani afghani — secondo la
stampa locale — hanno deciso di
boicottare il vertice definendolo
“inutile”. Tuttavia, alcuni media riferiscono che potrebbe essere presente il vice leader Sirajuddin Haqqani. I primi colloqui diretti tra il
Governo di Kabul e i talebani, con
la presenza di Stati Uniti e Cina in
qualità di osservatori, si erano tenuti nel luglio 2015 nella località turistica di Murree, vicino a Islamabad.
Erano deragliati pochi mesi dopo
quando da una fonte afghana emerse la notizia della scomparsa del
leader supremo Omar avvenuta due
anni prima per una misteriosa malattia. La notizia provocò una crisi
nella leadership talebana.
Alla vigilia dell’incontro di Islamabad il presidente afghano,
Ashraf Ghani, ha ricordato che
«l’Afghanistan ha una posizione
molto chiara sulla pace» e che
«non sarà fatta alcuna trattativa che
riguardi l’indipendenza o la Costituzione» del Paese. Comunque, ha
poi aggiunto, «la Costituzione afghana ha ovviamente dei limiti»,
ma «non saranno accettate modifiche che contrastino con i suoi principi fondamentali». L’Afghanistan,
ha infine sottolineato Ghani, non
andrà mai in alcun posto «con l'atteggiamento di implorare la pace».
Intanto, alcuni media pakistani
hanno rilanciato le dichiarazioni di
Javaid Faisal, vice portavoce del
Chief executive afghano, Abdullah
Abdullah, secondo cui il Pakistan
porterà al tavolo della conferenza
di Islamabad due liste: una dei talebani che sono disponibili a partecipare al processo di pace e riconciliazione afghano; un'altra di quelli
che invece non lo sono. I talebani
che «sono interessati alla pace possono unirsi al dialogo, ma quelli
che optassero per continuare a
combattere saranno combattuti».
Sul piano militare, circa 40 talebani sono stati uccisi nel fine settimana nell’operazione delle forze afghane per riprendere il controllo
del distretto di Darqad, nella provincia settentrionale di Takhar. Secondo il portavoce del Governo locale, le truppe governative sono entrate nella zona che da tre mesi era
occupata dai ribelli islamici.
Nella provincia di Sa’dah roccaforte dei ribelli huthi
Colpito da un missile
un ospedale nello Yemen
Incertezza sull’apertura del corridoio umanitario per la città siriana allo stremo
Madaya attende aiuti
DAMASCO, 11. La popolazione di
Madaya, la città siriana dove secondo l’Onu quarantamila persone rischiano la morte per fame, attende
ancora l’apertura del corridoio umanitario che, nelle speranze del Comitato internazionale della Croce
rossa (Cicr), sarebbe dovuto essere
operativo già da ieri. Fonti dello
stesso Cicr hanno comunicato che
l’avvio dell’operazione ha subito un
rinvio, ma hanno aggiunto che forse
già oggi la situazione si potrebbe
sbloccare con il via libera al primo
convoglio di alimenti e medicine.
Come noto, nella città sono asserragliate milizie ribelli delle quali
l’assedio delle forze governative non
è riuscito finora ad avere ragione. Il
portavoce in Siria del Cicr, Paweł
Krzysiek, ha ricordato ieri come
l’ultima volta in cui si è riusciti a in-
trodurre alimenti a Madaya è stato
lo scorso 17 ottobre: dopo si è intensificato l’accerchiamento delle forze
governative. Secondo l’organizzazione Medici senza frontiere, almeno
23 persone sono morte di fame dal
primo dicembre nell’ospedale cittadino in cui il suo personale presta
assistenza.
Sempre in Siria, secondo fonti
dell’opposizione al presidente Bashar Al Assad, bombardamenti governativi nell’area di Ghuta (zona
alla periferia sudorientale di Damasco che vede ancora attive le milizie
ribelli) hanno provocato ieri almeno
otto morti, compresi un bambino e
una donna, e numerosi feriti, in larga parte in gravi condizioni.
Sui fronti iracheni, intanto, il Governo di Baghdad ha rivendicato ieri l’uccisione di uno dei principali
Monito di Obama
alla Corea del Nord
Soldati yemeniti a un posto di blocco nella capitale Sana’a (Ansa)
SANA’A, 11. Non si ferma il conflitto
nello Yemen che ha già causato oltre 6000 morti, 28.000 feriti e milioni di rifugiati. Ieri quattro perso-
Indagini
sull’attacco
alla base
nel Punjab indiano
ISLAMABAD, 11. Saranno avviate
al più presto le indagini sul recente attacco contro la base aerea indiana nel Punjab. Ad annunciarlo è stato il premier pakistano, Nawaz Sharif, nel corso di
una telefonata, ieri sera, con il
segretario di Stato americano,
John Kerry. Su richiesta di New
Delhi, Sharif ha accettato di
cooperare nell’inchiesta sui militanti islamici che il 2 gennaio
scorso hanno attaccato la base
nel Punjab di Pathankot. Secondo l’intelligence indiana, l’assalto
è stato organizzato dal gruppo
islamico pakistano Jaish e
Mohammad. Tuttavia, l’azione è
stata rivendicata da un’altra organizzazione armata che opera
in Kashmir e che sostiene di non
aver connessioni con il Pakistan.
Secondo i media, New Delhi ha
trasmesso le prove dell’operazione ad altri cinque Paesi (Stati
Uniti, Gran Bretagna, Francia,
Giappone e Corea del Sud), oltre che al Pakistan.
ne sono morte e una decina rimaste
ferite nell’impatto di un missile
contro un centro sanitario gestito
da Medici senza frontiere, nel nord
del Paese. Lo riferisce la stessa organizzazione internazionale che lamenta la gravità della situazione e
l’aumento di simili attacchi. Medici
senza frontiere ha inoltre sottolineato di condividere regolarmente le
coordinate gps delle proprie strutture con tutte le parti combattenti.
L’ospedale colpito si trovava nella zona di Razeh, nella provincia di
Sa’dah, che è la principale roccaforte dei ribelli huthi. Si ignora ancora
se il missile sia stato sparato da forze della coalizione a guida saudita
o dai ribelli huthi. In una nota,
Medici senza frontiere dichiara che
«il bilancio dell'impatto potrebbe
aggravarsi perché ci sono persone
rimaste sotto le macerie e alcuni dei
feriti sono in condizioni critiche».
Tutto il personale medico e paramedico è stato evacuato da Razeh,
e i pazienti sono stati trasferiti in
un altro ospedale a Sa’dah.
Sul piano politico, l’inviato speciale dell’Onu per lo Yemen, il diplomatico Ismail Ould Cheikh
Ahmed, è giunto ieri a Sana’a per
tentare di convincere i ribelli huthi
e i loro alleati — le milizie dell’ex
presidente Ali Abdallah Saleh — a
riprendere i negoziati di pace con il
Governo del presidente Abd Rabbo
Mansour Hadi, riconosciuto dalla
comunità internazionale.
Nel frattempo, jihadisti legati al
cosiddetto Stato islamico (Is) hanno rivendicato l’uccisione di un alto
funzionario della sicurezza locale
nella città portuale di Aden, nel
sud del Paese, sede del Governo yemenita e riconquistata in estate.
SEOUL, 11. Un bombardiere B-52
statunitense ha sorvolato la Corea
del Sud ed è sceso ieri in picchiata
su una base aerea vicino al confine
con la Corea del Nord. Una dimostrazione di forza, dopo il test nucleare effettuato dal regime comunista di Pyongyang.
Il bombardiere, che può trasportare armi nucleari, ha brevemente
sorvolato la base militare d’O san,
quasi settanta chilometri a sud della
frontiera intercoreana, prima di
rientrare.
Questo tipo di velivolo è utilizzato nelle esercitazioni militari annuali congiunte di Stati Uniti e Corea
del Sud, ma le loro uscite raramente vengono rese pubbliche. L’episodio dimostra come la tensione nella
regione sia montata al punto da
evocare atmosfere da guerra fredda.
La Casa Bianca ha definito una
«provocazione» il test nucleare di
Pyongyang. Il leader nordcoreano
Kim Jong Un ha affermato invece
che l’operazione è stata un atto di
auto-difesa e ha oggi incoraggiato
gli scienziati nucleari del suo Paese
a lavorare per nuovi «maggiori successi». Kim Jong Un è stato accolto con entusiasmo dai tecnici che
hanno contribuito a quello che
Pyongyang ha definito «il primo
riuscito test di una bomba all’idrogeno». Lo riferisce l’agenzia stampa
di Stato nordcoreana Kcna, aggiungendo che il leader nordcoreano si
è fatto fotografare assieme allo staff
che ha permesso la riuscita del test.
comandanti del cosiddetto Stato
islamico (Is) in un raid della propria aviazione a est della città di
Haditha, nella provincia di al Anbar. Si tratta di Assi Ali Mohammed
Nasser Al-Obeidi, ex comandante
di brigata della Guardia repubblicana irachena all’epoca di Saddam
Hussein, tenuto per anni in detenzione dalle forze statunitensi che
avevano rovesciato quest’ultimo. Al
Obeidi era stato prima imprigionato
a Camp Bocca, nei pressi di Bassora. Proprio qui, aveva conosciuto il
leader del gruppo jihadista, il cosiddetto califfo Abu Bakr al Baghdadi,
di cui era poi diventato uno dei
principali luogotenenti. Successivamente era stato trasferito nel carcere
di Abu Ghraib, alle porte di Baghdad, dal quale era riuscito a evadere.
TEL AVIV, 11. Non si fermano le
violenze in Terra santa. Sparatorie
e aggressioni sono segnalate anche
oggi in Israele e nei Territori palestinesi in Cisgiordania. Nessuna
vittima.
Ieri quattro palestinesi di Hebron sono stati arrestati con il sospetto di far parte di una cellula
di Hamas (il movimento islamico
che controlla Gaza dal 2006) che
progettava attacchi con armi da
fuoco contro israeliani. L’operazione è stata condotta dall’esercito
e dallo Shin Bet, il servizio di sicurezza interna israeliano.
Alla guida del gruppo di jihadisti, secondo le forze dell’ordine,
c’era Muhammad Ali Kawasmeh
(38 anni), fratello di Hossam Kawasmeh, ritenuto l’ideatore del rapimento e dell’assassinio dei tre
ragazzi israeliani Gil Ad Shaer,
Naftali Frenkel e Eyal Yifrah nel
giugno del 2014. Rapimento che
precedette lo scoppio dell’ultimo
conflitto tra Israele e Hamas.
Intanto, il Consiglio dei ministri israeliano ha approvato ieri la
nomina di Arieh Deri a nuovo titolare del dicastero dell’Interno,
dopo che il suo predecessore Silvan Shalom si è dimesso in seguito ad accuse di molestie sessuali.
L’esponente ultraortodosso fa già
parte del Governo e manterrà il
suo portafoglio di ministro per il
Negev, la Galilea e la Periferia.
Aveva ottenuto il ministero in novembre, dopo essersi dimesso da
titolare dell’Economia perché in
disaccordo con Netanyahu sulla
politica per il gas naturale.
Alla guida del partito sefardita
ultraortodosso Shas, Deri è già
stato ministero dell’Interno negli
anni Novanta.
Sparatorie
a Washington
WASHINGTON, 11. Ancora vittime
delle armi negli Stati Uniti. Un
morto e otto feriti è il bilancio di
sei distinte sparatorie avvenute nel
fine settimana nella zona nordorientale e in quella sudorientale di
Washington e sulle quali sta indagando la polizia.
Il primo episodio si è verificato
nella zona di Hayes Street, dove gli
agenti hanno trovato un uomo,
Joseph Andre Robinson, colpito
mortalmente da diversi colpi di arma da fuoco. Poche ore dopo, le
forze dell’ordine sono state chiamate nello stesso quartiere, trovando
altre due persone ferite a un isolato
di distanza: gli investigatori stanno
cercando ancora di capire se le tre
sparatorie sono collegate.
Sabato sera, invece, tre ragazzini
e un adulto sono stati feriti dopo
una partita di basket, con proiettili
esplosi da un’automobile. Altre due
persone, infine, sono state ferite da
colpi di arma da fuoco nella zona
sudorientale della capitale.
Per ricordare le vittime della violenza da armi da fuoco, una sedia
vuota farà da contorno, domani, al
discorso alla Nazione per l’ultimo
State of the Union del presidente,
Barack Obama.
La lotta per la regolamentazione
della vendita delle armi è uno dei
punti centrali del secondo mandato
di Obama. Il piano presentato dalla
Casa Bianca pochi giorni fa è composto da diverse misure incentrate
sul potenziamento dei controlli sui
venditori e delle forze dell’Fbi impegnate in questo settore. Il presidente ha inoltre chiesto ai dipartimenti di Difesa, Giustizia e Sicurezza interna di condurre, sostenere
e sponsorizzare la ricerca in ambito
tecnologico per la sicurezza delle
armi. Previsto inoltre il rafforzamento delle indagini preliminari,
che diventeranno obbligatorie, prima di permettere a un cittadino
americano di acquistare armi. Tali
accertamenti saranno svolti anche
per gli acquisti on-line.
Verso l’estradizione
di El Chapo
Un B-52 statunitense scortato da caccia (Ap)
CITTÀ DEL MESSICO, 11. Le autorità
messicane hanno avviato formalmente il processo di estradizione
del boss dei narcos Joaquín (El
Chapo) Guzmán verso gli Stati
Uniti. L’avvio della procedura è
stata notificata dall’Interpol a Guzmán nella prigione di massima sicurezza di Altipiano, in cui è detenuto dopo essere stato catturato venerdì. Era fuggito attraverso un
tunnel dallo stesso penitenziario.
L’avvocato di Guzmán, Juan Pablo
Badillo, ha detto che la difesa ha
già depositato sei mozioni per annullare le richieste di estradizione.
Le autorità messicane hanno anche
deciso di aprire un’indagine contro
l’attore americano Sean Penn per
avere intervistato El Chapo il 2 ottobre scorso, mentre era latitante.
Indagata anche l’attrice messicana
Kate del Castillo che, come ha raccontato lo stesso Penn, ha aiutato
l’attore americano a organizzare
l’incontro nel covo segreto del capo
del cartello della droga di Sinaloa.
Il colloquio tra Penn e il più potente e violento narcotrafficante al
mondo è apparso sulla rivista «Rolling Stone», accompagnato da un
video. A riguardo, il capo di Gabinetto della Casa Bianca, Denis
McDonough, interpellato dalla
emittente televisiva Cnn, si è detto
«infuriato» per l’accaduto.
pagina 4
L’OSSERVATORE ROMANO
lunedì-martedì 11-12 gennaio 2016
Nel riflettere «sulla grave emergenza
migratoria che stiamo affrontando, per
discernerne le cause, prospettare
delle soluzioni, vincere l’inevitabile paura che
accompagna un fenomeno così massiccio e
imponente», Papa Francesco ha ribadito
che bisogna «mettere la persona umana e
la sua dignità al cuore di ogni risposta
umanitaria». Occasione è stato il discorso
al corpo diplomatico accreditato presso
la Santa Sede, riunito lunedì mattina,
11 gennaio, nella Sala Regia per
la tradizionale udienza di inizio anno.
L’incontro, come di consueto, ha offerto
al Pontefice l’occasione per un’ampia
panoramica della situazione internazionale.
Nel discorso al corpo diplomatico il Papa si sofferma sulla grave emergenza dei profughi e dei rifugiati
La persona al centro delle politiche migratorie
Eccellenze, Signore e Signori,
Vi porgo un cordiale benvenuto a questo
appuntamento annuale, che mi offre l’opportunità di presentarVi gli auguri per il
nuovo anno, consentendomi di riflettere
insieme con Voi sulla situazione di questo
nostro mondo, benedetto e amato da Dio,
eppure travagliato e afflitto da tanti mali.
Ringrazio il nuovo Decano del Corpo Diplomatico, Sua Eccellenza il Signor Armindo Fernandes do Espírito Santo Vieira,
Ambasciatore di Angola, per le amabili parole che mi ha indirizzato a nome dell’intero Corpo Diplomatico accreditato presso
la Santa Sede, mentre desidero ricordare in
modo speciale — a quasi un mese dalla
Nel saluto del decano
Il pane
di san Francesco di Paola
Davanti all’intensificarsi di numerosi conflitti in
tutti i continenti «il mondo possa comprendere
che c’è sempre qualcosa da condividere»:
richiama un famoso miracolo di san Francesco
di Paola l’immagine scelta dal decano del corpo
diplomatico accreditato presso la Santa Sede,
per esprimere l’auspicio che «tutti possano
trovare il pane» da condividere «per soddisfare i
bisogni degli uomini».
Nel discorso rivolto a Papa Francesco all’inizio
dell’udienza, l’ambasciatore dell’Angola,
Armindo Fernandes do Espírito Santo Vieira, ha
infatti ricordato che in questo 2016 ricorre il
sesto centenario della nascita del santo calabrese
(27 marzo 1416), sottolineando come nella
biografia del fondatore dell’ordine dei minimi si
legga che un giorno mentre era in cammino,
sentendosi dire «da alcuni lavoratori poveri che
essi non avevano nulla da condividere, li invitò
a controllare nelle loro bisacce, dove, stupefatti,
trovarono del pane fresco».
Parlando per la prima volta al Pontefice come
decano, il diplomatico in francese ha preso
spunto dalle «innumerevoli situazioni tragiche
che si verificano in un mondo desideroso di
pace» per richiamare l’importanza del perdono,
così come l’ha sottolineata lo stesso Pontefice
convocando il giubileo straordinario della
misericordia. In tal senso, ha aggiunto, i
messaggi papali diventano «una luce che cerca
di illuminare le coscienze più ostinatamente
addormentate».
Ripercorrendo poi le principali tappe
dell’attività di Francesco nel 2015, l’ambasciatore
ha rimarcato in particolare il Sinodo dei vescovi
sulla famiglia, «in cui la Chiesa ha confermato
l’amore che ella riserva a tutte le persone, nelle
diverse situazioni che esse vivono durante
l’esistenza». Il diplomatico si è soffermato
quindi sui viaggi apostolici e per ogni
continente ha individuato un tema guida: in
Asia, l’importanza della tolleranza e della
cooperazione tra le nazioni, e al contempo la
speranza che la Chiesa ripone nei giovani; in
Europa, il rilancio del dialogo e della
convivenza pacifica; in America, la conoscenza
della storia e delle radici come fonti di
ispirazione per la costruzione della pace. E in
tale contesto, ha fatto notare, «grazie al prezioso
contributo riconosciuto di vostra Santità, è stato
possibile assistere al ristabilimento delle
relazioni, interrotte per decenni, tra due
nazioni»: ovvero Cuba e Stati Uniti. Quanto
all’Africa, «aprendo a Bangui, la prima porta
santa del giubileo», Francesco ha «coronato un
cammino di speranza. Ha mostrato al mondo
che il cuore della Chiesa è ovunque ed è vicino
soprattutto a quanti soffrono di più».
Infine il decano ha accennato alle sfide
ambientali trattate nella Laudato si’, alla
dimensione planetaria assunta dal terrorismo e
all’intolleranza che diventa persecuzione
religiosa. In proposito ha rimarcato l’attualità
della dichiarazione conciliare Nostra aetate e ha
citato Paolo VI, il quale affermava che la Chiesa
esorta gli uomini a vivere insieme il loro comune
destino. Tuttavia, ha constatato l’ambasciatore,
la violenza sta ora colpendo intere nazioni, con
particolari conseguenze per le categorie più
vulnerabili della popolazione: donne , bambini,
giovani e anziani. Inoltre, peggiora
drasticamente la povertà, che è anche un fattore
decisivo nell’attuale crisi migratoria. Da qui gli
auspici di condivisione tra i vari Paesi, con la
speranza conclusiva che il giubileo possa
realizzare in pieno il suo spirito di perdono e di
grazia per tutti.
lunedì-martedì 11-12 gennaio 2016
Ed esorta l’Europa a non smarrire i suoi principi di umanità, rispetto e solidarietà
scomparsa — i compianti Ambasciatori di
Cuba, Rodney Alejandro López Clemente,
e della Liberia, Rudolf P. von Ballmoos.
L’occasione mi è gradita anche per rivolgere un particolare pensiero a quanti partecipano per la prima volta a questo incontro, rilevando con soddisfazione che, nel
corso dell’ultimo anno, il numero di Ambasciatori residenti a Roma si è ulteriormente accresciuto. Si tratta di un significativo segno dell’attenzione con la quale la
Comunità internazionale segue l’attività diplomatica della Santa Sede. Ne sono una
ulteriore prova gli Accordi internazionali
sottoscritti o ratificati nel corso dell’anno
appena concluso. In particolare, desidero
qui citare le intese specifiche in materia fiscale firmate con l’Italia e gli Stati Uniti
d’America, che testimoniano l’accresciuto
impegno della Santa Sede in favore di una
più ampia trasparenza nelle questioni economiche. Non meno importanti sono gli
accordi di carattere generale, volti a regolare aspetti essenziali della vita e dell’attività
della Chiesa nei vari Paesi, quale l’intesa
siglata a Díli con la Repubblica Democratica di Timor-Leste.
Parimenti, desidero richiamare lo scambio degli Strumenti di Ratifica dell’Accordo con il Ciad sullo statuto giuridico della
Chiesa cattolica nel Paese, come pure l’Accordo firmato e ratificato con la Palestina.
Si tratta di due accordi che, unitamente al
Memorandum d’Intesa tra la Segreteria di
Stato e il Ministero degli Affari Esteri del
Kuwait, dimostrano, tra l’altro, come la
convivenza pacifica fra appartenenti a religioni diverse sia possibile, laddove la libertà religiosa è riconosciuta e l’effettiva possibilità di collaborare all’edificazione del
bene comune, nel reciproco rispetto
dell’identità culturale di ciascuno, è garantita.
D’altra parte, ogni esperienza religiosa
autenticamente vissuta non può che promuovere la pace. Ce lo ricorda il Natale
che abbiamo da poco celebrato e nel quale
abbiamo contemplato la nascita di un
bambino inerme, «chiamato: Consigliere
ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace» (cfr. Is 9, 5). Il
mistero dell’Incarnazione ci mostra il vero
volto di Dio, per il quale potenza non significa forza e distruzione, bensì amore;
giustizia non significa vendetta, bensì misericordia. È in questa prospettiva che ho
inteso indire il Giubileo straordinario della
Misericordia, inaugurato eccezionalmente a
Bangui nel corso del mio viaggio apostolico in Kenya, Uganda e Repubblica Centroafricana. In un Paese lungamente provato da fame, povertà e conflitti, dove la violenza fratricida degli ultimi anni ha lasciato ferite profonde negli animi, lacerando la
comunità nazionale e generando miseria
materiale e morale, l’apertura della Porta
Santa della Cattedrale di Bangui ha voluto
essere un segno di incoraggiamento ad alzare lo sguardo, a riprendere il cammino e
a ritrovare le ragioni del dialogo. Laddove
il nome di Dio è stato abusato per commettere ingiustizia, ho voluto ribadire, insieme con la comunità musulmana della
Repubblica Centroafricana, che «chi dice
di credere in Dio dev’essere anche un uomo o una donna di pace» (Incontro con la
comunità musulmana, Bangui, 30 novembre
2015), e dunque di misericordia, giacché
non si può mai uccidere nel nome di Dio.
Solo una forma ideologica e deviata di religione può pensare di rendere giustizia nel
nome dell’Onnipotente, deliberatamente
massacrando persone inermi, come è avvenuto nei sanguinari attentati terroristici dei
mesi scorsi in Africa, Europa e Medio
O riente.
La misericordia è stato come il “filo conduttore” che ha guidato i miei viaggi apostolici già nel corso dell’anno passato. Mi
riferisco anzitutto alla visita a Sarajevo, città profondamente ferita dalla guerra nei
Balcani e capitale di un Paese, la Bosnia
ed Erzegovina, che riveste uno speciale significato per l’Europa e per il mondo intero. Quale crocevia di culture, nazioni e religioni si sta sforzando, con esiti positivi,
di costruire sempre nuovi ponti, di valorizzare ciò che unisce e di guardare alle differenze come opportunità di crescita nel rispetto di tutti. Ciò è possibile mediante un
dialogo paziente e fiducioso, che sa far
propri i valori della cultura di ciascuno e
L’apertura della porta santa a Bangui il 29 novembre
accogliere il bene proveniente dalle esperienze altrui (cfr. Incontro con le Autorità,
Sarajevo, 6 giugno 2015).
Il mio pensiero va poi al viaggio in Bolivia, Ecuador e Paraguay, dove ho incontrato popoli che non si arrendono dinanzi
alle difficoltà e affrontano con coraggio,
determinazione e spirito di fraternità le numerose sfide che li affliggono, a partire
dalla diffusa povertà e dalle disuguaglianze sociali. Nel corso del viaggio a Cuba e
negli Stati Uniti d’America ho potuto abbracciare due Paesi che sono stati lungamente divisi e che hanno deciso di scrivere
una nuova pagina della storia, intraprendendo un cammino di ravvicinamento e di
riconciliazione.
A Filadelfia, in occasione dell’Incontro
Mondiale delle Famiglie, come pure nel
corso del viaggio in Sri Lanka e nelle Filippine e con il recente Sinodo dei Vescovi,
ho richiamato l’importanza della famiglia,
che è la prima è più importante scuola di
misericordia, nella quale si impara a scoprire il volto amorevole di Dio e dove la
nostra umanità cresce e si sviluppa. Purtroppo, conosciamo le numerose sfide che
la famiglia deve affrontare in questo tempo, in cui è «minacciata dai crescenti tentativi da parte di alcuni per ridefinire la
stessa istituzione del matrimonio mediante
il relativismo, la cultura dell’effimero, una
mancanza di apertura alla vita» (Incontro
con le famiglie, Manila, 16 gennaio 2015).
C’è oggi una diffusa paura dinanzi alla definitività che la famiglia esige e ne fanno le
spese soprattutto i più giovani, spesso fragili e disorientati, e gli anziani che finiscono per essere dimenticati e abbandonati.
Al contrario, «dalla fraternità vissuta in famiglia, nasce (...) la solidarietà nella società» (Incontro con la società civile, Quito, 7
luglio 2015), che ci porta ad essere responsabili l’uno dell’altro. Ciò è possibile solo
se nelle nostre case, così come nelle nostre
società, non lasciamo sedimentare le fatiche e i risentimenti, ma diamo posto al
dialogo, che è il migliore antidoto all’individualismo così ampiamente diffuso nella
cultura del nostro tempo.
Cari Ambasciatori,
Uno spirito individualista è terreno fertile per il maturare di quel senso di indifferenza verso il prossimo, che porta a trattarlo come mero oggetto di compravendita,
che spinge a disinteressarsi dell’umanità
degli altri e finisce per rendere le persone
pavide e ciniche. Non sono forse questi i
sentimenti che spesso abbiamo di fronte ai
poveri, agli emarginati, agli ultimi della società? E quanti ultimi abbiamo nelle nostre
società! Tra questi, penso soprattutto ai
migranti, con il loro carico di difficoltà e
sofferenze, che affrontano ogni giorno nella ricerca, talvolta disperata, di un luogo
ove vivere in pace e con dignità.
Vorrei perciò quest’oggi soffermarmi a
riflettere con Voi sulla grave emergenza
migratoria che stiamo affrontando, per discernerne le cause, prospettare delle soluzioni, vincere l’inevitabile paura che accompagna un fenomeno così massiccio e
imponente, che nel corso del 2015 ha riguardato soprattutto l’Europa, ma anche
diverse regioni dell’Asia e il nord e il centro America.
«Non aver paura e non spaventarti, perché il Signore, tuo Dio, è con te, dovunque tu vada» (Gs 1, 9). È la promessa che
Dio fa a Giosuè e che mostra quanto il Signore accompagni ogni persona, soprattutto chi è in una situazione di fragilità come
quella di chi cerca rifugio in un Paese straniero. Invero, tutta la Bibbia ci narra la
storia di un’umanità in cammino, perché
l’essere in movimento è connaturale all’uomo. La sua storia è fatta di tante migrazioni, talvolta maturate come consapevolezza
del diritto ad una libera scelta, sovente
dettate da circostanze esteriori. Dall’esilio
dal paradiso terrestre fino ad Abramo in
marcia verso la terra promessa; dal racconto dell’Esodo alla deportazione in Babilonia, la Sacra Scrittura narra fatiche e dolori, desideri e speranze, che sono simili a
quelli delle centinaia di migliaia di persone
in marcia ai nostri giorni, con la stessa determinazione di Mosè di raggiungere una
terra nella quale scorra “latte e miele” (cfr.
Es 3, 17), dove poter vivere liberi e in pace.
E così, oggi come allora, udiamo il grido di Rachele che piange i suoi figli perché non sono più (cfr. Ger 31, 15; Mt 2, 18).
È la voce delle migliaia di persone che
piangono in fuga da guerre orribili, da
persecuzioni e violazioni dei diritti umani,
o da instabilità politica o sociale, che rendono spesso impossibile la vita in patria. È
il grido di quanti sono costretti a fuggire
per evitare le barbarie indicibili praticate
verso persone indifese, come i bambini e i
disabili, o il martirio per la sola appartenenza religiosa.
Come allora, udiamo la voce di Giacobbe che dice ai suoi figli «Andate laggiù e
comprate [il grano] per noi, perché possiamo conservarci in vita e non morire» (Gen
42, 2). È la voce di quanti fuggono dalla
miseria estrema, per l’impossibilità di sfamare la famiglia o di accedere alle cure
mediche e all’istruzione, dal degrado senza
prospettive di alcun progresso, o anche a
causa dei cambiamenti climatici e di condizioni climatiche estreme. Purtroppo, è noto come la fame sia ancora una delle piaghe più gravi del nostro mondo, con milioni di bambini che ogni anno muoiono a
causa di essa. Duole, tuttavia, constatare
che spesso questi migranti non rientrano
nei sistemi internazionali di protezione in
base agli accordi internazionali.
Come non vedere in tutto ciò il frutto di
quella “cultura dello scarto” che mette in
pericolo la persona umana, sacrificando
Nel 2015 firmati quattro accordi
Sono 180 gli Stati che attualmente intrattengono relazioni diplomatiche con la Santa Sede. A essi vanno aggiunti l’Unione europea e il Sovrano Militare Ordine di
Malta, come anche la missione permanente dello Stato di Palestina. Per quanto riguarda le organizzazioni internazionali, lo scorso 4 giugno la Santa Sede è diventata Osservatore presso la Comunità caraibica (Caricom). Le cancellerie di ambasciata con sede a Roma, incluse quelle dell’Unione europea e del Sovrano Militare Ordine di Malta, sono 86: nel 2015 si sono aggiunte le ambasciate di Belize, di Burkina Faso e di Guinea Equatoriale. Hanno sede a Roma anche la missione dello Stato di Palestina e gli uffici della Lega degli Stati arabi, dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni e dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.
Nel corso del 2015 sono stati firmati quattro accordi: il 1° aprile, la Convenzione
tra la Santa Sede e il Governo della Repubblica Italiana in materia fiscale; il 10
giugno, l’Accordo tra la Santa Sede, anche a nome e per conto dello Stato della
Città del Vaticano, e gli Stati Uniti d’America per favorire l’osservanza a livello internazionale degli obblighi fiscali e attuare la Foreign Account Tax Compliance Act
(Fatca); il 26 giugno, l’Accordo globale tra la Santa Sede e lo Stato di Palestina; e
il 14 agosto, l’Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica Democratica di Timor-Leste sullo statuto giuridico della Chiesa cattolica. Il 22 giugno 2015 è stato ratificato
l’Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica del Ciad sullo statuto giuridico della
Chiesa cattolica, che era stato firmato il 6 novembre 2013. Il 10 settembre, poi, è
stato siglato un memorandum d’intesa tra la Segreteria di Stato e il Ministero degli
Affari esteri dello Stato del Kuwait sulla conduzione delle consultazioni bilaterali.
uomini e donne agli idoli del profitto e del
consumo? È grave assuefarci a queste situazioni di povertà e di bisogno, ai drammi di tante persone e farle diventare “normalità”. Le persone non sono più sentite
come un valore primario da rispettare e tutelare, specie se povere o disabili, se “non
servono ancora” — come i nascituri —, o
“non servono più” — come gli anziani. Siamo diventati insensibili ad ogni forma di
spreco, a partire da quello alimentare, che
è tra i più deprecabili, quando ci sono
molte persone e famiglie che soffrono fame
e malnutrizione (cfr. Udienza generale, 5
giugno 2013).
La Santa Sede auspica che il Primo Vertice Umanitario Mondiale, convocato nel
maggio prossimo dalle Nazioni Unite, possa riuscire, nel triste quadro odierno di
conflitti e disastri, nel suo intento di mettere la persona umana e la sua dignità al
cuore di ogni risposta umanitaria. Occorre
un impegno comune che rovesci decisamente la cultura dello scarto e dell’offesa
della vita umana, affinché nessuno si senta
trascurato o dimenticato e altre vite non
vengano sacrificate per la mancanza di risorse e, soprattutto, di volontà politica.
Purtroppo, oggi come allora, sentiamo
la voce di Giuda che suggerisce di vendere
il proprio fratello (cfr. Gen 37, 26-27). È
l’arroganza dei potenti che strumentalizzano i deboli, riducendoli ad oggetti per fini
egoistici o per calcoli strategici e politici.
Laddove è impossibile una migrazione regolare, i migranti sono spesso costretti a
scegliere di rivolgersi a chi pratica la tratta
o il contrabbando di esseri umani, pur essendo in gran parte coscienti del pericolo
di perdere durante il viaggio i beni, la dignità e perfino la vita. In questa prospettiva, rinnovo ancora l’appello a fermare il
traffico di persone, che mercifica gli esseri
umani, specialmente i più deboli e indifesi.
E rimarranno sempre indelebilmente impresse nelle nostre menti e nei nostri cuori
le immagini dei bambini morti in mare,
vittime della spregiudicatezza degli uomini
e dell’inclemenza della natura. Chi poi sopravvive e approda ad un Paese che lo accoglie porta indelebilmente le cicatrici profonde di queste esperienze, oltre a quelle
legate agli orrori che sempre accompagnano guerre e violenze.
Come allora, anche oggi si ode l’Angelo
ripetere: «Alzati, prendi con te il bambino
e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò» (Mt 2, 13). È la voce
che sentono i molti migranti che non lascerebbero mai il proprio Paese se non vi fossero costretti. Tra questi vi sono numerosi
cristiani che sempre più massicciamente
hanno abbandonato nel corso degli ultimi
anni le proprie terre, che pure hanno abitato fin dalle origini del cristianesimo.
Infine, anche oggi ascoltiamo la voce
del salmista che ripete: «Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di
Sion» (Sal 136 [137], 1). È il pianto di
quanti farebbero volentieri ritorno nei propri Paesi, se vi trovassero idonee condizioni di sicurezza e di sussistenza. Anche qui
il mio pensiero va ai cristiani del Medio
Oriente desiderosi di contribuire, come cittadini a pieno titolo, al benessere spirituale
e materiale delle rispettive Nazioni.
Gran parte delle cause delle migrazioni
si potevano affrontare già da tempo. Si sarebbero così potute prevenire tante sciagure o, almeno, mitigarne le conseguenze più
crudeli. Anche oggi, e prima che sia troppo tardi, molto si potrebbe fare per fermare le tragedie e costruire la pace. Ciò significherebbe però rimettere in discussione
abitudini e prassi consolidate, a partire
dalle problematiche connesse al commercio
degli armamenti, al problema dell’approvvigionamento di materie prime e di energia, agli investimenti, alle politiche finanziarie e di sostegno allo sviluppo, fino alla
grave piaga della corruzione. Siamo consapevoli poi che, sul tema della migrazione,
occorra stabilire progetti a medio e lungo
termine che vadano oltre la risposta di
emergenza. Essi dovrebbero da un lato
aiutare effettivamente l’integrazione dei
migranti nei Paesi di accoglienza e, nel
contempo, favorire lo sviluppo dei Paesi di
provenienza con politiche solidali, che però non sottomettano gli aiuti a strategie e
pratiche ideologicamente estranee o contrarie alle culture dei popoli cui sono indirizzate.
Senza dimenticare altre situazioni drammatiche, tra le quali penso particolarmente
alla frontiera fra Messico e Stati Uniti
d’America, che lambirò recandomi a Ciudad Juárez il mese prossimo, vorrei dedicare un pensiero speciale all’Europa. Infatti,
nel corso dell’ultimo anno essa è stata interessata da un imponente flusso di profughi
— molti dei quali hanno trovato la morte
nel tentativo di raggiungerla —, che non ha
precedenti nella sua storia recente, nemme-
no al termine della seconda guerra mondiale. Molti migranti provenienti dall’Asia
e dall’Africa, vedono nell’Europa un punto
di riferimento per principi come l’uguaglianza di fronte al diritto e valori inscritti
nella natura stessa di ogni uomo, quali
l’inviolabilità della dignità e dell’uguaglianza di ogni persona, l’amore al prossimo senza distinzione di origine e di appartenenza, la libertà di coscienza e la solidarietà verso i propri simili.
Tuttavia, i massicci sbarchi sulle coste
del Vecchio Continente sembrano far vacillare il sistema di accoglienza, costruito faticosamente sulle ceneri del secondo conflitto mondiale e che costituisce ancora un faro di umanità cui riferirsi. Di fronte all’imponenza dei flussi e agli inevitabili problemi connessi, sono sorti non pochi interrogativi sulle reali possibilità di ricezione e
di adattamento delle persone, sulla modifica della compagine culturale e sociale dei
Paesi di accoglienza, come pure sul ridisegnarsi di alcuni equilibri geo-politici regionali. Altrettanto rilevanti sono i timori per
la sicurezza, esasperati oltremodo dalla dilagante minaccia del terrorismo internazionale. L’attuale ondata migratoria sembra
minare le basi di quello “spirito umanistico” che l’Europa da sempre ama e difende
(cfr. Discorso al Parlamento Europeo, Strasburgo, 25 novembre 2014). Tuttavia, non
ci si può permettere di perdere i valori e i
principi di umanità, di rispetto per la dignità di ogni persona, di sussidiarietà e di
solidarietà reciproca, quantunque essi possano costituire, in alcuni momenti della
storia, un fardello difficile da portare. Desidero, dunque, ribadire il mio convincimento che l’Europa, aiutata dal suo grande
patrimonio culturale e religioso, abbia gli
strumenti per difendere la centralità della
persona umana e per trovare il giusto equilibrio fra il duplice dovere morale di tutelare i diritti dei propri cittadini e quello di
garantire l’assistenza e l’accoglienza dei
migranti (cfr. ibid.).
In pari tempo, sento la necessità di
esprimere gratitudine per tutte le iniziative
prese per favorire una dignitosa accoglienza delle persone, quali, fra gli altri, il Fondo Migranti e Rifugiati della Banca di Sviluppo del Consiglio d’Europa, nonché per
l’impegno di quei Paesi che hanno mostrato un generoso atteggiamento di condivisione. Mi riferisco anzitutto alle Nazioni
vicine alla Siria, che hanno dato risposte
immediate di assistenza e di accoglienza,
soprattutto il Libano, dove i rifugiati costituiscono un quarto della popolazione complessiva, e la Giordania, che non ha chiuso
le frontiere nonostante ospitasse già centinaia di migliaia di rifugiati. Parimenti non
bisogna dimenticare gli sforzi di altri Paesi
impegnati in prima linea, tra i quali specialmente la Turchia e la Grecia. Una particolare riconoscenza desidero esprimere
all’Italia, il cui impegno deciso ha salvato
molte vite nel Mediterraneo e che tuttora
si fa carico sul suo territorio di un ingente
numero di rifugiati. Auspico che il tradizionale senso di ospitalità e solidarietà che
contraddistingue il popolo italiano non
venga affievolito dalle inevitabili difficoltà
del momento, ma, alla luce della sua tradizione plurimillenaria, sia capace di accogliere ed integrare il contributo sociale,
economico e culturale che i migranti possono offrire.
È importante che le Nazioni in prima linea nell’affrontare l’attuale emergenza non
siano lasciate sole, ed è altrettanto indispensabile avviare un dialogo franco e rispettoso tra tutti i Paesi coinvolti nel problema — di provenienza, di transito o di
accoglienza — affinché, con una maggiore
audacia creativa, si ricerchino soluzioni
nuove e sostenibili. Non si possono, infatti, pensare nell’attuale congiuntura soluzioni perseguite in modo individualistico dai
singoli Stati, poiché le conseguenze delle
scelte di ciascuno ricadono inevitabilmente
sull’intera Comunità internazionale. È noto, infatti, che le migrazioni costituiranno
un elemento fondante del futuro del mondo più di quanto non l’abbiano fatto finora e che le risposte potranno essere frutto
solo di un lavoro comune, che sia rispettoso della dignità umana e dei diritti delle
persone. L’Agenda di Sviluppo adottata
nel settembre scorso dalle Nazioni Unite
per i prossimi 15 anni, che affronta molti
dei problemi che spingono alla migrazione,
come pure altri documenti della Comunità
internazionale per gestire la questione migratoria, potranno trovare un’applicazione
coerente alle aspettative se sapranno rimettere la persona al centro delle decisioni politiche a tutti i livelli, vedendo l’umanità
come una sola famiglia e gli uomini come
fratelli, nel rispetto delle reciproche differenze e convinzioni di coscienza.
Nell’affrontare la questione migratoria
non si potranno tralasciare, infatti, i risvolti culturali connessi, a partire
da quelli legati all’appartenenza religiosa. L’estremismo
e il fondamentalismo trovano
un terreno fertile non solo in
una strumentalizzazione della
religione per fini di potere,
ma anche nel vuoto di ideali
e nella perdita d’identità —
anche religiosa —, che drammaticamente connota il cosiddetto Occidente. Da tale
vuoto nasce la paura che
spinge a vedere l’altro come
un pericolo ed un nemico, a
chiudersi in sé stessi, arroccandosi su posizioni preconcette. Il fenomeno migratorio
pone, dunque, un serio interrogativo culturale, al quale
non ci si può esimere dal rispondere. L’accoglienza può
essere dunque un’occasione
propizia per una nuova comprensione e apertura di orizzonte, sia per chi è accolto, il
quale ha il dovere di rispettare i valori, le tradizioni e le
leggi della comunità che lo
ospita, sia per quest’ultima,
chiamata a valorizzare quanto ogni immigrato può offrire
a vantaggio di tutta la comunità. In tale ambito, la Santa
Sede rinnova il proprio impegno in campo ecumenico
ed interreligioso per instaurare un dialogo
sincero e leale che, valorizzando le particolarità e l’identità propria di ciascuno, favorisca una convivenza armoniosa fra tutte le
componenti sociali.
Distinti Membri del Corpo Diplomatico,
Il 2015 ha visto la conclusione di importanti intese internazionali, le quali fanno
ben sperare per il futuro. Penso anzitutto
al cosiddetto Accordo sul nucleare iraniano, che auspico contribuisca a favorire un
clima di distensione nella Regione, come
pure al raggiungimento dell’atteso accordo
sul clima nel corso della Conferenza di Parigi. Un’intesa significativa — quest’ultima
— che rappresenta un importante risultato
per l’intera Comunità internazionale e che
mette in luce una forte presa di coscienza
collettiva circa la grave responsabilità che
ciascuno, individui e Nazioni, ha di custodire il creato, promuovendo una «cultura
della cura che impregni tutta la società»
(Enc. Laudato si’, 231). È ora fondamentale
che gli impegni assunti non rappresentino
solo un buon proposito, ma costituiscano
per tutti gli Stati un effettivo obbligo a
porre in essere le azioni necessarie per salvaguardare la nostra amata Terra, a beneficio dell’intera umanità, soprattutto delle
generazioni future.
Da parte sua, l’anno da poco iniziato si
preannuncia carico di sfide, e non poche
tensioni si sono già affacciate all’orizzonte.
Penso soprattutto ai gravi contrasti sorti
nella regione del Golfo Persico, come pure
al preoccupante esperimento militare condotto nella penisola coreana. Auspico che
le contrapposizioni lascino spazio alla voce
della pace e alla buona volontà di cercare
intese. In tale prospettiva, rilevo con soddisfazione come non manchino gesti significativi e particolarmente incoraggianti. Mi
riferisco in particolare al clima di pacifica
convivenza nel quale si sono svolte le recenti elezioni nella Repubblica Centroafricana e che costituisce un segno positivo
della volontà di proseguire il cammino intrapreso verso una piena riconciliazione
nazionale. Penso, inoltre, alle nuove iniziative avviate a Cipro per sanare una divisione di lunga data e agli sforzi intrapresi dal
popolo colombiano per superare i conflitti
del passato e conseguire la pace da tempo
agognata. Tutti guardiamo poi con speranza gli importanti passi intrapresi dalla Comunità internazionale per raggiungere una
soluzione politica e diplomatica della crisi
in Siria, che ponga fine alle sofferenze, durate troppo a lungo, della popolazione. Parimenti, sono incoraggianti i segnali provenienti dalla Libia, che fanno sperare in un
rinnovato impegno per far cessare le violenze e ritrovare l’unità del Paese. D’altra
parte, appare sempre più evidente che solamente un’azione politica comune e concordata potrà contribuire ad arginare il dilagare dell’estremismo e del fondamentalismo, con i suoi risvolti di matrice terroristica, che mietono innumerevoli vittime
tanto in Siria e in Libia, come in altri Paesi, quali Iraq e Yemen.
Quest’Anno Santo della Misericordia sia
anche l’occasione di dialogo e riconciliazione volto all’edificazione del bene comune in Burundi, nella Repubblica Democratica del Congo e in Sud Sudan. Soprattutto sia un tempo propizio per porre definitivamente termine al conflitto nelle regioni
orientali dell’Ucraina. È di fondamentale
importanza il sostegno che la Comunità
internazionale, i singoli Stati e le organizzazioni umanitarie potranno offrire al Paese sotto molteplici punti di vista, affinché
esso superi l’attuale crisi.
La sfida che più di ogni altra ci attende
è però quella di vincere l’indifferenza per
costruire insieme la pace (cfr. Vinci l’indifferenza e conquista la pace, Messaggio per la
XLIX Giornata Mondiale della Pace, 8 dicembre 2015), la quale rimane un bene da
perseguire sempre. Purtroppo tra le tante
parti del nostro amato mondo che la bramano ardentemente, vi è la Terra che Dio
ha prediletto e scelto per mostrare a tutti il
volto della sua misericordia. Il mio augurio
è che questo nuovo anno possa sanare le
profonde ferite che separano Israeliani e
Palestinesi e permettere la pacifica convivenza di due popoli che — ne sono certo —
dal profondo del cuore null’altro chiedono
che pace!
Eccellenze, Signore e Signori,
A livello diplomatico, la Santa Sede non
smetterà mai di lavorare perché la voce
della pace possa essere udita fino agli
estremi confini della terra. Rinnovo pertanto la piena disponibilità della Segreteria
di Stato a collaborare con Voi nel favorire
un dialogo costante tra la Sede Apostolica
e i Paesi che rappresentate a beneficio
dell’intera Comunità internazionale, con
l’intima certezza che quest’anno giubilare
potrà essere l’occasione propizia perché la
fredda indifferenza di tanti cuori sia vinta
dal calore della misericordia, dono prezioso di Dio, che trasforma il timore in amore
e ci rende artefici di pace. Con questi sentimenti rinnovo a ciascuno di Voi, alle Vostre famiglie, ai Vostri Paesi i più fervidi
auguri di un anno pieno di benedizioni.
Grazie.
pagina 5
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 6
lunedì-martedì 11-12 gennaio 2016
Resti archeologici a Butrinto
Discrezione
e civiltà
da Tirana
ROSSELLA FABIANI
ove il fango è più
dolce del miele».
Questo antico proverbio albanese rivela
l’immenso
amore che gli albanesi hanno per la propria terra. È ancora poco conosciuta, ma
ha tanto da dare. L’Albania sta vivendo
un momento particolare di riconciliazione
con il suo passato e di costruzione del
suo futuro. È un Paese che deve mettere
insieme la tradizione e il tempo che non
si ferma, e che se vissuto nel modo giusto
può arricchire la storia di ogni nazione.
Perché lo scorrere del tempo permette di
incontrare uomini e donne straordinari
che cambiano il volto di un territorio riscrivendone la storia. Ma il bene non
viaggia mai da solo. C’è sempre il male
con lui.
E questa è la storia dell’Albania come
abbiamo potuto conoscere durante un
viaggio organizzato dall’Agenzia nazionale del turismo. L’occasione è stato il festival del folclore più importante del Paese
che si tiene ogni quattro anni ad Argirocastro (che significa fortezza argentata),
città «dalle mille pietre». Qui per l’evento arrivano gli albanesi dal Kosovo, dalla
Macedonia, dal Montenegro, gli arbresch
e gli albanesi della diaspora. Tutti i gruppi — vestiti negli abiti tradizionali, ricamati con una foresta di simboli che raccontano la loro antica storia — si esibiscono nei canti tradizionali che parlano di
epos e di amore. Lungo la salita che conduce al castello, all’incrocio di cinque
stradine, inizia il cuore della città vecchia, con i tetti in pietra di Iosa, i caffè
tradizionali e le botteghe di ceramiche
dipinte a mano, tessuti di lana e cotone.
Imperdibili sono le case ottomane appartenute ad alcune famiglie nobili locali.
Ma qui sono nati personaggi che hanno scritto la storia dell’Albania. Il dittatore Henver Hoxa, la cui casa oggi ospita
il museo etnografico con un’importante
raccolta degli antichi oggetti delle tradizioni dei girokastrini. Musine Kokalari,
la prima albanese a lottare per i diritti
delle donne e una società libera, convinta
dell’importanza dell’istruzione per tutti
come unico strumento per cambiare la
società. E lo scrittore Ismail Kadare, la
cui abitazione oggi è in restauro, a cura
dell’Unesco.
Gli anni di Hoxa si sono consumati
nel tentativo di cancellare Dio e tutta
«D
Sono due le grandi ferite aperte
Le stragi del comunismo
e una mentalità da clan
che ancora sopravvive
in alcuni villaggi di montagna
l’intellighenzia del Paese. In migliaia sono stati uccisi o perseguitati. Ma in tanti
hanno cercato di combattere il dittatore:
tra questi anche Musine Kokalari che si è
schierata contro il regime comunista ispirando la nascita del partito oggi all’opposizione. Kokalari ha studiato alla Sapienza di Roma dove si è laureata nel 1941
con una tesi su Naim Frasheri, poeta albanese appartenente alla confraternita
islamica dei sufi Bektashi. Al suo ritorno
in Albania, Kokalari ha chiaro che il suo
unico desiderio è quello di scrivere. Diventa membro della Lega Albanese degli
scrittori e artisti di cui è presidente il politico e scrittore Sejfulla Maleshova che
Hoxa in seguito accuserà di simpatizzare
per la destra, costringendolo a vivere isolato e in povertà. Kokalari scrive tre libri
di racconti e si impegna per il suo Paese,
ma il suo amore per la democrazia e la
giustizia costerà anche a lei il carcere e
l’internamento. Oggi ad Argirocastro vive
la sua pronipote, Arieta Kokalari, animata dalla stessa passione, e determinata a
mantenere vivo il ricordo di questa grande intellettuale con un museo a lei dedicato. «Un’intera classe di intellettuali,
dissidenti politici, religiosi musulmani e
cristiani cancellata. Centinaia di arresti,
detenzioni e torture senza uno straccio di
processo. Decine e decine di sparizioni.
Hoxa — ci dice Arieta — ha voluto distruggere tutti gli intellettuali e la classe
nobile del Paese».
E uno di questi, che è sopravvissuto, ci
accoglie in quello che una volta era il suo
palazzo e ci fa visitare le stanze affrescate
e decorate con intarsi lignei. Adesso è un
museo. Saim Skenduli è nato qui e rappresenta la nona generazione del casato
degli Skenduli. «Se lo Stato mi restituisse quelle che erano le proprietà della mia
famiglia, non ci sarebbe bisogno di nessuna organizzazione per tutelare e conservare quella che era la mia casa». Ma
di ALBERTO FABIO AMBROSIO
a commemorazione degli avvenimenti
di Parigi, quelli del gennaio e del novembre 2015, si è realizzata in numerose iniziative culturali e sociali, non
tutte conosciute dal grande pubblico.
È il caso, nella stessa giornata, di due eventi apparentemente lontani l’uno dall’altro, discreti per
numero di persone coinvolte, ma di grande valore simbolico.
Da un lato, il pomeriggio del 9 gennaio, alla
Sorbona, nella sala degli Atti, alla presenza di
un pubblico scelto, il professore di filosofia della
normale di Lione, Bruno Pinchard, ha inaugurato ufficialmente la società dantesca di Francia
(Société dantesque de France). È una prima assoluta in questo Paese, anche se per un breve periodo è stata operante una società mediterranea
dedicata a Dante. Questa nuova società dantesca, il cui alto patronato scientifico è garantito
dalla fama internazionale dello storico Marc Fumaroli e del filosofo Jean-Luc Marion, si è data
come obiettivo non solo la diffusione nell’area
francese dell’autore della Commedia, ma anche di
proporre Dante come un ponte tra il pensiero
occidentale ed orientale, e più propriamente musulmano. Che i membri fondatori, qualche decina in tutto, fossero coscienti dell’atto simbolico
rappresentato dall’inaugurazione ufficiale di questa società dantesca — la fondazione vera e propria è avvenuta a Firenze nel mese di dicembre
scorso — conferma quanto anche un poeta, in
questo caso proprio Dante, possa giocare un ruolo di primo piano. L’intervento inaugurale ha
sottolineato infatti quanto il poeta fiorentino
possa diventare una figura di primo piano nella
distensione tra oriente ed occidente, in un’epoca
in cui tutto sembra dire il contrario. Basterebbe
rileggere il libro di Miguel Asín Palacios, recentemente ripubblicato in Italia, Dante e l’islam
(Milano, Luni Editore, 2015) per rendersi conto
quanto Dante sia stato l’uomo in cui la circolazione di idee e di saperi non aveva frontiere.
Lo stesso giorno, a distanza di qualche ora,
nel teatro Adyar — che nel XIX secolo era il teatro dei teosofi — parecchie decine di sufi di Francia si sono dati appuntamento per celebrare il
Mawlid, cioè la nascita del profeta dell’islam,
Muhammad. Quest’anno l’evento è caduto negli
stessi giorni della celebrazione della nascita di
Gesù, e per questo i sufi hanno rinviato l’iniziativa a un momento più consono per tutti.
La sala gremita di musulmani — poiché i sufi
restano tali — di tutte le provenienze, riuniti per
l’ascolto della musica spirituale delle diverse confraternite presenti. È stato un tripudio di musica
sufi, della gioia di adorazione semplice e intensa
nel Dio che venerano. Dall’India al Pakistan, dal
Marocco all’isola Mauritius, le diverse confraternite si sono date il cambio in un crescendo che
non si potrebbe definire se non mistico. Due
momenti tra i tanti sono stati di un’intensità particolare: il gruppo diretto da Shuaib Mustaq Qawwali, che ha portato un entusiasmo tutto fraterno nel lodare la maestà divina e il gruppo Rouh
Meknes diretto da Yassine Habibi, una delle migliori voci di tutto il Medio oriente. Alla serata
erano presenti vari membri del gruppo interreligioso Artigiani di pace (Artisans de paix), i quali
hanno testimoniato insieme ai sufi che è possibile superare le barriere che dividono oriente e occidente.
Ripensando a queste due semplici e quasi invisibili iniziative, una volta di più, si può pensare
che è nella discrezione che si sta creando una
nuova e vera civiltà di pace.
L
L’Albania tra tradizione e tempo che non si ferma
Il bene
non viaggia mai da solo
purtroppo oggi i terreni di zoteri (signore) Skenduli sono stati resi edificabili e la
restituzione appare alquanto difficile. In
piazza Topulli, la principale della città
vecchia, una targa di bronzo ricorda i
volti e i nomi di alcuni grandi di Argirocastro: oltre a Kadare, il linguista Eqrem
Cabej, tra i fondatori dell’Accademia delle Scienze, e Musine Kokalari che però
non ha il nome scritto come gli altri, retaggio di una vecchia mentalità dura a
morire, dove la donna conta ancora molto poco. Due le grandi ferite aperte: le
stragi del comunismo e una mentalità da
clan che ancora sopravvive in alcuni villaggi sulla montagna dove si mette in
pratica la legge del sangue come scritto
nel Kanun, un antico codice che regola
da secoli la vita sociale nelle zone più
profonde dell’Albania, soprattutto nel
nord.
Monsignor Angelo Massafra, arcivescovo di Scutari e Pult, conosce bene questa
realtà. Da anni è impegnato nella riconciliazione, pietra angolare del suo ministero
episcopale, legata alla rinascita della
Chiesa in Albania. «Riconciliazione con
Dio, ma anche con gli uomini e con le
donne e tra gli uomini e le donne»,
dice Massafra. Dopo la caduta del
comunismo, agli inizi degli anni Novanta l’Albania si è ritrovata in un
clima di totale anarchia, quando venne alla luce l’arretratezza economica
che aveva lasciato il regime passato e
l’isolamento dal resto dell’Europa.
Non solo. Povertà e criminalità diffusa avevano creato una situazione
esplosiva: tutti contro tutti. È da
quegli anni che il vescovo con i suoi
preti e con le religiose lavora accanto
alla gente per riconciliare gli animi, convinto che la riconciliazione del popolo è
sorretta da quella di Dio. Con il sorriso
sulle labbra ci invita a visitare il santuario
di Sant’Antonio di Padova a Lac, non
lontano dalle miniere di Kurbin, luogo di martirio di sacerdoti e laici e oggi meta di
pellegrinaggio per cattolici,
musulmani e ortodossi. Come
tutti i luoghi di culto, anche
questo fu distrutto durante il
comunismo e la chiesa con il
convento francescano sono
stati ricostruiti soltanto a fine
anni Novanta. A Scutari ci fa
visitare una vecchia proprietà
dei frati francescani che nel
1946 fu sequestrata e trasformata in carcere dal regime.
Qui vennero torturati religiosi, intellettuali, artisti e studiosi. Tra loro anche un’aspirante delle Stimmatine, Maria
Tuci per la quale è stato avviato il processo di beatificazione. Oggi ospita un convento dove vivono 13 clarisse
che custodiscono questo memoriale della persecuzione.
Tra i progetti di monsignor
Massafra anche quello di
aprire presto un museo con
gli oggetti liturgici, sacri e
devozionali da lui recuperati,
che erano stati nascosti dalle
famiglie durante la dittatura.
Un omaggio alla memoria
è anche il lavoro di Agron
Tufa, direttore dell’Istituto
per gli Studi sui crimini e le
conseguenze del comunismo
di Tirana. L’Istituto, l’ultimo
a nascere in ordine cronologico nell’est Europa grazie a
uno stanziamento di fondi statali nel
2011, «è la prima istituzione che prova a
fare chiarezza su quei 45 anni di terrore»
ci dice Tufa. Ospitato nell’edificio che un
tempo fu la residenza del luogotenente
generale del Re d’Italia, Francesco Jacomoni di San Savino, vi lavorano 14 persone. Fra i progetti portati avanti, c’è anche l’Enciclopedia delle vittime della dittatura, opera in 15 volumi (di cui tre già
pubblicati) che includono tutte le vittime,
i perseguitati e gli imprigionati del comunismo albanese. Un lavoro enorme che
passa dallo studio dei documenti dell’archivio di Stato — compreso quello segreto — alla raccolta diretta delle testimonianze dei sopravvissuti. «Andiamo a intervistarli uno a uno», ci spiega Tufa, docente di Teoria della traduzione alla Facoltà di giornalismo di Tirana. I loro racconti «sono spesso atroci». Una missione
nella missione è poi quella di fare emergere le storie dei dispersi del primo decennio della dittatura, «fucilati di cui
non si sa nulla e di cui non esiste traccia
o censimento, nemmeno nei documenti
riservati». Sabiha Kasimati, una delle figure femminili albanesi più prestigiose, è
una di questi: arrestata il 20 febbraio 1951
fu condannata a morte senza processo sei
giorni dopo.
Un capitolo a sé riguarda invece i religiosi albanesi, cattolici e musulmani, perseguitati, torturati, umiliati o eliminati tra
il 1945 e il 1967. Tra il 1967 e il 1975 fu
quindi la volta della distruzione fisica di
chiese e moschee o della loro trasformazione, fino ad arrivare al 1976, quando
l’ateismo fu imposto per Costituzione.
«Lo scorso anno, Papa Francesco ha incontrato a Tirana alcuni religiosi albanesi
sopravvissuti alla violenza del regime che
voleva sterminare chi credeva in Dio. Fino a ora lo Stato albanese non ha mai
chiesto perdono nemmeno per quei martiri cattolici», dice Tufa.
Artigianato a Berat
Ma la strada è aperta. Oggi l’Albania
vuole guardare avanti con fiducia e ci sarà il tempo per il perdono. Intanto si è
verificato un fatto significativo: dopo la
visita di Papa Francesco, un membro delle istituzioni ha deciso di farsi battezzare:
ancora si commuove quando ricorda quel
momento. A Tirana da poco è stato inaugurato il più grande mausoleo al mondo
dei Bektashi, la confraternita sufi guidata
Il Paese sta vivendo
un momento particolare
di riconciliazione con il suo passato
e di costruzione del suo futuro
oggi da Baba Mondi. I musulmani albanesi sono prevalentemente aderenti a
questa corrente religiosa, che in agosto si
riunisce in occasione del pellegrinaggio
sul monte Tomorr sulla tomba del loro
fondatore.
Ma l’Albania è anche cultura greca, bizantina, romana e turca. Case basse,
bianche con larghi finestroni e tetti rossi,
incorniciate da tralci di vite e cespugli di
rose profumate, sfilano lungo le strade
strette e tortuose della cittadella del XIV
secolo dove si vendono tessuti ricamati,
tovaglie di lino, marmellate e miele della
vicina montagna sacra di Tomorr. Qua e
là, alcune chiese ortodosse e qualche moschea. È Berat la «città delle mille finestre», che conserva l’atmosfera delle città
balcaniche d’influenza turca, con i suoi
svettanti minareti. Custodisce preziose
icone in stile bizantino realizzate nel XVI
secolo dal maestro Onufri (il più importante pittore di icone albanese) esposte
all’interno del museo a lui dedicato, nella
Chiesa della Dormizione di Santa Maria
(realizzata nel 1797 sulle rovine di una chiesa del X secolo). Delle 42 chiese bizantine
che esistevano all’interno delle mura della cittadella (o
Kala, dall’arabo), oggi ne rimangono otto.
Lasciando l’interno del
Paese e proseguendo verso
sud si arriva al parco archeologico di Butrinto, passando
per Saranda. Butrinto testimonia il passaggio di greci,
romani, bizantini, turchi e veneziani. Edifici ellenistici del
IV secolo prima dell’era cristiana si alternano a resti di
templi, fontane, bagni e monumenti funebri di epoca romana e chiese di epoca bizantina, come testimonia il
battistero del VI secolo scoperto nel 1928 dalla missione
archeologica italiana guidata
da Luigi Maria Ugolini, che
rappresenta per grandezza il
secondo battistero nell’impero romano d’Oriente dopo
quello di Aghia Sophia a
Istanbul. Può sembrare strano ma chi scrive ha sperimentato
l’Albania
come
«quei rari luoghi, come Atene, Roma o Isfahan in cui
l’umanità trova comune sollievo» — citando il grande
poeta inglese Robert Byron —
seppure o forse a causa di
tanto dolore passato.
Bowie mai banale
Cinque decenni di musica rock attraversati con un
rigore artistico che può sembrare in contraddizione
con l’immagine ambigua utilizzata, soprattutto a
inizio carriera, per attirare l’attenzione dei media.
Si potrebbe anzi affermare che, aldilà degli eccessi
apparenti, l’eredità di David Bowie, morto il 10
gennaio a 69 anni, è racchiusa proprio in una sorta
di personalissima sobrietà, espressa finanche nel
fisico asciutto, quasi filiforme. Una personalità
musicale, quindi, mai banale, via via costruita
grazie alle frequenti incursioni in altre forme
artistiche — prima tra tutte la pittura, ma anche
cinema e teatro — e grazie all’apertura a
innumerevoli suggestioni. Partito dal beat inglese
della metà degli anni Sessanta, Bowie, nei suoi
venticinque dischi (l’ultimo dei quali, Blackstar,
pubblicato solo alcuni giorni fa) ha spaziato dal
soul al R&B, dal folk al glam rock. Realizzando
anche alcune vere perle, come Heroes, un semplice
inno rock dedicato ai ragazzi della Berlino ancora
separata dal muro. E riuscendo a suscitare un
consenso crescente nel corso degli anni. In
un’intervista alla Bbc, anche il primate anglicano,
Justin Welby, ha oggi ricordato come la musica di
Bowie abbia costituito una sorta di colonna sonora
personale.
L’OSSERVATORE ROMANO
lunedì-martedì 11-12 gennaio 2016
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Sono oltre tre milioni secondo uno studio del Pew Research Center
Negli Stati Uniti
sempre più musulmani
NEW YORK, 11. Oggi negli Stati
Uniti risiedono circa 3.300.000 musulmani, pari a circa l’1 per cento
della popolazione, ma il numero
raddoppierà entro il 2050: lo sostiene il Pew Research Center, che ha
aggiornato le sue stime del 2011,
quando a vivere nel Paese erano
2.750.000 musulmani. Più della metà della crescita della popolazione
di fede islamica tra il 2010 e il 2015
è dovuta agli immigrati, che attualmente rappresentano il 10 per cento
di tutte le persone che arrivano legalmente negli Stati Uniti. Rispetto
alla media, i musulmani tendono
inoltre ad avere più figli, e questo
rappresenta un ulteriore fattore di
incremento numerico della comunità.
Per definire la distribuzione geografica delle comunità musulmane
negli Stati Uniti ci si deve riferire
innanzitutto alla localizzazione delle
Lutti nell’episcopato
Monsignor Raymond William
Lessard, vescovo emerito di Savannah, è morto domenica 3 gennaio negli Stati Uniti d’America,
all’età di 85 anni.
Il compianto presule era infatti
nato il 21 dicembre 1930 a Grafton, in diocesi di Fargo, ed era
stato ordinato sacerdote il 16 dicembre 1956. Eletto alla sede residenziale di Savannah il 5 marzo
1973, aveva ricevuto l’ordinazione
episcopale il successivo 27 aprile.
Aveva rinunciato al governo pastorale della diocesi georgiana il 7
febbraio 1995.
Le esequie si celebrano martedì
12 gennaio nella cattedrale di
Saint John Baptist a Savannah.
Monsignor Carlos Milcíades Villalba Aquino, vescovo emerito di
San Juan Bautista de las Misiones, è morto in Paraguay venerdì
notte, 8 gennaio, nella clinica di
Asunción in cui era ricoverato da
due mesi.
Il compianto presule era nato il
22 agosto 1924 in San Pedro de
Ycuamandyjú, diocesi di San Pedro, ed era stato ordinato sacerdote il 28 novembre 1948. Eletto alla
Chiesa residenziale di San Juan
Bautista de las Misiones il 25 luglio 1978, aveva ricevuto l’ordinazione episcopale il successivo 3
settembre.
Aveva rinunciato al governo pastorale della diocesi il 22 luglio
1999.
moschee, che non è affatto omogenea. Le zone costiere, il sud della
California, le regioni urbane del
Midwest, le aree metropolitane del
Texas, alcune città del sud e le città
del nord-est da Washington (District of Columbia) a New York, sono le aree con la più alta densità di
moschee e di conseguenza di musulmani. L’81 per cento degli islamici
americani adulti hanno la cittadinanza e di questi il 37 per cento
l’hanno acquisita alla nascita, il resto sono naturalizzati. Il 20 per cento dei musulmani sono convertiti e
di essi il 46 per cento sono nativi
americani.
«I recenti dibattiti politici sull’immigrazione dei musulmani — scrive
Basheer Mohamed, ricercatore del
Pew Research Center — hanno spinto diversi osservatori a chiedersi in
che modo molti di loro vivono negli
Stati Uniti. Dare una risposta però
non è facile, in parte anche perché
l’US Census Bureau non pone domande sulla religione, il che significa che non vi è alcun conteggio governativo della popolazione musulmana negli Stati Uniti d’America».
Basandosi ancora sul numero di
moschee sul territorio, si può
affermare che la maggioranza dei
musulmani statunitensi è sunnita.
Gran parte delle moschee sunnite
(37 per cento) si trova nella parte
occidentale del Paese mentre la
percentuale maggiore (31) di quelle
sciite è situata nel sud. Fra i nativi
convertiti, i sunniti sono per lo più
afroamericani, mentre gli sciiti sono
in gran parte di razza caucasica.
Non solo negli Stati Uniti ma
anche nel resto del pianeta — si sottolinea nel rapporto del Pew Research Center — il numero dei fedeli
islamici sta facendo registrare un
aumento costante.
Marcia interreligiosa a Jakarta
Tolleranza e coesistenza
JAKARTA, 11. Combattere l’estremismo religioso e il terrorismo e promuovere il pluralismo come vero
fondamento della società indonesiana: sono i motivi che hanno spinto
Nahdlatul Ulama (Nu), il più grande movimento islamico sunnita del
Paese, a organizzare per domenica
prossima, 17 gennaio, una manifestazione interreligiosa a Jakarta.
All’iniziativa hanno aderito tredici
organizzazioni musulmane, insieme
alla Conferenza episcopale indonesiana, alle comunità protestanti e
all’Alto consiglio confuciano della
nazione asiatica. Almeno diecimila
persone — riferisce AsiaNews — si riverseranno a Lapangan Banteng,
piazza storica della capitale, dove si
affacciano la cattedrale cattolica e la
grande moschea.
«Parteciperemo di sicuro alla manifestazione. Con questo raduno di
massa — ha spiegato padre Guido
Suprapto, segretario generale della
commissione episcopale per l’apostolato dei laici — vogliamo portare
il messaggio che la diversità deve
essere la forza della nazione. Dobbiamo mostrare che la coesistenza
pacifica è possibile». Al riguardo,
l’arcidiocesi di Jakarta ha fatto
stampare un gran numero di volantini da distribuire a tutta la comunità cristiana.
«A noi — ha affermato Marsyudi
Syuhud, presidente di Nahdlatul
Ulama e uno degli ideatori dell’iniziativa — hanno insegnato queste
due parole: tasanuf, che significa tol-
Il presidente dei vescovi ai nuovi deputati
Con il Venezuela sulle spalle
CARACAS, 11. L’auspicio di un’amnistia per prigionieri politici ed esuli,
l’insediamento della nuova assemblea legislativa (con maggioranza
all’opposizione) vista come «vittoria
del popolo», ma anche una panoramica sulla Chiesa universale e sui
principali punti di forza che contribuiscono alla vita della comunità
cattolica locale: dal sinodo sulla famiglia al giubileo della misericordia,
dall’enciclica Laudato si’ alla visita di
Papa Francesco alla Chiesa d’America. Sono questi i punti più significativi affrontati dall’arcivescovo di Cumaná, Diego Rafael Padrón Sánchez, presidente della Conferenza
episcopale venezuelana, nel discorso
di apertura dell’assemblea plenaria
in corso a Caracas.
Il presule si è soffermato sui risultati delle elezioni parlamentari del 6
dicembre, che sono state vinte dalla
Mesa de la Unidad Democrática.
Per monsignor Padrón Sánchez, «la
giornata elettorale svoltasi nella tranquillità e la presa di possesso dei
seggi da parte dei deputati eletti sono una ratifica della coscienza civilista e democratica dei venezuelani».
È un punto di partenza «per il rinnovo e la riorganizzazione dello Stato, la revisione delle politiche nazionali e della politica internazionale, i
loro accordi e trattative. Ma, soprattutto, è una vittoria della volontà
popolare che richiede un reale cambiamento in materia di libertà, giustizia, diritti umani, salute, sicurezza,
economia e tanto altro. Ci vorranno
misure — ha sottolineato — che contribuiscano alla distensione e alla riconciliazione nazionale, come sarebbe l’amnistia per i prigionieri politici
e il ritorno degli esuli, leggi che correggano le politiche economiche e
puniscano la corruzione».
Padrón Sánchez ha parlato alla
presenza del nunzio apostolico in
Venezuela, arcivescovo Aldo Giordano, e del nuovo presidente dell’Assemblea nazionale, Henry Ramos Allup. Compiuta questa tappa della
storia politica venezuelana, con il
concorso di tutti «il Paese deve indirizzarsi verso la depolarizzazione, il
dialogo trasparente ed efficace fra il
potere esecutivo e legislativo, fra il
Governo e l’opposizione e fra tutti i
venezuelani, e verso la ripresa economica e la riconciliazione nazionale».
Ma affinché il dialogo sia efficace «è
necessario risolvere le cose reali»,
mettendo da parte promesse e ideologie. Il presule ha concluso il suo
intervento citando una famosa frase
dell’allora cardinale arcivescovo di
Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio, che, rivolgendosi ai deputati, li
invitava a ponerse la patria al hombro,
ovvero mettersi la patria sulle spalle,
con accresciute responsabilità davanti ai cittadini e davanti a Dio.
leranza, e tawasuft, che si riferisce
all’essere persone moderate. Questi
due termini rappresentano lo spirito
di base dell’essere un buon musulmano nella società». Il Nu, continua il leader islamico, «è chiamato
in causa da un punto di vista morale per difendere il fondamento filosofico e politico della nazione. Il
movimento ha come bandiera il
concetto di “islam nusantara” (islam
dell’arcipelago), che significa promuovere una maggioranza musulmana indonesiana che abbia idee
moderate e abbracci la tolleranza religiosa. Il nostro messaggio è chiaro:
unire in fratellanza tutte le fazioni
della nazione».
Marsyudi Syuhud non ha dubbi
nell’affermare che «bisogna combattere la percezione che l’islam non
sia una religione pacifica perché ora
vediamo sciiti e sunniti attaccarsi fra
Armonia
tra le fedi
a Kuala
Lumpur
KUALA LUMPUR, 11. «Un incontro storico senza precedenti»: è stato definito così
dall’arcivescovo
di
Kuala
Lumpur, Julian Leow Beng
Kim, il colloquio avuto nei
giorni scorsi con il gran mufti
Zulkifli Mohamad al-Bakri.
«È stata una bella iniziativa.
Un’idea del tutto nuova — ha
dichiarato il presule — poiché
è la prima volta che un leader
religioso viene a farmi visita
nel mio ufficio».
Secondo il sito d’informazione malaysiano «The Star
Online», i due responsabili religiosi hanno discusso su vari
temi, in particolare approfondito i concetti di società diversa e plurale, di rispetto reciproco e di tolleranza fra tutte
le religioni. «Abbiamo esaminato — ha precisato il gran
mufti — ciò che abbiamo in
comune e non le nostre differenze. Abbiamo condiviso le
nostre opinioni sull’importanza di essere tolleranti verso la
religione dell’altro».
Zulkifli Mohamad al-Bakri
ha ricevuto da monsignor
Leow Beng Kim l’invito a visitare la chiesa, cosa che presto
prenderà in considerazione:
«Se Dio vuole, lo farò». Il
leader musulmano ha anche
voluto ringraziare il Global
Unity Network, ong che ha
organizzato lo storico incontro
tra i due responsabili religiosi.
Mohamad al-Bakri si è detto
grato per lo sforzo congiunto
profuso dal suo ufficio, dalla
ong e dall’arcivescovo di Kuala Lumpur, per l’impegno a
costruire la comprensione e
l’armonia religiosa, in particolare fra islam e cristianesimo:
«Sono grato al presule per
questa visita di cortesia, ma
vorrei anche ringraziare Shah
Kirit, del Global Unity Network, per il nobile sforzo.
Possa Dio benedirci tutti».
loro. E questo viene ancor prima del
discorso sui nostri rapporti con altre
religioni come l’induismo e il buddismo». Secondo il presidente, il
Nu vuole contrastare ogni possibile
infiltrazione del cosiddetto Stato
islamico in Indonesia: «Il pericolo è
chiaro e presente. Abbiamo visto
che alcuni hanno avuto il coraggio
di appendere bandiere dell’Is per le
strade. Ci sono persone che vanno a
combattere in Siria e poi tornano, e
il Governo non fa nulla per contrastare tutto questo. La gente è convinta che questo tipo di primavera
araba potrebbe arrivare presto anche
in Indonesia».
Secondo l’agenzia per l’antiterrorismo indonesiana, sono centocinquanta i cittadini tornati dalla Siria.
Altre fonti governative affermano
che ottocento persone sono partite
dall’Indonesia per unirsi all’Is, 284
delle quali sono state identificate.
Almeno cinquantadue sarebbero
morte.
Intanto «Hidup» (che significa
“vita”), primo settimanale cattolico
del Paese, fondato il 5 gennaio 1946
da un gesuita olandese missionario
a Jakarta, ha compiuto settant’anni
e la comunità cristiana ha festeggiato l’evento con una messa nella cattedrale celebrata dall’arcivescovo
Ignatius Suharyo Hardjoatmodjo.
«Hidup», ancora oggi vero e proprio punto di riferimento dell’informazione cattolica nel Paese, tratta
della vita della Chiesa in Indonesia
e negli ultimi tempi si è arricchito
degli interventi di molti vescovi che
offrono il loro contributo scrivendo
articoli su diversi temi, soprattutto
sulle prospettive di meditazione
biblica a partire dalle letture settimanali.
†
Con vivissimo dolore, la Segreteria di Stato comunica che è improvvisamente deceduto
Mons.
STEPHAN STO CKER
Officiale della Segreteria di Stato in
servizio presso la Sezione Rapporti
con gli Stati
I Superiori ed i Colleghi partecipano al
dolore dei Familiari, assicurando loro vicinanza spirituale e ricordo nella preghiera.
†
Il Comandante e i componenti tutti del
Corpo della Guardia Svizzera Pontificia
esprimono le più sentite condoglianze per
la dipartita di
Monsignor
STEPHAN STO CKER
e si uniscono ai familiari nella preghiera e
nella speranza della risurrezione.
Città del Vaticano, 11 gennaio 2016
L’OSSERVATORE ROMANO
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lunedì-martedì 11-12 gennaio 2016
Fratel Eric
«La colomba dello Spirito Santo»
(chiesa della Riconciliazione, Taizé)
Francesco battezza ventisei neonati
L’eredità più grande
La fede è «l’eredità più grande» che i
figli ricevono dai genitori: lo ha detto
Papa Francesco all’omelia della messa
celebrata domenica 10 gennaio nella
cappella Sistina, dove
ha battezzato ventisei neonati.
Quaranta giorni dopo la nascita,
Gesù è portato al Tempio. Maria e
Giuseppe lo portarono per presentarlo a Dio. Oggi, nella festa del
Nella cappella Sistina
I vagiti dei tredici bambini e delle tredici bambine
battezzati da Francesco hanno fatto da originale
“colonna sonora” alla messa celebrata nella cappella
Sistina. Armati di biberon e ciucciotti, i genitori — che
lavorano in dicasteri, uffici e organismi vaticani —
hanno avuto il loro bel daffare per tenere buoni i
piccoli, ai quali il Papa ha amministrato il sacramento
dell’iniziazione cristiana proprio nella festa liturgica del
Battesimo del Signore. Damiano Maria Acquaroni,
Ginevra Francesca Maria Bellaveglia, Andrea Lucio
Agostino Belisari, Matteo Bernardi, Thomas Biagetti,
Gabriele Bondatti, Marlene Pola Caldiero, Rocco
Cantore, Greta Cataldo, Arianna Francesca Censoni,
Ginevra Maria Corradini, Anna Cordeschi, Edoardo
De Leo, Emanuele Della Monaca, Lara Gigli, Aurelio
Samuel Ianniello, Sofia Maria Guadalupe Lorenzo,
Pier Giorgio Massimilla, Arvid Jan Pavel Panchanka,
Francesco Biagio Rinaldi, Vittoria Severin, Irene Maria
Sonni, Chiara Tucci, Valentina Venanzi, Claudia Sonia
Venia e Leonardo Alberto Francesco Zamponi — questi
i nomi dei neonati — erano accompagnati
da padrini e madrine e da un piccolo gruppo
di parenti che hanno partecipato alla liturgia. Con
Francesco, che ha presieduto la messa
all’antico altare, hanno concelebrato gli arcivescovi
Gänswein, prefetto della Casa Pontificia,
Krajewski, elemosiniere, e Gloder, presidente della
Pontificia Accademia Ecclesiastica, e il vescovo Vérgez
Alzaga, segretario generale del Governatorato. Diretto
da monsignor Marini, maestro delle Celebrazioni
liturgiche pontificie, il rito è stato animato dai canti
della cappella Sistina guidata da monsignor
Palombella. Insieme all’attestato del battesimo, al
termine è stato consegnato ai genitori un bassorilievo
ovale dorato raffigurante la Vergine e il Bambino,
dono del Pontefice.
Battesimo del Signore, voi genitori
portate i vostri figli a ricevere il Battesimo, a ricevere quello che avete
chiesto all’inizio, quando io vi ho
fatto la prima domanda: “La fede.
Io voglio per mio figlio la fede”. E
così la fede viene trasmessa da una
generazione all’altra, come una catena, nel corso dei tempi.
Questi bambini, queste bambine,
passati gli anni, occuperanno il vostro posto con un altro figlio — i vostri nipotini — e chiederanno lo stesso: la fede. La fede che il Battesimo
ci dà. La fede che lo Spirito Santo
oggi porta nel cuore, nell’anima, nella vita di questi vostri figli.
Voi avete chiesto la fede. La Chiesa, quando vi consegnerà la candela
accesa, vi dirà di custodire la fede in
questi bambini. E, alla fine, non dimenticatevi che la più grande eredità
che voi potrete dare ai vostri bambini è la fede. Abbiate cura che non
venga persa, di farla crescere e lasciarla come eredità.
Vi auguro questo oggi, in questo
giorno gioioso per voi: vi auguro
che siate capaci di far crescere questi
bambini nella fede e che la più grande eredità che loro riceveranno da
voi sia proprio la fede.
E un avviso soltanto: quando un
bambino piange perché ha fame, alle
mamme dico: se il tuo bambino ha
fame, dagli da mangiare qui, con
tutta libertà.
All’Angelus il Pontefice invita i fedeli a ricordare la data del loro battesimo
Compito a casa
Il giorno del battesimo «è la data
della nostra rinascita come figli
di Dio». Per questo il Papa ha
invitato i fedeli riuniti in piazza
San Pietro per l’Angelus di domenica
10 gennaio a festeggiare quel giorno
per «riaffermare la nostra adesione
a Gesù, con l’impegno di vivere
da cristiani».
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
In questa domenica dopo l’Epifania
celebriamo il Battesimo di Gesù, e
facciamo memoria grata del nostro
Battesimo. In tale contesto, stamattina ho battezzato 26 neonati: preghiamo per loro!
Il Vangelo ci presenta Gesù, nelle
acque del fiume Giordano, al centro
di una meravigliosa rivelazione divi-
Raccolti i discorsi di Paolo
VI
na. Scrive san Luca: «Mentre Gesù,
ricevuto anche lui il battesimo, stava
in preghiera, il cielo si aprì e discese
su di lui lo Spirito Santo in forma
corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il
ai gesuiti
Montini, Arrupe e il giovane Bergoglio
Pagine autografe, correzioni dell’ultimo minuto, note a margine: i discorsi rivolti da Paolo VI alla Compagnia di Gesù, a partire dall’omelia pronunciata il 15 novembre 1966,
sono stati pubblicati nella loro veste integrale nel libro
«Paolo VI e i gesuiti» (Roma, Viverein, 2015, pagine 83).
Scritto dal reggente della prefettura della Casa pontificia —
autore dell’introduzione, di cui riproduciamo uno stralcio —
il volume attraverso i documenti ricostruisce lo stretto legame tra Montini e il preposito generale Pedro Arrupe e la
di LEONARD O SAPIENZA
Il 3 dicembre 1974 Paolo VI riceve
in udienza i 237 Partecipanti alla
Congregazione Generale provenienti da tutto il mondo.
Quindici cartelle dattiloscritte
contengono la lunga allocuzione in
latino, che dura esattamente un’ora
e nove minuti!
L’intero discorso è dominato visibilmente da una preoccupazione di
fondo, che è la stessa manifestata
dalla maggioranza dei Gesuiti: «la
preoccupazione di un sano, equilibrato, giusto aggiornamento nella
fedeltà sostanziale alla fisionomia
specifica della Compagnia».
A proposito di questo discorso,
un testimone dell’epoca racconta:
«... ricordo quel discorso... Ricordo
anche quanto Paolo VI era rattristato e preoccupato per la linea che la
Compagnia di Gesù aveva preso
non per iniziativa di Padre Arrupe,
ma che Padre Arrupe di fatto permetteva.
Paolo VI teneva molto a quel discorso. Non lo scrisse però lui.
Chiese un progetto a Padre Paolo
Dezza (che era anche il suo confessore) e al quale a voce aveva espresso qualche idea che desiderava dire.
grande attenzione posta dal Pontefice alla vita e alle trasformazioni della Societas Iesu. Arricchiscono l’opera la lettera autografa scritta il 27 settembre 1978 da Giovanni
Paolo I ad Arrupe e il testo del discorso previsto ai procuratori gesuiti per l’udienza che non si tenne a causa dell’improvvisa morte di Luciani. All’inizio del libro anche un autografo di Papa Francesco nel quale si legge: «Dobbiamo
essere grati a Paolo VI che ha amato tanto, fatto tanto, pregato tanto, sofferto tanto per la Compagnia di Gesù».
Paolo VI accolse tutta la sostanza
del progetto di discorso scritto da
Padre Dezza: il contenuto corrispondeva perfettamente al pensiero
del Papa. Paolo VI vi fece soltanto
alcuni ritocchi di stile. Anche se
non fu scritto di suo pugno, è un
discorso di cui Paolo VI condivideva ogni parola.
Certamente lo avrà anche pronunciato con passione, perché si
trattava di un problema che gli stava a cuore. Chi ha ascoltato dalla
voce del Papa tale discorso avrà
avuto l’impressione che si trattava
di cose personalmente molto sentite. Ed era la verità».
Tra gli ascoltatori vi era anche un
giovane Padre Jorge Bergoglio, che
a soli 36 anni, il 31 luglio di
quell’anno, era stato nominato Superiore provinciale. Divenuto Papa
con il nome di Francesco, così ricorda la sua esperienza: «...In quella situazione il Padre Carlo Maria
Martini fu un uomo di dialogo, di
mediazione, e fece da ponte tra la
Compagnia e il Papa.
Paolo VI, quando ci ricevette in
udienza, fece un discorso memorabile, un capolavoro... Mentre noi
eravamo preoccupati delle dispute
interne, lui ci spalancò gli orizzonti
della nostra missione...».
In effetti, come ricorda un testimone dei fatti, «...quella Congregazione Generale della Compagnia di
Gesù fin dal primo giorno designò
Padre Carlo Maria Martini di tenere ufficialmente informata la Santa
Sede circa lo svolgimento dei lavori...». Padre Martini si recava regolarmente dal Sostituto Mons.
Benelli, e questi poi informava il
Papa.
Alla fine della Congregazione
Generale, Padre Arrupe poteva affermare: «Possiamo dire che la
Compagnia esce da questa Congregazione Generale più conscia dei
suoi limiti e delle necessità del
mondo e della Chiesa, infiammata
dal desiderio di unità, più obbediente, più sacerdotale, con una visione più reale dell’apostolato; infine, più disposta ad ascoltare la voce di Cristo e a obbedire, sia che
essa provenga direttamente da lui,
sia che si manifesti attraverso l’obbedienza, sia che venga comunicata
indirettamente, cioè attraverso la famiglia umana che soffre afflizioni e
aspetta la salvezza e la liberazione,
che non potrà trovare se non in
Cristo».
mio compiacimento”» (Lc 3, 21-22).
In questo modo Gesù viene consacrato e manifestato dal Padre come
il Messia salvatore e liberatore.
In questo evento — attestato da
tutti e quattro i Vangeli — è avvenuto il passaggio dal battesimo di Giovanni Battista, basato sul simbolo
dell’acqua, al Battesimo di Gesù «in
Spirito Santo e fuoco» (Lc 3, 16). Lo
Spirito Santo infatti nel Battesimo
cristiano è l’artefice principale: è Colui che brucia e distrugge il peccato
originale, restituendo al battezzato la
bellezza della grazia divina; è Colui
che ci libera dal dominio delle tenebre, cioè del peccato, e ci trasferisce
nel regno della luce, cioè dell’amore,
della verità e della pace: questo è il
regno della luce. Pensiamo a quale
dignità ci eleva il Battesimo! «Quale
grande amore ci ha dato il Padre per
essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!» (1 Gv 3, 1), esclama
l’apostolo Giovanni. Tale realtà stupenda di essere figli di Dio comporta la responsabilità di seguire Gesù,
il Servo obbediente, e riprodurre in
noi stessi i suoi lineamenti: cioè
mansuetudine, umiltà, tenerezza. E
questo non è facile, specialmente se
intorno a noi c’è tanta intolleranza,
superbia, durezza. Ma con la forza
che ci viene dallo Spirito Santo è
possibile!
Lo Spirito Santo, ricevuto per la
prima volta nel giorno del nostro
Battesimo, ci apre il cuore alla Verità, a tutta la Verità. Lo Spirito spin-
ge la nostra vita sul sentiero impegnativo ma gioioso della carità e della solidarietà verso i nostri fratelli.
Lo Spirito ci dona la tenerezza del
perdono divino e ci pervade con la
forza invincibile della misericordia
del Padre. Non dimentichiamo che
lo Spirito Santo è una presenza viva
e vivificante in chi lo accoglie, prega
in noi e ci riempie di gioia spirituale.
Oggi, festa del Battesimo di Gesù,
pensiamo al giorno del nostro Battesimo. Tutti noi siamo stati battezzati, ringraziamo per questo dono. E
vi faccio una domanda: chi di voi
conosce la data del suo Battesimo?
Sicuramente non tutti. Perciò vi invito ad andare a cercare la data,
chiedendo per esempio ai vostri genitori, ai vostri nonni, ai vostri padrini, o andando in parrocchia. È
molto importante conoscerla, perché
è una data da festeggiare: è la data
della nostra rinascita come figli di
Dio. Per questo, compito a casa per
questa settimana: andare a cercare la
data del mio Battesimo. Festeggiare
quel giorno significa riaffermare la
nostra adesione a Gesù, con l’impegno di vivere da cristiani, membri
della Chiesa e di una umanità nuova, in cui tutti sono fratelli.
La Vergine Maria, prima discepola
del suo Figlio Gesù, ci aiuti a vivere
con gioia e fervore apostolico il nostro Battesimo, accogliendo ogni
giorno il dono dello Spirito Santo,
che ci fa figli di Dio.
Al termine della preghiera mariana
il Pontefice ha salutato i gruppi
presenti, assicurando una speciale
benedizione ai bambini battezzati
di recente e a quelli che «hanno
ricevuto da poco i Sacramenti
dell’iniziazione cristiana o che ad essi
si stanno preparando».
Cari fratelli e sorelle,
saluto tutti voi, fedeli di Roma e
pellegrini venuti dall’Italia e da diversi Paesi.
Saluto in particolare gli studenti
dell’Istituto Bachiller Diego Sánchez
de Talavera La Real, Spagna; il coro
degli Alpini di Martinengo con i familiari; il gruppo adolescenti di San
Bernardo in Lodi.
Come dicevo, in questa festa del
Battesimo di Gesù, secondo la tradizione ho battezzato numerosi bambini. Ora vorrei far giungere una
speciale benedizione a tutti i bambini che sono stati battezzati recentemente, ma anche ai giovani e agli
adulti che hanno ricevuto da poco i
Sacramenti dell’iniziazione cristiana
o che ad essi si stanno preparando.
La grazia di Cristo li accompagni
sempre!
E a tutti auguro una buona domenica. Non dimenticatevi il compito a
casa: cercare la data del mio Battesimo. E per favore, non dimenticatevi
anche di pregare per me. Buon
pranzo e arrivederci!
Nei mesi di gennaio e di febbraio
Calendario delle celebrazioni presiedute dal Papa
Gennaio
25 LUNEDÌ
SOLENNITÀ DELLA CONVERSIONE DI SAN PAOLO
Basilica di San Paolo fuori le Mura, ore 17.30, celebrazione dei Vespri
10 MERCOLEDÌ
DELLE
CENERI
Basilica vaticana, ore 17, Santa Messa, benedizione e
imposizione delle Ceneri, invio dei missionari della Misericordia
12 VENERDÌ - 18 GIOVEDÌ
Viaggio apostolico in Messico
Febbraio
2 MARTEDÌ
FESTA
PRESENTAZIONE DEL SIGNORE
XX GIORNATA MONDIALE
DELLA VITA CONSACRATA
Basilica vaticana, ore 17.30, Santa Messa, giubileo della
Vita consacrata e chiusura dell’Anno della Vita consacrata
DELLA
SOLENNITÀ
22 LUNEDÌ
CATTEDRA
DELLA
DI
SAN PIETRO
Basilica vaticana, ore 10.30, Santa Messa, giubileo della
Curia romana
Città del Vaticano, 11 gennaio 2016
Mons. GUID O MARINI
Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie