Spedizione in abbonamento postale Roma, conto corrente postale n. 649004 Copia € 1,00 Copia arretrata € 2,00 L’OSSERVATORE ROMANO GIORNALE QUOTIDIANO Unicuique suum Anno CLVI n. 7 (47.142) POLITICO RELIGIOSO Non praevalebunt Città del Vaticano lunedì-martedì 11-12 gennaio 2016 . Il dramma delle migrazioni al centro del discorso del Papa al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede Per non perdere i principi di umanità y(7HA3J1*QSSKKM( +.!"!#!=!?! Fenomeno mondiale Il panorama disegnato dal Papa nel tradizionale discorso d’inizio anno agli ambasciatori conferma che lo sguardo della Chiesa di Roma su «questo nostro mondo, benedetto e amato da Dio, eppure travagliato e afflitto da tanti mali» ha un’ottica davvero planetaria. E questo punto di vista mondiale sa abbracciare con lucidità e altrettanta speranza i due fenomeni che più inquietano e preoccupano la comunità internazionale: l’onda crescente della violenza che usa e quindi bestemmia il nome di Dio da una parte, il dramma che segna gran parte delle migrazioni dall’altra. Di fronte a queste emergenze il Pontefice riprende il tema centrale della misericordia, che è al cuore del Vangelo. Per questo sin dall’inizio del pontificato Bergoglio vi insiste, al punto da aver indetto un giubileo straordinario della misericordia che ha voluto aprire nella Repubblica Centrafricana. Indicata come filo conduttore dei viaggi internazionali dell’anno appena trascorso, è infatti la misericordia che permette di avanzare insieme e di ripetere, come Francesco con i musulmani di Bangui, che «chi dice di credere in Dio dev’essere anche un uomo o una donna di pace». Come i predecessori, Francesco oggi ribadisce che «ogni esperienza religiosa autenticamente vissuta non può che promuovere la pace» e condanna ancora una volta attentati terroristici, massacri e soprusi che si accaniscono su persone inermi e indifese, obbligando intere minoranze — come moltissimi cristiani del Vicino e Medio oriente, ricordati a più riprese dal Pontefice — a esodi drammatici, e persino al «martirio per la sola appartenenza religiosa». E colpisce nel discorso papale l’intreccio di questi fenomeni del nostro tempo con l’insegnamento che viene dalle parole delle Scritture ebraiche e cristiane. Già nel 1952, nella costituzione apostolica Exsul familia che affrontò con ampiezza il fenomeno migratorio, Pio XII evocò la famiglia di Gesù che cercava scampo in Egitto come modello e sostegno di tutti i profughi che, «incalzati dalla persecuzione o dal bisogno, si vedono costretti ad abbandonare la patria». Allo stesso modo oggi il suo successore chiede che si ascolti «il grido di Rachele che piange i suoi figli perché non sono più», secondo le parole profetiche di Geremia riprese dall’evangelista Matteo. Affinché si affrontino con umanità e con coraggio questi drammi mondiali. g.m.v. Alla «grave emergenza migratoria che stiamo affrontando» Francesco ha dedicato i passaggi più significativi del discorso al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, riunito lunedì mattina, 11 gennaio, nella Sala Regia per la tradizionale udienza di inizio anno. Una scelta motivata dalla volontà del Papa di contribuire a «discernerne le cause» e a «prospettare delle soluzioni», aiutando così a vincere «l’inevitabile paura che accompagna un fenomeno così massiccio e imponente». L’incontro, come di consueto, ha offerto al Pontefice l’occasione per un’ampia panoramica internazionale. Preceduta dalla significativa sottolineatura dei risultati dell’impegno diplomatico della Santa Sede nel 2015, anno in cui è cresciuto il numero di ambasciatori residenti a Roma e sono stati conseguiti importanti accordi internazionali. Un’attività che ha trovato nuove motivazioni e prospettive nel “filo conduttore” della misericordia indicato da Papa Francesco alla Chiesa e al mondo con l’indizione del giubileo straordinario. Nel ricordarlo il Pontefice ha ribadito la necessità di «ritrovare le ragioni del dialogo» e di respingere in particolare ogni tentativo di utilizzare la religione «per commettere ingiustizia nel nome di Dio», come è avvenuto nei sanguinari attentati terroristici dei mesi scorsi in Africa, Europa e Medio oriente. Rivolgendo lo sguardo alla complessa at- tualità mondiale, carica di «sfide» e attraversata da «non poche tensioni», il Papa ha puntato l’attenzione sul fenomeno migratorio. Nel quale — ha osservato — finiscono per concentrarsi le conseguenze delle grandi tragedie umanitarie che affliggono oggi il pianeta: guerre, violazioni dei diritti umani, persecuzioni a sfondo religioso, miseria estrema, malnutrizione, cambiamenti climatici. Drammi che alimentano veri e propri esodi di massa, spingendo milioni di uomini, donne e bambini a fuggire dalle loro terre per sottrarsi a violenze e «barbarie indicibili praticate verso persone indifese». «Gran parte delle cause delle migrazioni — è la realistica constatazione di Francesco — si potevano affrontare già da tempo». Ma ancora oggi «molto si potrebbe fare per fermare le tragedie e costruire la pace». A patto, tuttavia, che si abbia il coraggio di rimettere in discussione «abitudini e prassi consolidate»: a cominciare da quelle legate al commercio delle armi, all’approvvigionamento di materie prime e di energia, agli investimenti, alle politiche fi- nanziarie e di sviluppo. Per il Pontefice c’è bisogno di «progetti a medio e lungo termine che vadano oltre la risposta di emergenza», col duplice intento di «aiutare effettivamente l’integrazione dei migranti nei Paesi di accoglienza» e di favorire «lo sviluppo dei Paesi di provenienza con politiche solidali». Mentre i massicci sbarchi in Europa sembrano far vacillare il sistema di accoglienza, l’appello di Francesco al vecchio continente è di non perdere «i valori e i principi di umanità», salvaguardando il giusto equilibrio fra il «dovere morale di tutelare i diritti dei propri cittadini» e quello di «garantire l’assistenza e l’accoglienza dei migranti». Fermo restando per chi arriva «il dovere di rispettare i valori, le tradizioni e le leggi della comunità» ospitante. Dal Papa particolari espressioni di gratitudine nei confronti di quei Paesi, fra i quali l’Italia, che hanno mostrato generosità verso i rifugiati: «è importante — ha auspicato — che le nazioni in prima linea non siano lasciate sole». PAGINE 4 E 5 Più di cento profughi morti in un naufragio al largo delle coste somale Altre vittime in mare MO GADISCIO, 11. I 112 morti accertati nel naufragio — venerdì, ma se ne è avuta notizia solo ieri — nelle acque somale di un’imbarcazione di profughi e migranti diretti verso le coste yemenite conferma la dimensione mondiale di una tragedia, quella della mobilità forzata di persone in cerca di scampo da guerre, persecuzioni e fame, alla quale la comunità internazionale non sembra ancora aver trovato risposte adeguate. Le vittime del naufragio, avvenuto di fronte alle coste del Somaliland, la regione somala da oltre un ventennio dichiaratasi autonoma da Mogadiscio, provenivano dalla stessa Somalia e dall’Etiopia. Dai racconti dei settantacinque scampati al naufragio emerge che l’imbarcazione era in condizioni fatiscenti e che una volta verificatasi un’avaria è colata rapidamente a picco. Il mare ha gettato sulla costa i corpi di 112 persone annegate, ma s’ignora ancora quanti uomini, donne e bambini fossero a bordo del natante e quanti siano quindi i dispersi. «La guardia costiera ha tratto in salvo 75 persone e i locali hanno localizzato 112 cadaveri» ha detto alle agenzie di stampa Abdurahman Yasin, del personale sanitario del Somaliland. Quella tra il Corno d’Africa e lo Yemen, nel Mar Rosso e nel golfo di Aden, sono tra le rotte più pericolose per profughi e migranti. Ogni anno vi muoiono persone in cerca di scampo da guerre e fame costrette a mettersi in mare in condizioni di assoluta insicurezza nel tentativo, appunto, di raggiungere lo Yemen, dal quale sperano di arrivare ai ricchi Paesi del Golfo Persico. Né il conflitto che insanguina da mesi lo stesso Yemen ha fermato o diminuito questi tentativi. In un altro dei più drammatici scenari di questa emergenza epocale, quello del Mediterraneo, intanto, si è allungato il tragico conteggio di morti che ormai si registra da anni. Si cercano ancora quattro persone, forse tutte donne, che risultano disperse dopo essere state scaraventate in mare dagli scafisti nello sbarco di migranti avvenuto stamani nelle ac- que del Salento, al largo del Capo di Leuca. Il cadavere di un’altra donna è stato trovato sulla costa. Finora sono stati rintracciati 37 superstiti, tutti somali e in maggioranza donne. Cinque persone, compreso un bambino di dieci anni, sono state ricoverate in ospedale per ipotermia e contusioni. Secondo quanto raccontato ai soccorritori da alcuni dei superstiti, il gruppo, composto da 42 persone, sarebbe partito un paio di giorni fa dalla Grecia. Il corpo della donna recuperato vicino a uno scoglio, in località Felloniche, non lontano da Capo di Leuca, è stato avvistato da un pescatore che ha dato l’allarme. Accanto al flusso di profughi e migranti verso l’Europa dalle coste Incertezza sull’apertura del corridoio umanitario per la città siriana allo stremo Madaya attende aiuti PAGINA 3 africane del Mediterraneo, non s’interrompe neanche quello dei rifugiati, soprattutto siriani ma non solo, provenienti dalla Turchia e diretti alla Grecia. In realtà i numeri della prima settimana di gennaio sono inferiori alla media degli ultimi mesi del 2015. Secondo l’O rganizzazione mondiale per le migrazioni, infatti, nei primi sette giorni del mese in Grecia ne sono arrivati 9900, mentre la media settimanale dall’inizio di ottobre alla fine di dicembre era stata di 16.300. Ma non è chiaro se una tale contrazione sia dovuta a maggiori controlli sulla costa turca da cui partono o al maltempo. Nella parte orientale dell’Egeo vi sono infatti stati nei giorni scorsi forti venti che hanno bloccato anche la partenza dei traghetti. In ogni caso, è ancora lontana l’effettiva applicazione del piano per contenere il flusso di profughi in Europa sottoscritto da Unione europea e Turchia solo nelle sue linee generali. Il primo vice presidente della Commissione europea, Frans Timmermans, è partito ieri per Ankara con il mandato di spingere il più possibile sul Governo turco. Lo stesso Timmermans ha dichiarato questa mattina che il flusso di profughi e migranti dalla Turchia resta troppo elevato, nonostante gli impegni già presi dalle autorità di Ankara. Tra due giorni, inoltre, ci sarà a Bruxellese una riunione dei rappresentanti dei ventotto Paesi dell’Unione per cercare un’intesa sulla ripartizione tra la Commissione e i Governi dei tre miliardi di euro destinati a essere spesi in Turchia proprio in base alle intese sull’immigrazione con Ankara. L’OSSERVATORE ROMANO pagina 2 lunedì-martedì 11-12 gennaio 2016 La facciata della stazione centrale di Colonia di fronte alla quale hanno avuto luogo le violenze (Reuters) Putin auspica una coalizione internazionale Parigi commemora le vittime del terrorismo BERLINO, 11. C’è anche la città di Bielefeld, in Westfalia, nell’elenco di quelle dove si sono registrate violenze contro le donne a capodanno: secondo la stampa locale, almeno 500 uomini avrebbero forzato l’ingresso in una discoteca, l’Elephant Club, e avrebbero molestato molte donne. La polizia ha confermato che sono arrivate le prime denunce e che verranno fatti i relativi accertamenti. Intanto, le forze dell’ordine di Colonia hanno comunicato che le denunce per i fatti di capodanno sono salite da 379 a 516. Nel quaranta per cento dei casi si tratta di molestie sessuali. Ad Amburgo, dove si sono verificati fatti analoghi, sono 133. Altre città coinvolte in maniera minore sarebbero Düsseldorf, Francoforte e Berlino. Per il ministro della Giustizia tedesco Heiko Maas, gli attacchi subiti dalle donne a Colonia sono stati «organizzati». L’esponente del Governo presieduto da Angela Merkel ha infatti dichiarato che «quando si incontra un’orda del genere per commettere dei reati, deve esserci una certa forma di organizzazione dietro. Nessuno può venirmi a raccontare che non sia stato preparato o concordato». Secondo gli ultimi dati della polizia di Colonia, sono quindi 516 le denunce presentate finora di presunte aggressioni commesse davanti alla stazione ferroviaria di Colonia la Oltre 500 denunce per le violenze di Colonia mentre si rafforza l’ipotesi di un’azione organizzata Sdegno senza fine notte di San Silvestro. La maggior parte degli aggressori proveniva da Paesi del Nord Africa. Molti sono richiedenti asilo e persone che si trovano in Germania in situazione illegale. La polizia — riferiscono fonti di stampa — indaga sui messaggi pubblicati sui social network da parte di nordafricani nei giorni precedenti capodanno e sulla presenza a Colonia di persone arrivate dai din- Carles Puigdemont eletto presidente della Generalitat Madrid si oppone alla secessione catalana torni e anche da Paesi vicini, cioè Belgio, Olanda e Francia. Sabato scorso il cancelliere Merkel aveva di nuovo preso posizione in merito ai fatti di capodanno con parole ferme, pronunciate proprio alla vigilia delle manifestazioni, previste appunto a Colonia, per fare chiarezza: «Sono azioni criminali disgustose», aveva detto e annunciato che andranno «cambiate le leggi, che siano più dure, e che poi siano effettivamente applicate». Il cancelliere aveva assicurato che saranno espulsi dal Paese tutti i profughi condannati, anche quelli la cui condanna sia stata sospesa con la condizionale. Oggi il portavoce di Merkel, Steffen Seibert, ha detto che «nulla giustifica le ostilità contro i musulmani». E sempre sabato a Colonia si sono svolte due manifestazioni contrapposte sulle aggressioni di Capodanno. Davanti al piazzale della stazione centrale sono scesi in piazza i militanti sostenitori di movimenti islamofobi e di estrema destra da un lato e dall’altro i partiti della sinistra e le organizzazioni antirazziste. La polizia era presente in forze. A un cer- to punto, il corteo dell’ultradestra è stato sospeso a causa dei disordini. Intanto, forte preoccupazione per i fatti dell’ultimo dell’anno è stata espressa anche dai vescovi tedeschi. «Non deve esserci alcuno spazio per la violenza sessista» ha spiegato in un’intervista il cardinale Rainer Maria Woelki, arcivescovo di Colonia. «Sono preoccupato perché ora ci sono troppi populisti pronti a cogliere l’attimo a loro favore». Quanto accaduto — ha aggiunto il cardinale — «viola la dignità umana ed è assolutamente disgustoso». Gli autori delle violenze «dovrebbero essere considerati dei criminali, e non importa quale sia la loro origine o se si sia trattato di violenza di gruppo. Colonia è sempre stata una città cosmopolita e tollerante e non c’è posto per simili episodi». Sulla stessa linea il cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco, per il quale «abbiamo ora bisogno di informazioni precise e una chiara risposta del diritto. Questa forma di violenza a noi sconosciuta e soprattutto il trattamento disumano nei confronti delle donne non può essere tollerato». PARIGI, 11. Cerimonia sobria, sotto un cielo color grigio, volti tirati e molta commozione. A Place de la République, diventata negli ultimi tempi il centro delle commemorazioni delle vittime, si è svolta ieri la cerimonia finale di questa settimana di ricordo degli attentati terroristici di «Charlie Hebdo» e del 13 novembre. Erano presenti il presidente francese François Hollande, il premier Manuel Valls e molti ministri del Governo. Le autorità avevano definito l’evento «l’apice di una settimana di celebrazioni». Tuttavia Place de la République, anche a causa delle ingenti misure di sicurezza, era semiderserta. Anne Hidalgo, sindaco socialista di Parig, ieri sera ha presieduto una seconda commemorazione con l'accensione di luci alla Quercia della Memoria. Erano le undici del mattino quando Hollande ha scoperto la targa dorata incastonata nel marciapiede della piazza. Subito dopo, Johnny Hallyday ha intonato, accompagnato da una sola chitarra, Un dimanche de janvier, canzone composta a partire dal ricordo della grande marcia della solidarietà che l’11 gennaio riunì nella capitale ferita i leader internazionali. La cerimonia è proseguita con un brano di Jacques Brel eseguito dal Coro dell'Esercito francese e con la lettura di un testo di Victor Hugo. Alla fine, il Coro dell'esercito ha eseguito il canto simbolo della Comune di Parigi, Le temps des cerises, prima che Hollande deponesse una corona sul luogo della memoria delle vittime. In conclusione, un minuto di silenzio, quindi la Marsigliese. Hollande si è poi recato in visita alla Grande Moschea di Parigi, per partecipato all’iniziativa “porte aperte” di tutti i luoghi di culto musulmani in Francia durante questo fine settimana in omaggio alle vittime del terrorismo. Dopo il “té della fratellanza”, il presidente — accompagnato dal ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve — si è brevemente trattenuto con il rettore della Moschea, Dalil Boubakeur, e con il presidente del Consiglio francese del culto musulmano, Anouar Kbibech, salutando poi tutti gli imam presenti. Hollande ha ricordato, riferisce un testimone dell’incontro, «che l’islam fa parte della Repubblica e che la comunità musulmana è la prima vittima degli attentati». Nel frattempo, l'allerta terrorismo resta alta. Oggi è stato evacuato un liceo a Compiègne, settanta chilometri a nord di Parigi, per un sospetto allarme bomba. E a Marsiglia un minore con problemi di squilibrio mentale, riferisce la polizia, ha ferito con un coltello un uomo che indossava la kippa ebraica. Il ragazzo è stato quindi fermato dagli agenti che lo stanno interrogando. Proseguono poi le indagini sull’uomo che giovedì scorso è stato ucciso a Parigi dalla polizia, mentre era in procinto di commettere un attentato. Dalle ultime piste emerge che abitava in un alloggio per profughi in Germania. E, intanto, il presidente russo, Valdimir Putin, in un’intervista rilasciata alla «Bild», ha rinnovato l’appello all’unità auspicando una coalizione internazionale contro il terrorismo. Il mondo oggi «affronta numerose minacce e sfide comuni, dal terrorismo internazionale al traffico di essere umani, fino alla crisi dei profughi e per superarle è necessario unire gli sforzi a livello internazionale» ha detto Putin. Si completa così la transizione democratica dopo la destituzione di Mursi Insediato il nuovo Parlamento egiziano Il Parlamento catalano a Barcellona (Ap) MADRID, 11. «Il Governo difenderà l’unità del Paese». Lo ha detto ieri il presidente del Governo spagnolo, Mariano Rajoy, poco dopo il discorso di inaugurazione del nuovo presidente della Catalogna, Carles Puigdemont, che ha promesso di promuovere un processo separatista per la regione. «Non si aprirà alcun processo costituente al margine della legge» ha precisato Rajoy, aggiungendo di aver avuto un colloquio con Pedro Sánchez e Albert Rivera, i leader di Psoe e Ciudadanos, partiti che si oppongono alla secessione della Catalogna. Il presidente del Governo ha poi detto di avere dato istruzioni perché qualsiasi iniziativa del nuovo Esecutivo catalano ritenuta contraria alla Costituzione o alla legge «ottenga la risposta dello Stato di diritto». Rajoy, che dalle legislative del 20 dicembre dirige un Governo incaricato degli affari correnti, ha detto di avere ottenuto l’appoggio di Sánchez e Rivera per opporsi alle spinte indipendentiste catalane. Rajoy ha garantito che agirà con «fermezza e determinazione per difendere l’unità della Spagna». Puigdemont, sindaco di Girona, entrato in corsa dopo la rinuncia del presidente uscente, Artur Mas, è stato eletto al primo turno con 70 voti a favore e 63 contrari. Due gli astenuti. Nel discorso di investitura ha confermato il traguardo dell’indipendenza nel 2017, affermando di volere applicare la dichiarazione secessionista approvata dai deputati catalani lo scorso 9 novembre. Dichiarazione respinta come illegale dal Governo di Madrid. L’OSSERVATORE ROMANO GIORNALE QUOTIDIANO Unicuique suum POLITICO RELIGIOSO Non praevalebunt Città del Vaticano [email protected] www.osservatoreromano.va IL CAIRO, 11. Si aprono i lavori del nuovo Parlamento egiziano, eletto con le legislative dello scorso autunno. È la prima volta dopo la dissoluzione — nel giugno del 2012 — delle precedenti Camere. La sessione inaugurale, trasmessa ieri in diretta dalla televisione di Stato, è stata presieduta dal deputato di maggior età, Bahaa Abu Sheqa, 77 anni, affianca- Bombardata la centrale elettrica di Bengasi Libia in balia dell’Is TRIPOLI, 11. Non decolla l’accordo mediato dalle Nazioni Unite per un Governo di unità nazionale e la Libia rimane in balia del terrorismo, soprattutto quello legato ai miliziani del cosiddetto Stato islamico (Is). Dopo la strage a Zliten (81 poliziotti uccisi) lo stesso premier designato Fayez Al Sarraj è stato oggetto sabato di un attacco armato. E un intenso bombardamento di artiglieria ha colpito ieri la principale centrale elettrica di Bengasi, che rifornisce di corrente la maggior parte della Libia orientale fino alla frontiera con l’Egitto, circa 500 chilometri più a est: lo ha reso noto un portavoce dell’im- GIOVANNI MARIA VIAN direttore responsabile Giuseppe Fiorentino vicedirettore Piero Di Domenicantonio pianto secondo cui sono stati messi fuori uso cinque trasformatori su sei. Si prevedono pertanto aggravamenti dei blackout che già affliggono la Cirenaica, per rimediare ai quali sarà necessario l’intervento di tecnici stranieri, peraltro ostacolato dalle pessime condizioni di sicurezza. Stando alle autorità, è probabile che chi ha scatenato l’attacco avesse contatti all’interno del complesso, i quali hanno fornito agli assalitori le coordinate per centrare il bersaglio. Le salve hanno raggiunto anche un vicino campo profughi, uccidendo una donna e ferendo altre nove persone. Servizio vaticano: [email protected] Servizio internazionale: [email protected] Servizio culturale: [email protected] Servizio religioso: [email protected] caporedattore Gaetano Vallini segretario di redazione to dai più giovani, una coppia di ventiseienni. I parlamentari hanno prestato giuramento e, successivamente, hanno votato Ali Abdel Al come nuovo presidente della Camera dei rappresentanti egiziana. Abdel Al ha ricevuto 401 preferenze su un totale di 595 voti espressi, di cui cinque annullati. Insieme ad Abdel Al, dato già per favorito nei giorni scorsi, erano in corsa altri sei parlamentari, fra i quali l’ex ministro per gli Affari sociali, Ali Moselhy, giunto secondo con 110 voti, e il presentatore televisivo e deputato indipendente Tawfiq Okasha. Nel suo discorso poco dopo l’elezione Abdel Al ha dichiarato che «il Parlamento difenderà la democrazia richiesta dalla popolazione il 25 gennaio 2011 e il 30 giugno 2013», ponendo i suoi omaggi al Servizio fotografico: telefono 06 698 84797, fax 06 698 84998 [email protected] www.photo.va presidente Abd Al Fattah Al Sisi che ha sostenuto le aspirazioni del popolo egiziano. La nuova Assemblea legislativa è dominata da indipendenti e partiti favorevoli al presidente Al Sisi. La precedente, eletta nel 2011, era invece dominata dai Fratelli musulmani, e fu disciolta dalla Corte Costituzionale. La seduta di ieri rappresenta il completamento del percorso politico dell’Egitto dopo la deposizione del presidente Mohamed Mursi nel 2013. Come detto, la sessione è stata la prima dopo che i due Parlamenti precedenti sono stati sciolti, la prima volta nel febbraio 2011 e la seconda volta nel giugno 2012. Le altre tappe del percorso politico sono state la promulgazione della Costituzione, nel gennaio 2014, e l’elezione di Al Sisi, avvenuta nel giugno del 2014. Segreteria di redazione Tipografia Vaticana Editrice L’Osservatore Romano don Sergio Pellini S.D.B. direttore generale Tariffe di abbonamento Vaticano e Italia: semestrale € 99; annuale € 198 Europa: € 410; $ 605 Africa, Asia, America Latina: € 450; $ 665 America Nord, Oceania: € 500; $ 740 Abbonamenti e diffusione (dalle 8 alle 15.30): telefono 06 698 99480, 06 698 99483 fax 06 69885164, 06 698 82818, [email protected] [email protected] Necrologie: telefono 06 698 83461, fax 06 698 83675 NOUAKCHOTT, 11. Il gruppo jihadista Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi) ha diffuso nel fine settimana un video, inviato all’agenzia di stampa mauritana Al Ajbar, in cui mostra lo svedese Johan Gustafsson e il sudafricano Stephen Malcolm rapiti oltre tre anni fa a Timbuctu, nel nord del Mali. Nel video un portavoce dell’Aqmi legge in inglese un messaggio in cui non specifica le richieste per la loro liberazione, ma precisa che sono sempre le stesse, note ai due Governi. Denunciate violenze nel Darfur KHARTOUM, 11. Nuove violenze sono state segnalate dal Darfur, la regione occidentale sudanese teatro dal febbraio del 2003 di un conflitto civile che soprattutto nei suoi primi anni provocò centinaia di migliaia di morti e una delle maggiori crisi umanitarie di sempre, con tre milioni di profughi. Secondo i ribelli del Movimento di liberazione sudanese, quattro persone sono state uccise ieri dalle forze di sicurezza che hanno disperso una manifestazione a Geneina. Le autorità hanno confermato disordini, ma smentito che ci siano state vittime. La seduta inaugurale del Parlamento egiziano (Ansa) telefono 06 698 83461, 06 698 84442 fax 06 698 83675 [email protected] Video di ostaggi rapiti in Mali oltre tre anni fa Concessionaria di pubblicità Aziende promotrici della diffusione Il Sole 24 Ore S.p.A. System Comunicazione Pubblicitaria Ivan Ranza, direttore generale Sede legale Via Monte Rosa 91, 20149 Milano telefono 02 30221/3003, fax 02 30223214 [email protected] Intesa San Paolo Ospedale Pediatrico Bambino Gesù Banca Carige Società Cattolica di Assicurazione Credito Valtellinese L’OSSERVATORE ROMANO lunedì-martedì 11-12 gennaio 2016 pagina 3 Raccolta di fondi in Libano per la popolazione della città assediata (Afp) A Islamabad tra Afghanistan, Pakistan, Cina e Stati Uniti Arrestati quattro palestinesi Vertice sul dialogo con i talebani Non si attenua la tensione in Terra santa ISLAMABAD, 11. I rappresentanti di Pakistan, Afghanistan, Cina e Stati Uniti sono riuniti oggi a Islamabad per rilanciare i negoziati di pace con i talebani afghani. I lavori sono stati aperti dal consigliere del premier pakistano per gli Affari esteri, Sartaj Aziz. La delegazione afghana è guidata dal vice ministro degli Esteri, Khalil Hekmat Karzai. I talebani afghani — secondo la stampa locale — hanno deciso di boicottare il vertice definendolo “inutile”. Tuttavia, alcuni media riferiscono che potrebbe essere presente il vice leader Sirajuddin Haqqani. I primi colloqui diretti tra il Governo di Kabul e i talebani, con la presenza di Stati Uniti e Cina in qualità di osservatori, si erano tenuti nel luglio 2015 nella località turistica di Murree, vicino a Islamabad. Erano deragliati pochi mesi dopo quando da una fonte afghana emerse la notizia della scomparsa del leader supremo Omar avvenuta due anni prima per una misteriosa malattia. La notizia provocò una crisi nella leadership talebana. Alla vigilia dell’incontro di Islamabad il presidente afghano, Ashraf Ghani, ha ricordato che «l’Afghanistan ha una posizione molto chiara sulla pace» e che «non sarà fatta alcuna trattativa che riguardi l’indipendenza o la Costituzione» del Paese. Comunque, ha poi aggiunto, «la Costituzione afghana ha ovviamente dei limiti», ma «non saranno accettate modifiche che contrastino con i suoi principi fondamentali». L’Afghanistan, ha infine sottolineato Ghani, non andrà mai in alcun posto «con l'atteggiamento di implorare la pace». Intanto, alcuni media pakistani hanno rilanciato le dichiarazioni di Javaid Faisal, vice portavoce del Chief executive afghano, Abdullah Abdullah, secondo cui il Pakistan porterà al tavolo della conferenza di Islamabad due liste: una dei talebani che sono disponibili a partecipare al processo di pace e riconciliazione afghano; un'altra di quelli che invece non lo sono. I talebani che «sono interessati alla pace possono unirsi al dialogo, ma quelli che optassero per continuare a combattere saranno combattuti». Sul piano militare, circa 40 talebani sono stati uccisi nel fine settimana nell’operazione delle forze afghane per riprendere il controllo del distretto di Darqad, nella provincia settentrionale di Takhar. Secondo il portavoce del Governo locale, le truppe governative sono entrate nella zona che da tre mesi era occupata dai ribelli islamici. Nella provincia di Sa’dah roccaforte dei ribelli huthi Colpito da un missile un ospedale nello Yemen Incertezza sull’apertura del corridoio umanitario per la città siriana allo stremo Madaya attende aiuti DAMASCO, 11. La popolazione di Madaya, la città siriana dove secondo l’Onu quarantamila persone rischiano la morte per fame, attende ancora l’apertura del corridoio umanitario che, nelle speranze del Comitato internazionale della Croce rossa (Cicr), sarebbe dovuto essere operativo già da ieri. Fonti dello stesso Cicr hanno comunicato che l’avvio dell’operazione ha subito un rinvio, ma hanno aggiunto che forse già oggi la situazione si potrebbe sbloccare con il via libera al primo convoglio di alimenti e medicine. Come noto, nella città sono asserragliate milizie ribelli delle quali l’assedio delle forze governative non è riuscito finora ad avere ragione. Il portavoce in Siria del Cicr, Paweł Krzysiek, ha ricordato ieri come l’ultima volta in cui si è riusciti a in- trodurre alimenti a Madaya è stato lo scorso 17 ottobre: dopo si è intensificato l’accerchiamento delle forze governative. Secondo l’organizzazione Medici senza frontiere, almeno 23 persone sono morte di fame dal primo dicembre nell’ospedale cittadino in cui il suo personale presta assistenza. Sempre in Siria, secondo fonti dell’opposizione al presidente Bashar Al Assad, bombardamenti governativi nell’area di Ghuta (zona alla periferia sudorientale di Damasco che vede ancora attive le milizie ribelli) hanno provocato ieri almeno otto morti, compresi un bambino e una donna, e numerosi feriti, in larga parte in gravi condizioni. Sui fronti iracheni, intanto, il Governo di Baghdad ha rivendicato ieri l’uccisione di uno dei principali Monito di Obama alla Corea del Nord Soldati yemeniti a un posto di blocco nella capitale Sana’a (Ansa) SANA’A, 11. Non si ferma il conflitto nello Yemen che ha già causato oltre 6000 morti, 28.000 feriti e milioni di rifugiati. Ieri quattro perso- Indagini sull’attacco alla base nel Punjab indiano ISLAMABAD, 11. Saranno avviate al più presto le indagini sul recente attacco contro la base aerea indiana nel Punjab. Ad annunciarlo è stato il premier pakistano, Nawaz Sharif, nel corso di una telefonata, ieri sera, con il segretario di Stato americano, John Kerry. Su richiesta di New Delhi, Sharif ha accettato di cooperare nell’inchiesta sui militanti islamici che il 2 gennaio scorso hanno attaccato la base nel Punjab di Pathankot. Secondo l’intelligence indiana, l’assalto è stato organizzato dal gruppo islamico pakistano Jaish e Mohammad. Tuttavia, l’azione è stata rivendicata da un’altra organizzazione armata che opera in Kashmir e che sostiene di non aver connessioni con il Pakistan. Secondo i media, New Delhi ha trasmesso le prove dell’operazione ad altri cinque Paesi (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Giappone e Corea del Sud), oltre che al Pakistan. ne sono morte e una decina rimaste ferite nell’impatto di un missile contro un centro sanitario gestito da Medici senza frontiere, nel nord del Paese. Lo riferisce la stessa organizzazione internazionale che lamenta la gravità della situazione e l’aumento di simili attacchi. Medici senza frontiere ha inoltre sottolineato di condividere regolarmente le coordinate gps delle proprie strutture con tutte le parti combattenti. L’ospedale colpito si trovava nella zona di Razeh, nella provincia di Sa’dah, che è la principale roccaforte dei ribelli huthi. Si ignora ancora se il missile sia stato sparato da forze della coalizione a guida saudita o dai ribelli huthi. In una nota, Medici senza frontiere dichiara che «il bilancio dell'impatto potrebbe aggravarsi perché ci sono persone rimaste sotto le macerie e alcuni dei feriti sono in condizioni critiche». Tutto il personale medico e paramedico è stato evacuato da Razeh, e i pazienti sono stati trasferiti in un altro ospedale a Sa’dah. Sul piano politico, l’inviato speciale dell’Onu per lo Yemen, il diplomatico Ismail Ould Cheikh Ahmed, è giunto ieri a Sana’a per tentare di convincere i ribelli huthi e i loro alleati — le milizie dell’ex presidente Ali Abdallah Saleh — a riprendere i negoziati di pace con il Governo del presidente Abd Rabbo Mansour Hadi, riconosciuto dalla comunità internazionale. Nel frattempo, jihadisti legati al cosiddetto Stato islamico (Is) hanno rivendicato l’uccisione di un alto funzionario della sicurezza locale nella città portuale di Aden, nel sud del Paese, sede del Governo yemenita e riconquistata in estate. SEOUL, 11. Un bombardiere B-52 statunitense ha sorvolato la Corea del Sud ed è sceso ieri in picchiata su una base aerea vicino al confine con la Corea del Nord. Una dimostrazione di forza, dopo il test nucleare effettuato dal regime comunista di Pyongyang. Il bombardiere, che può trasportare armi nucleari, ha brevemente sorvolato la base militare d’O san, quasi settanta chilometri a sud della frontiera intercoreana, prima di rientrare. Questo tipo di velivolo è utilizzato nelle esercitazioni militari annuali congiunte di Stati Uniti e Corea del Sud, ma le loro uscite raramente vengono rese pubbliche. L’episodio dimostra come la tensione nella regione sia montata al punto da evocare atmosfere da guerra fredda. La Casa Bianca ha definito una «provocazione» il test nucleare di Pyongyang. Il leader nordcoreano Kim Jong Un ha affermato invece che l’operazione è stata un atto di auto-difesa e ha oggi incoraggiato gli scienziati nucleari del suo Paese a lavorare per nuovi «maggiori successi». Kim Jong Un è stato accolto con entusiasmo dai tecnici che hanno contribuito a quello che Pyongyang ha definito «il primo riuscito test di una bomba all’idrogeno». Lo riferisce l’agenzia stampa di Stato nordcoreana Kcna, aggiungendo che il leader nordcoreano si è fatto fotografare assieme allo staff che ha permesso la riuscita del test. comandanti del cosiddetto Stato islamico (Is) in un raid della propria aviazione a est della città di Haditha, nella provincia di al Anbar. Si tratta di Assi Ali Mohammed Nasser Al-Obeidi, ex comandante di brigata della Guardia repubblicana irachena all’epoca di Saddam Hussein, tenuto per anni in detenzione dalle forze statunitensi che avevano rovesciato quest’ultimo. Al Obeidi era stato prima imprigionato a Camp Bocca, nei pressi di Bassora. Proprio qui, aveva conosciuto il leader del gruppo jihadista, il cosiddetto califfo Abu Bakr al Baghdadi, di cui era poi diventato uno dei principali luogotenenti. Successivamente era stato trasferito nel carcere di Abu Ghraib, alle porte di Baghdad, dal quale era riuscito a evadere. TEL AVIV, 11. Non si fermano le violenze in Terra santa. Sparatorie e aggressioni sono segnalate anche oggi in Israele e nei Territori palestinesi in Cisgiordania. Nessuna vittima. Ieri quattro palestinesi di Hebron sono stati arrestati con il sospetto di far parte di una cellula di Hamas (il movimento islamico che controlla Gaza dal 2006) che progettava attacchi con armi da fuoco contro israeliani. L’operazione è stata condotta dall’esercito e dallo Shin Bet, il servizio di sicurezza interna israeliano. Alla guida del gruppo di jihadisti, secondo le forze dell’ordine, c’era Muhammad Ali Kawasmeh (38 anni), fratello di Hossam Kawasmeh, ritenuto l’ideatore del rapimento e dell’assassinio dei tre ragazzi israeliani Gil Ad Shaer, Naftali Frenkel e Eyal Yifrah nel giugno del 2014. Rapimento che precedette lo scoppio dell’ultimo conflitto tra Israele e Hamas. Intanto, il Consiglio dei ministri israeliano ha approvato ieri la nomina di Arieh Deri a nuovo titolare del dicastero dell’Interno, dopo che il suo predecessore Silvan Shalom si è dimesso in seguito ad accuse di molestie sessuali. L’esponente ultraortodosso fa già parte del Governo e manterrà il suo portafoglio di ministro per il Negev, la Galilea e la Periferia. Aveva ottenuto il ministero in novembre, dopo essersi dimesso da titolare dell’Economia perché in disaccordo con Netanyahu sulla politica per il gas naturale. Alla guida del partito sefardita ultraortodosso Shas, Deri è già stato ministero dell’Interno negli anni Novanta. Sparatorie a Washington WASHINGTON, 11. Ancora vittime delle armi negli Stati Uniti. Un morto e otto feriti è il bilancio di sei distinte sparatorie avvenute nel fine settimana nella zona nordorientale e in quella sudorientale di Washington e sulle quali sta indagando la polizia. Il primo episodio si è verificato nella zona di Hayes Street, dove gli agenti hanno trovato un uomo, Joseph Andre Robinson, colpito mortalmente da diversi colpi di arma da fuoco. Poche ore dopo, le forze dell’ordine sono state chiamate nello stesso quartiere, trovando altre due persone ferite a un isolato di distanza: gli investigatori stanno cercando ancora di capire se le tre sparatorie sono collegate. Sabato sera, invece, tre ragazzini e un adulto sono stati feriti dopo una partita di basket, con proiettili esplosi da un’automobile. Altre due persone, infine, sono state ferite da colpi di arma da fuoco nella zona sudorientale della capitale. Per ricordare le vittime della violenza da armi da fuoco, una sedia vuota farà da contorno, domani, al discorso alla Nazione per l’ultimo State of the Union del presidente, Barack Obama. La lotta per la regolamentazione della vendita delle armi è uno dei punti centrali del secondo mandato di Obama. Il piano presentato dalla Casa Bianca pochi giorni fa è composto da diverse misure incentrate sul potenziamento dei controlli sui venditori e delle forze dell’Fbi impegnate in questo settore. Il presidente ha inoltre chiesto ai dipartimenti di Difesa, Giustizia e Sicurezza interna di condurre, sostenere e sponsorizzare la ricerca in ambito tecnologico per la sicurezza delle armi. Previsto inoltre il rafforzamento delle indagini preliminari, che diventeranno obbligatorie, prima di permettere a un cittadino americano di acquistare armi. Tali accertamenti saranno svolti anche per gli acquisti on-line. Verso l’estradizione di El Chapo Un B-52 statunitense scortato da caccia (Ap) CITTÀ DEL MESSICO, 11. Le autorità messicane hanno avviato formalmente il processo di estradizione del boss dei narcos Joaquín (El Chapo) Guzmán verso gli Stati Uniti. L’avvio della procedura è stata notificata dall’Interpol a Guzmán nella prigione di massima sicurezza di Altipiano, in cui è detenuto dopo essere stato catturato venerdì. Era fuggito attraverso un tunnel dallo stesso penitenziario. L’avvocato di Guzmán, Juan Pablo Badillo, ha detto che la difesa ha già depositato sei mozioni per annullare le richieste di estradizione. Le autorità messicane hanno anche deciso di aprire un’indagine contro l’attore americano Sean Penn per avere intervistato El Chapo il 2 ottobre scorso, mentre era latitante. Indagata anche l’attrice messicana Kate del Castillo che, come ha raccontato lo stesso Penn, ha aiutato l’attore americano a organizzare l’incontro nel covo segreto del capo del cartello della droga di Sinaloa. Il colloquio tra Penn e il più potente e violento narcotrafficante al mondo è apparso sulla rivista «Rolling Stone», accompagnato da un video. A riguardo, il capo di Gabinetto della Casa Bianca, Denis McDonough, interpellato dalla emittente televisiva Cnn, si è detto «infuriato» per l’accaduto. pagina 4 L’OSSERVATORE ROMANO lunedì-martedì 11-12 gennaio 2016 Nel riflettere «sulla grave emergenza migratoria che stiamo affrontando, per discernerne le cause, prospettare delle soluzioni, vincere l’inevitabile paura che accompagna un fenomeno così massiccio e imponente», Papa Francesco ha ribadito che bisogna «mettere la persona umana e la sua dignità al cuore di ogni risposta umanitaria». Occasione è stato il discorso al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, riunito lunedì mattina, 11 gennaio, nella Sala Regia per la tradizionale udienza di inizio anno. L’incontro, come di consueto, ha offerto al Pontefice l’occasione per un’ampia panoramica della situazione internazionale. Nel discorso al corpo diplomatico il Papa si sofferma sulla grave emergenza dei profughi e dei rifugiati La persona al centro delle politiche migratorie Eccellenze, Signore e Signori, Vi porgo un cordiale benvenuto a questo appuntamento annuale, che mi offre l’opportunità di presentarVi gli auguri per il nuovo anno, consentendomi di riflettere insieme con Voi sulla situazione di questo nostro mondo, benedetto e amato da Dio, eppure travagliato e afflitto da tanti mali. Ringrazio il nuovo Decano del Corpo Diplomatico, Sua Eccellenza il Signor Armindo Fernandes do Espírito Santo Vieira, Ambasciatore di Angola, per le amabili parole che mi ha indirizzato a nome dell’intero Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, mentre desidero ricordare in modo speciale — a quasi un mese dalla Nel saluto del decano Il pane di san Francesco di Paola Davanti all’intensificarsi di numerosi conflitti in tutti i continenti «il mondo possa comprendere che c’è sempre qualcosa da condividere»: richiama un famoso miracolo di san Francesco di Paola l’immagine scelta dal decano del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, per esprimere l’auspicio che «tutti possano trovare il pane» da condividere «per soddisfare i bisogni degli uomini». Nel discorso rivolto a Papa Francesco all’inizio dell’udienza, l’ambasciatore dell’Angola, Armindo Fernandes do Espírito Santo Vieira, ha infatti ricordato che in questo 2016 ricorre il sesto centenario della nascita del santo calabrese (27 marzo 1416), sottolineando come nella biografia del fondatore dell’ordine dei minimi si legga che un giorno mentre era in cammino, sentendosi dire «da alcuni lavoratori poveri che essi non avevano nulla da condividere, li invitò a controllare nelle loro bisacce, dove, stupefatti, trovarono del pane fresco». Parlando per la prima volta al Pontefice come decano, il diplomatico in francese ha preso spunto dalle «innumerevoli situazioni tragiche che si verificano in un mondo desideroso di pace» per richiamare l’importanza del perdono, così come l’ha sottolineata lo stesso Pontefice convocando il giubileo straordinario della misericordia. In tal senso, ha aggiunto, i messaggi papali diventano «una luce che cerca di illuminare le coscienze più ostinatamente addormentate». Ripercorrendo poi le principali tappe dell’attività di Francesco nel 2015, l’ambasciatore ha rimarcato in particolare il Sinodo dei vescovi sulla famiglia, «in cui la Chiesa ha confermato l’amore che ella riserva a tutte le persone, nelle diverse situazioni che esse vivono durante l’esistenza». Il diplomatico si è soffermato quindi sui viaggi apostolici e per ogni continente ha individuato un tema guida: in Asia, l’importanza della tolleranza e della cooperazione tra le nazioni, e al contempo la speranza che la Chiesa ripone nei giovani; in Europa, il rilancio del dialogo e della convivenza pacifica; in America, la conoscenza della storia e delle radici come fonti di ispirazione per la costruzione della pace. E in tale contesto, ha fatto notare, «grazie al prezioso contributo riconosciuto di vostra Santità, è stato possibile assistere al ristabilimento delle relazioni, interrotte per decenni, tra due nazioni»: ovvero Cuba e Stati Uniti. Quanto all’Africa, «aprendo a Bangui, la prima porta santa del giubileo», Francesco ha «coronato un cammino di speranza. Ha mostrato al mondo che il cuore della Chiesa è ovunque ed è vicino soprattutto a quanti soffrono di più». Infine il decano ha accennato alle sfide ambientali trattate nella Laudato si’, alla dimensione planetaria assunta dal terrorismo e all’intolleranza che diventa persecuzione religiosa. In proposito ha rimarcato l’attualità della dichiarazione conciliare Nostra aetate e ha citato Paolo VI, il quale affermava che la Chiesa esorta gli uomini a vivere insieme il loro comune destino. Tuttavia, ha constatato l’ambasciatore, la violenza sta ora colpendo intere nazioni, con particolari conseguenze per le categorie più vulnerabili della popolazione: donne , bambini, giovani e anziani. Inoltre, peggiora drasticamente la povertà, che è anche un fattore decisivo nell’attuale crisi migratoria. Da qui gli auspici di condivisione tra i vari Paesi, con la speranza conclusiva che il giubileo possa realizzare in pieno il suo spirito di perdono e di grazia per tutti. lunedì-martedì 11-12 gennaio 2016 Ed esorta l’Europa a non smarrire i suoi principi di umanità, rispetto e solidarietà scomparsa — i compianti Ambasciatori di Cuba, Rodney Alejandro López Clemente, e della Liberia, Rudolf P. von Ballmoos. L’occasione mi è gradita anche per rivolgere un particolare pensiero a quanti partecipano per la prima volta a questo incontro, rilevando con soddisfazione che, nel corso dell’ultimo anno, il numero di Ambasciatori residenti a Roma si è ulteriormente accresciuto. Si tratta di un significativo segno dell’attenzione con la quale la Comunità internazionale segue l’attività diplomatica della Santa Sede. Ne sono una ulteriore prova gli Accordi internazionali sottoscritti o ratificati nel corso dell’anno appena concluso. In particolare, desidero qui citare le intese specifiche in materia fiscale firmate con l’Italia e gli Stati Uniti d’America, che testimoniano l’accresciuto impegno della Santa Sede in favore di una più ampia trasparenza nelle questioni economiche. Non meno importanti sono gli accordi di carattere generale, volti a regolare aspetti essenziali della vita e dell’attività della Chiesa nei vari Paesi, quale l’intesa siglata a Díli con la Repubblica Democratica di Timor-Leste. Parimenti, desidero richiamare lo scambio degli Strumenti di Ratifica dell’Accordo con il Ciad sullo statuto giuridico della Chiesa cattolica nel Paese, come pure l’Accordo firmato e ratificato con la Palestina. Si tratta di due accordi che, unitamente al Memorandum d’Intesa tra la Segreteria di Stato e il Ministero degli Affari Esteri del Kuwait, dimostrano, tra l’altro, come la convivenza pacifica fra appartenenti a religioni diverse sia possibile, laddove la libertà religiosa è riconosciuta e l’effettiva possibilità di collaborare all’edificazione del bene comune, nel reciproco rispetto dell’identità culturale di ciascuno, è garantita. D’altra parte, ogni esperienza religiosa autenticamente vissuta non può che promuovere la pace. Ce lo ricorda il Natale che abbiamo da poco celebrato e nel quale abbiamo contemplato la nascita di un bambino inerme, «chiamato: Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace» (cfr. Is 9, 5). Il mistero dell’Incarnazione ci mostra il vero volto di Dio, per il quale potenza non significa forza e distruzione, bensì amore; giustizia non significa vendetta, bensì misericordia. È in questa prospettiva che ho inteso indire il Giubileo straordinario della Misericordia, inaugurato eccezionalmente a Bangui nel corso del mio viaggio apostolico in Kenya, Uganda e Repubblica Centroafricana. In un Paese lungamente provato da fame, povertà e conflitti, dove la violenza fratricida degli ultimi anni ha lasciato ferite profonde negli animi, lacerando la comunità nazionale e generando miseria materiale e morale, l’apertura della Porta Santa della Cattedrale di Bangui ha voluto essere un segno di incoraggiamento ad alzare lo sguardo, a riprendere il cammino e a ritrovare le ragioni del dialogo. Laddove il nome di Dio è stato abusato per commettere ingiustizia, ho voluto ribadire, insieme con la comunità musulmana della Repubblica Centroafricana, che «chi dice di credere in Dio dev’essere anche un uomo o una donna di pace» (Incontro con la comunità musulmana, Bangui, 30 novembre 2015), e dunque di misericordia, giacché non si può mai uccidere nel nome di Dio. Solo una forma ideologica e deviata di religione può pensare di rendere giustizia nel nome dell’Onnipotente, deliberatamente massacrando persone inermi, come è avvenuto nei sanguinari attentati terroristici dei mesi scorsi in Africa, Europa e Medio O riente. La misericordia è stato come il “filo conduttore” che ha guidato i miei viaggi apostolici già nel corso dell’anno passato. Mi riferisco anzitutto alla visita a Sarajevo, città profondamente ferita dalla guerra nei Balcani e capitale di un Paese, la Bosnia ed Erzegovina, che riveste uno speciale significato per l’Europa e per il mondo intero. Quale crocevia di culture, nazioni e religioni si sta sforzando, con esiti positivi, di costruire sempre nuovi ponti, di valorizzare ciò che unisce e di guardare alle differenze come opportunità di crescita nel rispetto di tutti. Ciò è possibile mediante un dialogo paziente e fiducioso, che sa far propri i valori della cultura di ciascuno e L’apertura della porta santa a Bangui il 29 novembre accogliere il bene proveniente dalle esperienze altrui (cfr. Incontro con le Autorità, Sarajevo, 6 giugno 2015). Il mio pensiero va poi al viaggio in Bolivia, Ecuador e Paraguay, dove ho incontrato popoli che non si arrendono dinanzi alle difficoltà e affrontano con coraggio, determinazione e spirito di fraternità le numerose sfide che li affliggono, a partire dalla diffusa povertà e dalle disuguaglianze sociali. Nel corso del viaggio a Cuba e negli Stati Uniti d’America ho potuto abbracciare due Paesi che sono stati lungamente divisi e che hanno deciso di scrivere una nuova pagina della storia, intraprendendo un cammino di ravvicinamento e di riconciliazione. A Filadelfia, in occasione dell’Incontro Mondiale delle Famiglie, come pure nel corso del viaggio in Sri Lanka e nelle Filippine e con il recente Sinodo dei Vescovi, ho richiamato l’importanza della famiglia, che è la prima è più importante scuola di misericordia, nella quale si impara a scoprire il volto amorevole di Dio e dove la nostra umanità cresce e si sviluppa. Purtroppo, conosciamo le numerose sfide che la famiglia deve affrontare in questo tempo, in cui è «minacciata dai crescenti tentativi da parte di alcuni per ridefinire la stessa istituzione del matrimonio mediante il relativismo, la cultura dell’effimero, una mancanza di apertura alla vita» (Incontro con le famiglie, Manila, 16 gennaio 2015). C’è oggi una diffusa paura dinanzi alla definitività che la famiglia esige e ne fanno le spese soprattutto i più giovani, spesso fragili e disorientati, e gli anziani che finiscono per essere dimenticati e abbandonati. Al contrario, «dalla fraternità vissuta in famiglia, nasce (...) la solidarietà nella società» (Incontro con la società civile, Quito, 7 luglio 2015), che ci porta ad essere responsabili l’uno dell’altro. Ciò è possibile solo se nelle nostre case, così come nelle nostre società, non lasciamo sedimentare le fatiche e i risentimenti, ma diamo posto al dialogo, che è il migliore antidoto all’individualismo così ampiamente diffuso nella cultura del nostro tempo. Cari Ambasciatori, Uno spirito individualista è terreno fertile per il maturare di quel senso di indifferenza verso il prossimo, che porta a trattarlo come mero oggetto di compravendita, che spinge a disinteressarsi dell’umanità degli altri e finisce per rendere le persone pavide e ciniche. Non sono forse questi i sentimenti che spesso abbiamo di fronte ai poveri, agli emarginati, agli ultimi della società? E quanti ultimi abbiamo nelle nostre società! Tra questi, penso soprattutto ai migranti, con il loro carico di difficoltà e sofferenze, che affrontano ogni giorno nella ricerca, talvolta disperata, di un luogo ove vivere in pace e con dignità. Vorrei perciò quest’oggi soffermarmi a riflettere con Voi sulla grave emergenza migratoria che stiamo affrontando, per discernerne le cause, prospettare delle soluzioni, vincere l’inevitabile paura che accompagna un fenomeno così massiccio e imponente, che nel corso del 2015 ha riguardato soprattutto l’Europa, ma anche diverse regioni dell’Asia e il nord e il centro America. «Non aver paura e non spaventarti, perché il Signore, tuo Dio, è con te, dovunque tu vada» (Gs 1, 9). È la promessa che Dio fa a Giosuè e che mostra quanto il Signore accompagni ogni persona, soprattutto chi è in una situazione di fragilità come quella di chi cerca rifugio in un Paese straniero. Invero, tutta la Bibbia ci narra la storia di un’umanità in cammino, perché l’essere in movimento è connaturale all’uomo. La sua storia è fatta di tante migrazioni, talvolta maturate come consapevolezza del diritto ad una libera scelta, sovente dettate da circostanze esteriori. Dall’esilio dal paradiso terrestre fino ad Abramo in marcia verso la terra promessa; dal racconto dell’Esodo alla deportazione in Babilonia, la Sacra Scrittura narra fatiche e dolori, desideri e speranze, che sono simili a quelli delle centinaia di migliaia di persone in marcia ai nostri giorni, con la stessa determinazione di Mosè di raggiungere una terra nella quale scorra “latte e miele” (cfr. Es 3, 17), dove poter vivere liberi e in pace. E così, oggi come allora, udiamo il grido di Rachele che piange i suoi figli perché non sono più (cfr. Ger 31, 15; Mt 2, 18). È la voce delle migliaia di persone che piangono in fuga da guerre orribili, da persecuzioni e violazioni dei diritti umani, o da instabilità politica o sociale, che rendono spesso impossibile la vita in patria. È il grido di quanti sono costretti a fuggire per evitare le barbarie indicibili praticate verso persone indifese, come i bambini e i disabili, o il martirio per la sola appartenenza religiosa. Come allora, udiamo la voce di Giacobbe che dice ai suoi figli «Andate laggiù e comprate [il grano] per noi, perché possiamo conservarci in vita e non morire» (Gen 42, 2). È la voce di quanti fuggono dalla miseria estrema, per l’impossibilità di sfamare la famiglia o di accedere alle cure mediche e all’istruzione, dal degrado senza prospettive di alcun progresso, o anche a causa dei cambiamenti climatici e di condizioni climatiche estreme. Purtroppo, è noto come la fame sia ancora una delle piaghe più gravi del nostro mondo, con milioni di bambini che ogni anno muoiono a causa di essa. Duole, tuttavia, constatare che spesso questi migranti non rientrano nei sistemi internazionali di protezione in base agli accordi internazionali. Come non vedere in tutto ciò il frutto di quella “cultura dello scarto” che mette in pericolo la persona umana, sacrificando Nel 2015 firmati quattro accordi Sono 180 gli Stati che attualmente intrattengono relazioni diplomatiche con la Santa Sede. A essi vanno aggiunti l’Unione europea e il Sovrano Militare Ordine di Malta, come anche la missione permanente dello Stato di Palestina. Per quanto riguarda le organizzazioni internazionali, lo scorso 4 giugno la Santa Sede è diventata Osservatore presso la Comunità caraibica (Caricom). Le cancellerie di ambasciata con sede a Roma, incluse quelle dell’Unione europea e del Sovrano Militare Ordine di Malta, sono 86: nel 2015 si sono aggiunte le ambasciate di Belize, di Burkina Faso e di Guinea Equatoriale. Hanno sede a Roma anche la missione dello Stato di Palestina e gli uffici della Lega degli Stati arabi, dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni e dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Nel corso del 2015 sono stati firmati quattro accordi: il 1° aprile, la Convenzione tra la Santa Sede e il Governo della Repubblica Italiana in materia fiscale; il 10 giugno, l’Accordo tra la Santa Sede, anche a nome e per conto dello Stato della Città del Vaticano, e gli Stati Uniti d’America per favorire l’osservanza a livello internazionale degli obblighi fiscali e attuare la Foreign Account Tax Compliance Act (Fatca); il 26 giugno, l’Accordo globale tra la Santa Sede e lo Stato di Palestina; e il 14 agosto, l’Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica Democratica di Timor-Leste sullo statuto giuridico della Chiesa cattolica. Il 22 giugno 2015 è stato ratificato l’Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica del Ciad sullo statuto giuridico della Chiesa cattolica, che era stato firmato il 6 novembre 2013. Il 10 settembre, poi, è stato siglato un memorandum d’intesa tra la Segreteria di Stato e il Ministero degli Affari esteri dello Stato del Kuwait sulla conduzione delle consultazioni bilaterali. uomini e donne agli idoli del profitto e del consumo? È grave assuefarci a queste situazioni di povertà e di bisogno, ai drammi di tante persone e farle diventare “normalità”. Le persone non sono più sentite come un valore primario da rispettare e tutelare, specie se povere o disabili, se “non servono ancora” — come i nascituri —, o “non servono più” — come gli anziani. Siamo diventati insensibili ad ogni forma di spreco, a partire da quello alimentare, che è tra i più deprecabili, quando ci sono molte persone e famiglie che soffrono fame e malnutrizione (cfr. Udienza generale, 5 giugno 2013). La Santa Sede auspica che il Primo Vertice Umanitario Mondiale, convocato nel maggio prossimo dalle Nazioni Unite, possa riuscire, nel triste quadro odierno di conflitti e disastri, nel suo intento di mettere la persona umana e la sua dignità al cuore di ogni risposta umanitaria. Occorre un impegno comune che rovesci decisamente la cultura dello scarto e dell’offesa della vita umana, affinché nessuno si senta trascurato o dimenticato e altre vite non vengano sacrificate per la mancanza di risorse e, soprattutto, di volontà politica. Purtroppo, oggi come allora, sentiamo la voce di Giuda che suggerisce di vendere il proprio fratello (cfr. Gen 37, 26-27). È l’arroganza dei potenti che strumentalizzano i deboli, riducendoli ad oggetti per fini egoistici o per calcoli strategici e politici. Laddove è impossibile una migrazione regolare, i migranti sono spesso costretti a scegliere di rivolgersi a chi pratica la tratta o il contrabbando di esseri umani, pur essendo in gran parte coscienti del pericolo di perdere durante il viaggio i beni, la dignità e perfino la vita. In questa prospettiva, rinnovo ancora l’appello a fermare il traffico di persone, che mercifica gli esseri umani, specialmente i più deboli e indifesi. E rimarranno sempre indelebilmente impresse nelle nostre menti e nei nostri cuori le immagini dei bambini morti in mare, vittime della spregiudicatezza degli uomini e dell’inclemenza della natura. Chi poi sopravvive e approda ad un Paese che lo accoglie porta indelebilmente le cicatrici profonde di queste esperienze, oltre a quelle legate agli orrori che sempre accompagnano guerre e violenze. Come allora, anche oggi si ode l’Angelo ripetere: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò» (Mt 2, 13). È la voce che sentono i molti migranti che non lascerebbero mai il proprio Paese se non vi fossero costretti. Tra questi vi sono numerosi cristiani che sempre più massicciamente hanno abbandonato nel corso degli ultimi anni le proprie terre, che pure hanno abitato fin dalle origini del cristianesimo. Infine, anche oggi ascoltiamo la voce del salmista che ripete: «Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion» (Sal 136 [137], 1). È il pianto di quanti farebbero volentieri ritorno nei propri Paesi, se vi trovassero idonee condizioni di sicurezza e di sussistenza. Anche qui il mio pensiero va ai cristiani del Medio Oriente desiderosi di contribuire, come cittadini a pieno titolo, al benessere spirituale e materiale delle rispettive Nazioni. Gran parte delle cause delle migrazioni si potevano affrontare già da tempo. Si sarebbero così potute prevenire tante sciagure o, almeno, mitigarne le conseguenze più crudeli. Anche oggi, e prima che sia troppo tardi, molto si potrebbe fare per fermare le tragedie e costruire la pace. Ciò significherebbe però rimettere in discussione abitudini e prassi consolidate, a partire dalle problematiche connesse al commercio degli armamenti, al problema dell’approvvigionamento di materie prime e di energia, agli investimenti, alle politiche finanziarie e di sostegno allo sviluppo, fino alla grave piaga della corruzione. Siamo consapevoli poi che, sul tema della migrazione, occorra stabilire progetti a medio e lungo termine che vadano oltre la risposta di emergenza. Essi dovrebbero da un lato aiutare effettivamente l’integrazione dei migranti nei Paesi di accoglienza e, nel contempo, favorire lo sviluppo dei Paesi di provenienza con politiche solidali, che però non sottomettano gli aiuti a strategie e pratiche ideologicamente estranee o contrarie alle culture dei popoli cui sono indirizzate. Senza dimenticare altre situazioni drammatiche, tra le quali penso particolarmente alla frontiera fra Messico e Stati Uniti d’America, che lambirò recandomi a Ciudad Juárez il mese prossimo, vorrei dedicare un pensiero speciale all’Europa. Infatti, nel corso dell’ultimo anno essa è stata interessata da un imponente flusso di profughi — molti dei quali hanno trovato la morte nel tentativo di raggiungerla —, che non ha precedenti nella sua storia recente, nemme- no al termine della seconda guerra mondiale. Molti migranti provenienti dall’Asia e dall’Africa, vedono nell’Europa un punto di riferimento per principi come l’uguaglianza di fronte al diritto e valori inscritti nella natura stessa di ogni uomo, quali l’inviolabilità della dignità e dell’uguaglianza di ogni persona, l’amore al prossimo senza distinzione di origine e di appartenenza, la libertà di coscienza e la solidarietà verso i propri simili. Tuttavia, i massicci sbarchi sulle coste del Vecchio Continente sembrano far vacillare il sistema di accoglienza, costruito faticosamente sulle ceneri del secondo conflitto mondiale e che costituisce ancora un faro di umanità cui riferirsi. Di fronte all’imponenza dei flussi e agli inevitabili problemi connessi, sono sorti non pochi interrogativi sulle reali possibilità di ricezione e di adattamento delle persone, sulla modifica della compagine culturale e sociale dei Paesi di accoglienza, come pure sul ridisegnarsi di alcuni equilibri geo-politici regionali. Altrettanto rilevanti sono i timori per la sicurezza, esasperati oltremodo dalla dilagante minaccia del terrorismo internazionale. L’attuale ondata migratoria sembra minare le basi di quello “spirito umanistico” che l’Europa da sempre ama e difende (cfr. Discorso al Parlamento Europeo, Strasburgo, 25 novembre 2014). Tuttavia, non ci si può permettere di perdere i valori e i principi di umanità, di rispetto per la dignità di ogni persona, di sussidiarietà e di solidarietà reciproca, quantunque essi possano costituire, in alcuni momenti della storia, un fardello difficile da portare. Desidero, dunque, ribadire il mio convincimento che l’Europa, aiutata dal suo grande patrimonio culturale e religioso, abbia gli strumenti per difendere la centralità della persona umana e per trovare il giusto equilibrio fra il duplice dovere morale di tutelare i diritti dei propri cittadini e quello di garantire l’assistenza e l’accoglienza dei migranti (cfr. ibid.). In pari tempo, sento la necessità di esprimere gratitudine per tutte le iniziative prese per favorire una dignitosa accoglienza delle persone, quali, fra gli altri, il Fondo Migranti e Rifugiati della Banca di Sviluppo del Consiglio d’Europa, nonché per l’impegno di quei Paesi che hanno mostrato un generoso atteggiamento di condivisione. Mi riferisco anzitutto alle Nazioni vicine alla Siria, che hanno dato risposte immediate di assistenza e di accoglienza, soprattutto il Libano, dove i rifugiati costituiscono un quarto della popolazione complessiva, e la Giordania, che non ha chiuso le frontiere nonostante ospitasse già centinaia di migliaia di rifugiati. Parimenti non bisogna dimenticare gli sforzi di altri Paesi impegnati in prima linea, tra i quali specialmente la Turchia e la Grecia. Una particolare riconoscenza desidero esprimere all’Italia, il cui impegno deciso ha salvato molte vite nel Mediterraneo e che tuttora si fa carico sul suo territorio di un ingente numero di rifugiati. Auspico che il tradizionale senso di ospitalità e solidarietà che contraddistingue il popolo italiano non venga affievolito dalle inevitabili difficoltà del momento, ma, alla luce della sua tradizione plurimillenaria, sia capace di accogliere ed integrare il contributo sociale, economico e culturale che i migranti possono offrire. È importante che le Nazioni in prima linea nell’affrontare l’attuale emergenza non siano lasciate sole, ed è altrettanto indispensabile avviare un dialogo franco e rispettoso tra tutti i Paesi coinvolti nel problema — di provenienza, di transito o di accoglienza — affinché, con una maggiore audacia creativa, si ricerchino soluzioni nuove e sostenibili. Non si possono, infatti, pensare nell’attuale congiuntura soluzioni perseguite in modo individualistico dai singoli Stati, poiché le conseguenze delle scelte di ciascuno ricadono inevitabilmente sull’intera Comunità internazionale. È noto, infatti, che le migrazioni costituiranno un elemento fondante del futuro del mondo più di quanto non l’abbiano fatto finora e che le risposte potranno essere frutto solo di un lavoro comune, che sia rispettoso della dignità umana e dei diritti delle persone. L’Agenda di Sviluppo adottata nel settembre scorso dalle Nazioni Unite per i prossimi 15 anni, che affronta molti dei problemi che spingono alla migrazione, come pure altri documenti della Comunità internazionale per gestire la questione migratoria, potranno trovare un’applicazione coerente alle aspettative se sapranno rimettere la persona al centro delle decisioni politiche a tutti i livelli, vedendo l’umanità come una sola famiglia e gli uomini come fratelli, nel rispetto delle reciproche differenze e convinzioni di coscienza. Nell’affrontare la questione migratoria non si potranno tralasciare, infatti, i risvolti culturali connessi, a partire da quelli legati all’appartenenza religiosa. L’estremismo e il fondamentalismo trovano un terreno fertile non solo in una strumentalizzazione della religione per fini di potere, ma anche nel vuoto di ideali e nella perdita d’identità — anche religiosa —, che drammaticamente connota il cosiddetto Occidente. Da tale vuoto nasce la paura che spinge a vedere l’altro come un pericolo ed un nemico, a chiudersi in sé stessi, arroccandosi su posizioni preconcette. Il fenomeno migratorio pone, dunque, un serio interrogativo culturale, al quale non ci si può esimere dal rispondere. L’accoglienza può essere dunque un’occasione propizia per una nuova comprensione e apertura di orizzonte, sia per chi è accolto, il quale ha il dovere di rispettare i valori, le tradizioni e le leggi della comunità che lo ospita, sia per quest’ultima, chiamata a valorizzare quanto ogni immigrato può offrire a vantaggio di tutta la comunità. In tale ambito, la Santa Sede rinnova il proprio impegno in campo ecumenico ed interreligioso per instaurare un dialogo sincero e leale che, valorizzando le particolarità e l’identità propria di ciascuno, favorisca una convivenza armoniosa fra tutte le componenti sociali. Distinti Membri del Corpo Diplomatico, Il 2015 ha visto la conclusione di importanti intese internazionali, le quali fanno ben sperare per il futuro. Penso anzitutto al cosiddetto Accordo sul nucleare iraniano, che auspico contribuisca a favorire un clima di distensione nella Regione, come pure al raggiungimento dell’atteso accordo sul clima nel corso della Conferenza di Parigi. Un’intesa significativa — quest’ultima — che rappresenta un importante risultato per l’intera Comunità internazionale e che mette in luce una forte presa di coscienza collettiva circa la grave responsabilità che ciascuno, individui e Nazioni, ha di custodire il creato, promuovendo una «cultura della cura che impregni tutta la società» (Enc. Laudato si’, 231). È ora fondamentale che gli impegni assunti non rappresentino solo un buon proposito, ma costituiscano per tutti gli Stati un effettivo obbligo a porre in essere le azioni necessarie per salvaguardare la nostra amata Terra, a beneficio dell’intera umanità, soprattutto delle generazioni future. Da parte sua, l’anno da poco iniziato si preannuncia carico di sfide, e non poche tensioni si sono già affacciate all’orizzonte. Penso soprattutto ai gravi contrasti sorti nella regione del Golfo Persico, come pure al preoccupante esperimento militare condotto nella penisola coreana. Auspico che le contrapposizioni lascino spazio alla voce della pace e alla buona volontà di cercare intese. In tale prospettiva, rilevo con soddisfazione come non manchino gesti significativi e particolarmente incoraggianti. Mi riferisco in particolare al clima di pacifica convivenza nel quale si sono svolte le recenti elezioni nella Repubblica Centroafricana e che costituisce un segno positivo della volontà di proseguire il cammino intrapreso verso una piena riconciliazione nazionale. Penso, inoltre, alle nuove iniziative avviate a Cipro per sanare una divisione di lunga data e agli sforzi intrapresi dal popolo colombiano per superare i conflitti del passato e conseguire la pace da tempo agognata. Tutti guardiamo poi con speranza gli importanti passi intrapresi dalla Comunità internazionale per raggiungere una soluzione politica e diplomatica della crisi in Siria, che ponga fine alle sofferenze, durate troppo a lungo, della popolazione. Parimenti, sono incoraggianti i segnali provenienti dalla Libia, che fanno sperare in un rinnovato impegno per far cessare le violenze e ritrovare l’unità del Paese. D’altra parte, appare sempre più evidente che solamente un’azione politica comune e concordata potrà contribuire ad arginare il dilagare dell’estremismo e del fondamentalismo, con i suoi risvolti di matrice terroristica, che mietono innumerevoli vittime tanto in Siria e in Libia, come in altri Paesi, quali Iraq e Yemen. Quest’Anno Santo della Misericordia sia anche l’occasione di dialogo e riconciliazione volto all’edificazione del bene comune in Burundi, nella Repubblica Democratica del Congo e in Sud Sudan. Soprattutto sia un tempo propizio per porre definitivamente termine al conflitto nelle regioni orientali dell’Ucraina. È di fondamentale importanza il sostegno che la Comunità internazionale, i singoli Stati e le organizzazioni umanitarie potranno offrire al Paese sotto molteplici punti di vista, affinché esso superi l’attuale crisi. La sfida che più di ogni altra ci attende è però quella di vincere l’indifferenza per costruire insieme la pace (cfr. Vinci l’indifferenza e conquista la pace, Messaggio per la XLIX Giornata Mondiale della Pace, 8 dicembre 2015), la quale rimane un bene da perseguire sempre. Purtroppo tra le tante parti del nostro amato mondo che la bramano ardentemente, vi è la Terra che Dio ha prediletto e scelto per mostrare a tutti il volto della sua misericordia. Il mio augurio è che questo nuovo anno possa sanare le profonde ferite che separano Israeliani e Palestinesi e permettere la pacifica convivenza di due popoli che — ne sono certo — dal profondo del cuore null’altro chiedono che pace! Eccellenze, Signore e Signori, A livello diplomatico, la Santa Sede non smetterà mai di lavorare perché la voce della pace possa essere udita fino agli estremi confini della terra. Rinnovo pertanto la piena disponibilità della Segreteria di Stato a collaborare con Voi nel favorire un dialogo costante tra la Sede Apostolica e i Paesi che rappresentate a beneficio dell’intera Comunità internazionale, con l’intima certezza che quest’anno giubilare potrà essere l’occasione propizia perché la fredda indifferenza di tanti cuori sia vinta dal calore della misericordia, dono prezioso di Dio, che trasforma il timore in amore e ci rende artefici di pace. Con questi sentimenti rinnovo a ciascuno di Voi, alle Vostre famiglie, ai Vostri Paesi i più fervidi auguri di un anno pieno di benedizioni. Grazie. pagina 5 L’OSSERVATORE ROMANO pagina 6 lunedì-martedì 11-12 gennaio 2016 Resti archeologici a Butrinto Discrezione e civiltà da Tirana ROSSELLA FABIANI ove il fango è più dolce del miele». Questo antico proverbio albanese rivela l’immenso amore che gli albanesi hanno per la propria terra. È ancora poco conosciuta, ma ha tanto da dare. L’Albania sta vivendo un momento particolare di riconciliazione con il suo passato e di costruzione del suo futuro. È un Paese che deve mettere insieme la tradizione e il tempo che non si ferma, e che se vissuto nel modo giusto può arricchire la storia di ogni nazione. Perché lo scorrere del tempo permette di incontrare uomini e donne straordinari che cambiano il volto di un territorio riscrivendone la storia. Ma il bene non viaggia mai da solo. C’è sempre il male con lui. E questa è la storia dell’Albania come abbiamo potuto conoscere durante un viaggio organizzato dall’Agenzia nazionale del turismo. L’occasione è stato il festival del folclore più importante del Paese che si tiene ogni quattro anni ad Argirocastro (che significa fortezza argentata), città «dalle mille pietre». Qui per l’evento arrivano gli albanesi dal Kosovo, dalla Macedonia, dal Montenegro, gli arbresch e gli albanesi della diaspora. Tutti i gruppi — vestiti negli abiti tradizionali, ricamati con una foresta di simboli che raccontano la loro antica storia — si esibiscono nei canti tradizionali che parlano di epos e di amore. Lungo la salita che conduce al castello, all’incrocio di cinque stradine, inizia il cuore della città vecchia, con i tetti in pietra di Iosa, i caffè tradizionali e le botteghe di ceramiche dipinte a mano, tessuti di lana e cotone. Imperdibili sono le case ottomane appartenute ad alcune famiglie nobili locali. Ma qui sono nati personaggi che hanno scritto la storia dell’Albania. Il dittatore Henver Hoxa, la cui casa oggi ospita il museo etnografico con un’importante raccolta degli antichi oggetti delle tradizioni dei girokastrini. Musine Kokalari, la prima albanese a lottare per i diritti delle donne e una società libera, convinta dell’importanza dell’istruzione per tutti come unico strumento per cambiare la società. E lo scrittore Ismail Kadare, la cui abitazione oggi è in restauro, a cura dell’Unesco. Gli anni di Hoxa si sono consumati nel tentativo di cancellare Dio e tutta «D Sono due le grandi ferite aperte Le stragi del comunismo e una mentalità da clan che ancora sopravvive in alcuni villaggi di montagna l’intellighenzia del Paese. In migliaia sono stati uccisi o perseguitati. Ma in tanti hanno cercato di combattere il dittatore: tra questi anche Musine Kokalari che si è schierata contro il regime comunista ispirando la nascita del partito oggi all’opposizione. Kokalari ha studiato alla Sapienza di Roma dove si è laureata nel 1941 con una tesi su Naim Frasheri, poeta albanese appartenente alla confraternita islamica dei sufi Bektashi. Al suo ritorno in Albania, Kokalari ha chiaro che il suo unico desiderio è quello di scrivere. Diventa membro della Lega Albanese degli scrittori e artisti di cui è presidente il politico e scrittore Sejfulla Maleshova che Hoxa in seguito accuserà di simpatizzare per la destra, costringendolo a vivere isolato e in povertà. Kokalari scrive tre libri di racconti e si impegna per il suo Paese, ma il suo amore per la democrazia e la giustizia costerà anche a lei il carcere e l’internamento. Oggi ad Argirocastro vive la sua pronipote, Arieta Kokalari, animata dalla stessa passione, e determinata a mantenere vivo il ricordo di questa grande intellettuale con un museo a lei dedicato. «Un’intera classe di intellettuali, dissidenti politici, religiosi musulmani e cristiani cancellata. Centinaia di arresti, detenzioni e torture senza uno straccio di processo. Decine e decine di sparizioni. Hoxa — ci dice Arieta — ha voluto distruggere tutti gli intellettuali e la classe nobile del Paese». E uno di questi, che è sopravvissuto, ci accoglie in quello che una volta era il suo palazzo e ci fa visitare le stanze affrescate e decorate con intarsi lignei. Adesso è un museo. Saim Skenduli è nato qui e rappresenta la nona generazione del casato degli Skenduli. «Se lo Stato mi restituisse quelle che erano le proprietà della mia famiglia, non ci sarebbe bisogno di nessuna organizzazione per tutelare e conservare quella che era la mia casa». Ma di ALBERTO FABIO AMBROSIO a commemorazione degli avvenimenti di Parigi, quelli del gennaio e del novembre 2015, si è realizzata in numerose iniziative culturali e sociali, non tutte conosciute dal grande pubblico. È il caso, nella stessa giornata, di due eventi apparentemente lontani l’uno dall’altro, discreti per numero di persone coinvolte, ma di grande valore simbolico. Da un lato, il pomeriggio del 9 gennaio, alla Sorbona, nella sala degli Atti, alla presenza di un pubblico scelto, il professore di filosofia della normale di Lione, Bruno Pinchard, ha inaugurato ufficialmente la società dantesca di Francia (Société dantesque de France). È una prima assoluta in questo Paese, anche se per un breve periodo è stata operante una società mediterranea dedicata a Dante. Questa nuova società dantesca, il cui alto patronato scientifico è garantito dalla fama internazionale dello storico Marc Fumaroli e del filosofo Jean-Luc Marion, si è data come obiettivo non solo la diffusione nell’area francese dell’autore della Commedia, ma anche di proporre Dante come un ponte tra il pensiero occidentale ed orientale, e più propriamente musulmano. Che i membri fondatori, qualche decina in tutto, fossero coscienti dell’atto simbolico rappresentato dall’inaugurazione ufficiale di questa società dantesca — la fondazione vera e propria è avvenuta a Firenze nel mese di dicembre scorso — conferma quanto anche un poeta, in questo caso proprio Dante, possa giocare un ruolo di primo piano. L’intervento inaugurale ha sottolineato infatti quanto il poeta fiorentino possa diventare una figura di primo piano nella distensione tra oriente ed occidente, in un’epoca in cui tutto sembra dire il contrario. Basterebbe rileggere il libro di Miguel Asín Palacios, recentemente ripubblicato in Italia, Dante e l’islam (Milano, Luni Editore, 2015) per rendersi conto quanto Dante sia stato l’uomo in cui la circolazione di idee e di saperi non aveva frontiere. Lo stesso giorno, a distanza di qualche ora, nel teatro Adyar — che nel XIX secolo era il teatro dei teosofi — parecchie decine di sufi di Francia si sono dati appuntamento per celebrare il Mawlid, cioè la nascita del profeta dell’islam, Muhammad. Quest’anno l’evento è caduto negli stessi giorni della celebrazione della nascita di Gesù, e per questo i sufi hanno rinviato l’iniziativa a un momento più consono per tutti. La sala gremita di musulmani — poiché i sufi restano tali — di tutte le provenienze, riuniti per l’ascolto della musica spirituale delle diverse confraternite presenti. È stato un tripudio di musica sufi, della gioia di adorazione semplice e intensa nel Dio che venerano. Dall’India al Pakistan, dal Marocco all’isola Mauritius, le diverse confraternite si sono date il cambio in un crescendo che non si potrebbe definire se non mistico. Due momenti tra i tanti sono stati di un’intensità particolare: il gruppo diretto da Shuaib Mustaq Qawwali, che ha portato un entusiasmo tutto fraterno nel lodare la maestà divina e il gruppo Rouh Meknes diretto da Yassine Habibi, una delle migliori voci di tutto il Medio oriente. Alla serata erano presenti vari membri del gruppo interreligioso Artigiani di pace (Artisans de paix), i quali hanno testimoniato insieme ai sufi che è possibile superare le barriere che dividono oriente e occidente. Ripensando a queste due semplici e quasi invisibili iniziative, una volta di più, si può pensare che è nella discrezione che si sta creando una nuova e vera civiltà di pace. L L’Albania tra tradizione e tempo che non si ferma Il bene non viaggia mai da solo purtroppo oggi i terreni di zoteri (signore) Skenduli sono stati resi edificabili e la restituzione appare alquanto difficile. In piazza Topulli, la principale della città vecchia, una targa di bronzo ricorda i volti e i nomi di alcuni grandi di Argirocastro: oltre a Kadare, il linguista Eqrem Cabej, tra i fondatori dell’Accademia delle Scienze, e Musine Kokalari che però non ha il nome scritto come gli altri, retaggio di una vecchia mentalità dura a morire, dove la donna conta ancora molto poco. Due le grandi ferite aperte: le stragi del comunismo e una mentalità da clan che ancora sopravvive in alcuni villaggi sulla montagna dove si mette in pratica la legge del sangue come scritto nel Kanun, un antico codice che regola da secoli la vita sociale nelle zone più profonde dell’Albania, soprattutto nel nord. Monsignor Angelo Massafra, arcivescovo di Scutari e Pult, conosce bene questa realtà. Da anni è impegnato nella riconciliazione, pietra angolare del suo ministero episcopale, legata alla rinascita della Chiesa in Albania. «Riconciliazione con Dio, ma anche con gli uomini e con le donne e tra gli uomini e le donne», dice Massafra. Dopo la caduta del comunismo, agli inizi degli anni Novanta l’Albania si è ritrovata in un clima di totale anarchia, quando venne alla luce l’arretratezza economica che aveva lasciato il regime passato e l’isolamento dal resto dell’Europa. Non solo. Povertà e criminalità diffusa avevano creato una situazione esplosiva: tutti contro tutti. È da quegli anni che il vescovo con i suoi preti e con le religiose lavora accanto alla gente per riconciliare gli animi, convinto che la riconciliazione del popolo è sorretta da quella di Dio. Con il sorriso sulle labbra ci invita a visitare il santuario di Sant’Antonio di Padova a Lac, non lontano dalle miniere di Kurbin, luogo di martirio di sacerdoti e laici e oggi meta di pellegrinaggio per cattolici, musulmani e ortodossi. Come tutti i luoghi di culto, anche questo fu distrutto durante il comunismo e la chiesa con il convento francescano sono stati ricostruiti soltanto a fine anni Novanta. A Scutari ci fa visitare una vecchia proprietà dei frati francescani che nel 1946 fu sequestrata e trasformata in carcere dal regime. Qui vennero torturati religiosi, intellettuali, artisti e studiosi. Tra loro anche un’aspirante delle Stimmatine, Maria Tuci per la quale è stato avviato il processo di beatificazione. Oggi ospita un convento dove vivono 13 clarisse che custodiscono questo memoriale della persecuzione. Tra i progetti di monsignor Massafra anche quello di aprire presto un museo con gli oggetti liturgici, sacri e devozionali da lui recuperati, che erano stati nascosti dalle famiglie durante la dittatura. Un omaggio alla memoria è anche il lavoro di Agron Tufa, direttore dell’Istituto per gli Studi sui crimini e le conseguenze del comunismo di Tirana. L’Istituto, l’ultimo a nascere in ordine cronologico nell’est Europa grazie a uno stanziamento di fondi statali nel 2011, «è la prima istituzione che prova a fare chiarezza su quei 45 anni di terrore» ci dice Tufa. Ospitato nell’edificio che un tempo fu la residenza del luogotenente generale del Re d’Italia, Francesco Jacomoni di San Savino, vi lavorano 14 persone. Fra i progetti portati avanti, c’è anche l’Enciclopedia delle vittime della dittatura, opera in 15 volumi (di cui tre già pubblicati) che includono tutte le vittime, i perseguitati e gli imprigionati del comunismo albanese. Un lavoro enorme che passa dallo studio dei documenti dell’archivio di Stato — compreso quello segreto — alla raccolta diretta delle testimonianze dei sopravvissuti. «Andiamo a intervistarli uno a uno», ci spiega Tufa, docente di Teoria della traduzione alla Facoltà di giornalismo di Tirana. I loro racconti «sono spesso atroci». Una missione nella missione è poi quella di fare emergere le storie dei dispersi del primo decennio della dittatura, «fucilati di cui non si sa nulla e di cui non esiste traccia o censimento, nemmeno nei documenti riservati». Sabiha Kasimati, una delle figure femminili albanesi più prestigiose, è una di questi: arrestata il 20 febbraio 1951 fu condannata a morte senza processo sei giorni dopo. Un capitolo a sé riguarda invece i religiosi albanesi, cattolici e musulmani, perseguitati, torturati, umiliati o eliminati tra il 1945 e il 1967. Tra il 1967 e il 1975 fu quindi la volta della distruzione fisica di chiese e moschee o della loro trasformazione, fino ad arrivare al 1976, quando l’ateismo fu imposto per Costituzione. «Lo scorso anno, Papa Francesco ha incontrato a Tirana alcuni religiosi albanesi sopravvissuti alla violenza del regime che voleva sterminare chi credeva in Dio. Fino a ora lo Stato albanese non ha mai chiesto perdono nemmeno per quei martiri cattolici», dice Tufa. Artigianato a Berat Ma la strada è aperta. Oggi l’Albania vuole guardare avanti con fiducia e ci sarà il tempo per il perdono. Intanto si è verificato un fatto significativo: dopo la visita di Papa Francesco, un membro delle istituzioni ha deciso di farsi battezzare: ancora si commuove quando ricorda quel momento. A Tirana da poco è stato inaugurato il più grande mausoleo al mondo dei Bektashi, la confraternita sufi guidata Il Paese sta vivendo un momento particolare di riconciliazione con il suo passato e di costruzione del suo futuro oggi da Baba Mondi. I musulmani albanesi sono prevalentemente aderenti a questa corrente religiosa, che in agosto si riunisce in occasione del pellegrinaggio sul monte Tomorr sulla tomba del loro fondatore. Ma l’Albania è anche cultura greca, bizantina, romana e turca. Case basse, bianche con larghi finestroni e tetti rossi, incorniciate da tralci di vite e cespugli di rose profumate, sfilano lungo le strade strette e tortuose della cittadella del XIV secolo dove si vendono tessuti ricamati, tovaglie di lino, marmellate e miele della vicina montagna sacra di Tomorr. Qua e là, alcune chiese ortodosse e qualche moschea. È Berat la «città delle mille finestre», che conserva l’atmosfera delle città balcaniche d’influenza turca, con i suoi svettanti minareti. Custodisce preziose icone in stile bizantino realizzate nel XVI secolo dal maestro Onufri (il più importante pittore di icone albanese) esposte all’interno del museo a lui dedicato, nella Chiesa della Dormizione di Santa Maria (realizzata nel 1797 sulle rovine di una chiesa del X secolo). Delle 42 chiese bizantine che esistevano all’interno delle mura della cittadella (o Kala, dall’arabo), oggi ne rimangono otto. Lasciando l’interno del Paese e proseguendo verso sud si arriva al parco archeologico di Butrinto, passando per Saranda. Butrinto testimonia il passaggio di greci, romani, bizantini, turchi e veneziani. Edifici ellenistici del IV secolo prima dell’era cristiana si alternano a resti di templi, fontane, bagni e monumenti funebri di epoca romana e chiese di epoca bizantina, come testimonia il battistero del VI secolo scoperto nel 1928 dalla missione archeologica italiana guidata da Luigi Maria Ugolini, che rappresenta per grandezza il secondo battistero nell’impero romano d’Oriente dopo quello di Aghia Sophia a Istanbul. Può sembrare strano ma chi scrive ha sperimentato l’Albania come «quei rari luoghi, come Atene, Roma o Isfahan in cui l’umanità trova comune sollievo» — citando il grande poeta inglese Robert Byron — seppure o forse a causa di tanto dolore passato. Bowie mai banale Cinque decenni di musica rock attraversati con un rigore artistico che può sembrare in contraddizione con l’immagine ambigua utilizzata, soprattutto a inizio carriera, per attirare l’attenzione dei media. Si potrebbe anzi affermare che, aldilà degli eccessi apparenti, l’eredità di David Bowie, morto il 10 gennaio a 69 anni, è racchiusa proprio in una sorta di personalissima sobrietà, espressa finanche nel fisico asciutto, quasi filiforme. Una personalità musicale, quindi, mai banale, via via costruita grazie alle frequenti incursioni in altre forme artistiche — prima tra tutte la pittura, ma anche cinema e teatro — e grazie all’apertura a innumerevoli suggestioni. Partito dal beat inglese della metà degli anni Sessanta, Bowie, nei suoi venticinque dischi (l’ultimo dei quali, Blackstar, pubblicato solo alcuni giorni fa) ha spaziato dal soul al R&B, dal folk al glam rock. Realizzando anche alcune vere perle, come Heroes, un semplice inno rock dedicato ai ragazzi della Berlino ancora separata dal muro. E riuscendo a suscitare un consenso crescente nel corso degli anni. In un’intervista alla Bbc, anche il primate anglicano, Justin Welby, ha oggi ricordato come la musica di Bowie abbia costituito una sorta di colonna sonora personale. L’OSSERVATORE ROMANO lunedì-martedì 11-12 gennaio 2016 pagina 7 Sono oltre tre milioni secondo uno studio del Pew Research Center Negli Stati Uniti sempre più musulmani NEW YORK, 11. Oggi negli Stati Uniti risiedono circa 3.300.000 musulmani, pari a circa l’1 per cento della popolazione, ma il numero raddoppierà entro il 2050: lo sostiene il Pew Research Center, che ha aggiornato le sue stime del 2011, quando a vivere nel Paese erano 2.750.000 musulmani. Più della metà della crescita della popolazione di fede islamica tra il 2010 e il 2015 è dovuta agli immigrati, che attualmente rappresentano il 10 per cento di tutte le persone che arrivano legalmente negli Stati Uniti. Rispetto alla media, i musulmani tendono inoltre ad avere più figli, e questo rappresenta un ulteriore fattore di incremento numerico della comunità. Per definire la distribuzione geografica delle comunità musulmane negli Stati Uniti ci si deve riferire innanzitutto alla localizzazione delle Lutti nell’episcopato Monsignor Raymond William Lessard, vescovo emerito di Savannah, è morto domenica 3 gennaio negli Stati Uniti d’America, all’età di 85 anni. Il compianto presule era infatti nato il 21 dicembre 1930 a Grafton, in diocesi di Fargo, ed era stato ordinato sacerdote il 16 dicembre 1956. Eletto alla sede residenziale di Savannah il 5 marzo 1973, aveva ricevuto l’ordinazione episcopale il successivo 27 aprile. Aveva rinunciato al governo pastorale della diocesi georgiana il 7 febbraio 1995. Le esequie si celebrano martedì 12 gennaio nella cattedrale di Saint John Baptist a Savannah. Monsignor Carlos Milcíades Villalba Aquino, vescovo emerito di San Juan Bautista de las Misiones, è morto in Paraguay venerdì notte, 8 gennaio, nella clinica di Asunción in cui era ricoverato da due mesi. Il compianto presule era nato il 22 agosto 1924 in San Pedro de Ycuamandyjú, diocesi di San Pedro, ed era stato ordinato sacerdote il 28 novembre 1948. Eletto alla Chiesa residenziale di San Juan Bautista de las Misiones il 25 luglio 1978, aveva ricevuto l’ordinazione episcopale il successivo 3 settembre. Aveva rinunciato al governo pastorale della diocesi il 22 luglio 1999. moschee, che non è affatto omogenea. Le zone costiere, il sud della California, le regioni urbane del Midwest, le aree metropolitane del Texas, alcune città del sud e le città del nord-est da Washington (District of Columbia) a New York, sono le aree con la più alta densità di moschee e di conseguenza di musulmani. L’81 per cento degli islamici americani adulti hanno la cittadinanza e di questi il 37 per cento l’hanno acquisita alla nascita, il resto sono naturalizzati. Il 20 per cento dei musulmani sono convertiti e di essi il 46 per cento sono nativi americani. «I recenti dibattiti politici sull’immigrazione dei musulmani — scrive Basheer Mohamed, ricercatore del Pew Research Center — hanno spinto diversi osservatori a chiedersi in che modo molti di loro vivono negli Stati Uniti. Dare una risposta però non è facile, in parte anche perché l’US Census Bureau non pone domande sulla religione, il che significa che non vi è alcun conteggio governativo della popolazione musulmana negli Stati Uniti d’America». Basandosi ancora sul numero di moschee sul territorio, si può affermare che la maggioranza dei musulmani statunitensi è sunnita. Gran parte delle moschee sunnite (37 per cento) si trova nella parte occidentale del Paese mentre la percentuale maggiore (31) di quelle sciite è situata nel sud. Fra i nativi convertiti, i sunniti sono per lo più afroamericani, mentre gli sciiti sono in gran parte di razza caucasica. Non solo negli Stati Uniti ma anche nel resto del pianeta — si sottolinea nel rapporto del Pew Research Center — il numero dei fedeli islamici sta facendo registrare un aumento costante. Marcia interreligiosa a Jakarta Tolleranza e coesistenza JAKARTA, 11. Combattere l’estremismo religioso e il terrorismo e promuovere il pluralismo come vero fondamento della società indonesiana: sono i motivi che hanno spinto Nahdlatul Ulama (Nu), il più grande movimento islamico sunnita del Paese, a organizzare per domenica prossima, 17 gennaio, una manifestazione interreligiosa a Jakarta. All’iniziativa hanno aderito tredici organizzazioni musulmane, insieme alla Conferenza episcopale indonesiana, alle comunità protestanti e all’Alto consiglio confuciano della nazione asiatica. Almeno diecimila persone — riferisce AsiaNews — si riverseranno a Lapangan Banteng, piazza storica della capitale, dove si affacciano la cattedrale cattolica e la grande moschea. «Parteciperemo di sicuro alla manifestazione. Con questo raduno di massa — ha spiegato padre Guido Suprapto, segretario generale della commissione episcopale per l’apostolato dei laici — vogliamo portare il messaggio che la diversità deve essere la forza della nazione. Dobbiamo mostrare che la coesistenza pacifica è possibile». Al riguardo, l’arcidiocesi di Jakarta ha fatto stampare un gran numero di volantini da distribuire a tutta la comunità cristiana. «A noi — ha affermato Marsyudi Syuhud, presidente di Nahdlatul Ulama e uno degli ideatori dell’iniziativa — hanno insegnato queste due parole: tasanuf, che significa tol- Il presidente dei vescovi ai nuovi deputati Con il Venezuela sulle spalle CARACAS, 11. L’auspicio di un’amnistia per prigionieri politici ed esuli, l’insediamento della nuova assemblea legislativa (con maggioranza all’opposizione) vista come «vittoria del popolo», ma anche una panoramica sulla Chiesa universale e sui principali punti di forza che contribuiscono alla vita della comunità cattolica locale: dal sinodo sulla famiglia al giubileo della misericordia, dall’enciclica Laudato si’ alla visita di Papa Francesco alla Chiesa d’America. Sono questi i punti più significativi affrontati dall’arcivescovo di Cumaná, Diego Rafael Padrón Sánchez, presidente della Conferenza episcopale venezuelana, nel discorso di apertura dell’assemblea plenaria in corso a Caracas. Il presule si è soffermato sui risultati delle elezioni parlamentari del 6 dicembre, che sono state vinte dalla Mesa de la Unidad Democrática. Per monsignor Padrón Sánchez, «la giornata elettorale svoltasi nella tranquillità e la presa di possesso dei seggi da parte dei deputati eletti sono una ratifica della coscienza civilista e democratica dei venezuelani». È un punto di partenza «per il rinnovo e la riorganizzazione dello Stato, la revisione delle politiche nazionali e della politica internazionale, i loro accordi e trattative. Ma, soprattutto, è una vittoria della volontà popolare che richiede un reale cambiamento in materia di libertà, giustizia, diritti umani, salute, sicurezza, economia e tanto altro. Ci vorranno misure — ha sottolineato — che contribuiscano alla distensione e alla riconciliazione nazionale, come sarebbe l’amnistia per i prigionieri politici e il ritorno degli esuli, leggi che correggano le politiche economiche e puniscano la corruzione». Padrón Sánchez ha parlato alla presenza del nunzio apostolico in Venezuela, arcivescovo Aldo Giordano, e del nuovo presidente dell’Assemblea nazionale, Henry Ramos Allup. Compiuta questa tappa della storia politica venezuelana, con il concorso di tutti «il Paese deve indirizzarsi verso la depolarizzazione, il dialogo trasparente ed efficace fra il potere esecutivo e legislativo, fra il Governo e l’opposizione e fra tutti i venezuelani, e verso la ripresa economica e la riconciliazione nazionale». Ma affinché il dialogo sia efficace «è necessario risolvere le cose reali», mettendo da parte promesse e ideologie. Il presule ha concluso il suo intervento citando una famosa frase dell’allora cardinale arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio, che, rivolgendosi ai deputati, li invitava a ponerse la patria al hombro, ovvero mettersi la patria sulle spalle, con accresciute responsabilità davanti ai cittadini e davanti a Dio. leranza, e tawasuft, che si riferisce all’essere persone moderate. Questi due termini rappresentano lo spirito di base dell’essere un buon musulmano nella società». Il Nu, continua il leader islamico, «è chiamato in causa da un punto di vista morale per difendere il fondamento filosofico e politico della nazione. Il movimento ha come bandiera il concetto di “islam nusantara” (islam dell’arcipelago), che significa promuovere una maggioranza musulmana indonesiana che abbia idee moderate e abbracci la tolleranza religiosa. Il nostro messaggio è chiaro: unire in fratellanza tutte le fazioni della nazione». Marsyudi Syuhud non ha dubbi nell’affermare che «bisogna combattere la percezione che l’islam non sia una religione pacifica perché ora vediamo sciiti e sunniti attaccarsi fra Armonia tra le fedi a Kuala Lumpur KUALA LUMPUR, 11. «Un incontro storico senza precedenti»: è stato definito così dall’arcivescovo di Kuala Lumpur, Julian Leow Beng Kim, il colloquio avuto nei giorni scorsi con il gran mufti Zulkifli Mohamad al-Bakri. «È stata una bella iniziativa. Un’idea del tutto nuova — ha dichiarato il presule — poiché è la prima volta che un leader religioso viene a farmi visita nel mio ufficio». Secondo il sito d’informazione malaysiano «The Star Online», i due responsabili religiosi hanno discusso su vari temi, in particolare approfondito i concetti di società diversa e plurale, di rispetto reciproco e di tolleranza fra tutte le religioni. «Abbiamo esaminato — ha precisato il gran mufti — ciò che abbiamo in comune e non le nostre differenze. Abbiamo condiviso le nostre opinioni sull’importanza di essere tolleranti verso la religione dell’altro». Zulkifli Mohamad al-Bakri ha ricevuto da monsignor Leow Beng Kim l’invito a visitare la chiesa, cosa che presto prenderà in considerazione: «Se Dio vuole, lo farò». Il leader musulmano ha anche voluto ringraziare il Global Unity Network, ong che ha organizzato lo storico incontro tra i due responsabili religiosi. Mohamad al-Bakri si è detto grato per lo sforzo congiunto profuso dal suo ufficio, dalla ong e dall’arcivescovo di Kuala Lumpur, per l’impegno a costruire la comprensione e l’armonia religiosa, in particolare fra islam e cristianesimo: «Sono grato al presule per questa visita di cortesia, ma vorrei anche ringraziare Shah Kirit, del Global Unity Network, per il nobile sforzo. Possa Dio benedirci tutti». loro. E questo viene ancor prima del discorso sui nostri rapporti con altre religioni come l’induismo e il buddismo». Secondo il presidente, il Nu vuole contrastare ogni possibile infiltrazione del cosiddetto Stato islamico in Indonesia: «Il pericolo è chiaro e presente. Abbiamo visto che alcuni hanno avuto il coraggio di appendere bandiere dell’Is per le strade. Ci sono persone che vanno a combattere in Siria e poi tornano, e il Governo non fa nulla per contrastare tutto questo. La gente è convinta che questo tipo di primavera araba potrebbe arrivare presto anche in Indonesia». Secondo l’agenzia per l’antiterrorismo indonesiana, sono centocinquanta i cittadini tornati dalla Siria. Altre fonti governative affermano che ottocento persone sono partite dall’Indonesia per unirsi all’Is, 284 delle quali sono state identificate. Almeno cinquantadue sarebbero morte. Intanto «Hidup» (che significa “vita”), primo settimanale cattolico del Paese, fondato il 5 gennaio 1946 da un gesuita olandese missionario a Jakarta, ha compiuto settant’anni e la comunità cristiana ha festeggiato l’evento con una messa nella cattedrale celebrata dall’arcivescovo Ignatius Suharyo Hardjoatmodjo. «Hidup», ancora oggi vero e proprio punto di riferimento dell’informazione cattolica nel Paese, tratta della vita della Chiesa in Indonesia e negli ultimi tempi si è arricchito degli interventi di molti vescovi che offrono il loro contributo scrivendo articoli su diversi temi, soprattutto sulle prospettive di meditazione biblica a partire dalle letture settimanali. † Con vivissimo dolore, la Segreteria di Stato comunica che è improvvisamente deceduto Mons. STEPHAN STO CKER Officiale della Segreteria di Stato in servizio presso la Sezione Rapporti con gli Stati I Superiori ed i Colleghi partecipano al dolore dei Familiari, assicurando loro vicinanza spirituale e ricordo nella preghiera. † Il Comandante e i componenti tutti del Corpo della Guardia Svizzera Pontificia esprimono le più sentite condoglianze per la dipartita di Monsignor STEPHAN STO CKER e si uniscono ai familiari nella preghiera e nella speranza della risurrezione. Città del Vaticano, 11 gennaio 2016 L’OSSERVATORE ROMANO pagina 8 lunedì-martedì 11-12 gennaio 2016 Fratel Eric «La colomba dello Spirito Santo» (chiesa della Riconciliazione, Taizé) Francesco battezza ventisei neonati L’eredità più grande La fede è «l’eredità più grande» che i figli ricevono dai genitori: lo ha detto Papa Francesco all’omelia della messa celebrata domenica 10 gennaio nella cappella Sistina, dove ha battezzato ventisei neonati. Quaranta giorni dopo la nascita, Gesù è portato al Tempio. Maria e Giuseppe lo portarono per presentarlo a Dio. Oggi, nella festa del Nella cappella Sistina I vagiti dei tredici bambini e delle tredici bambine battezzati da Francesco hanno fatto da originale “colonna sonora” alla messa celebrata nella cappella Sistina. Armati di biberon e ciucciotti, i genitori — che lavorano in dicasteri, uffici e organismi vaticani — hanno avuto il loro bel daffare per tenere buoni i piccoli, ai quali il Papa ha amministrato il sacramento dell’iniziazione cristiana proprio nella festa liturgica del Battesimo del Signore. Damiano Maria Acquaroni, Ginevra Francesca Maria Bellaveglia, Andrea Lucio Agostino Belisari, Matteo Bernardi, Thomas Biagetti, Gabriele Bondatti, Marlene Pola Caldiero, Rocco Cantore, Greta Cataldo, Arianna Francesca Censoni, Ginevra Maria Corradini, Anna Cordeschi, Edoardo De Leo, Emanuele Della Monaca, Lara Gigli, Aurelio Samuel Ianniello, Sofia Maria Guadalupe Lorenzo, Pier Giorgio Massimilla, Arvid Jan Pavel Panchanka, Francesco Biagio Rinaldi, Vittoria Severin, Irene Maria Sonni, Chiara Tucci, Valentina Venanzi, Claudia Sonia Venia e Leonardo Alberto Francesco Zamponi — questi i nomi dei neonati — erano accompagnati da padrini e madrine e da un piccolo gruppo di parenti che hanno partecipato alla liturgia. Con Francesco, che ha presieduto la messa all’antico altare, hanno concelebrato gli arcivescovi Gänswein, prefetto della Casa Pontificia, Krajewski, elemosiniere, e Gloder, presidente della Pontificia Accademia Ecclesiastica, e il vescovo Vérgez Alzaga, segretario generale del Governatorato. Diretto da monsignor Marini, maestro delle Celebrazioni liturgiche pontificie, il rito è stato animato dai canti della cappella Sistina guidata da monsignor Palombella. Insieme all’attestato del battesimo, al termine è stato consegnato ai genitori un bassorilievo ovale dorato raffigurante la Vergine e il Bambino, dono del Pontefice. Battesimo del Signore, voi genitori portate i vostri figli a ricevere il Battesimo, a ricevere quello che avete chiesto all’inizio, quando io vi ho fatto la prima domanda: “La fede. Io voglio per mio figlio la fede”. E così la fede viene trasmessa da una generazione all’altra, come una catena, nel corso dei tempi. Questi bambini, queste bambine, passati gli anni, occuperanno il vostro posto con un altro figlio — i vostri nipotini — e chiederanno lo stesso: la fede. La fede che il Battesimo ci dà. La fede che lo Spirito Santo oggi porta nel cuore, nell’anima, nella vita di questi vostri figli. Voi avete chiesto la fede. La Chiesa, quando vi consegnerà la candela accesa, vi dirà di custodire la fede in questi bambini. E, alla fine, non dimenticatevi che la più grande eredità che voi potrete dare ai vostri bambini è la fede. Abbiate cura che non venga persa, di farla crescere e lasciarla come eredità. Vi auguro questo oggi, in questo giorno gioioso per voi: vi auguro che siate capaci di far crescere questi bambini nella fede e che la più grande eredità che loro riceveranno da voi sia proprio la fede. E un avviso soltanto: quando un bambino piange perché ha fame, alle mamme dico: se il tuo bambino ha fame, dagli da mangiare qui, con tutta libertà. All’Angelus il Pontefice invita i fedeli a ricordare la data del loro battesimo Compito a casa Il giorno del battesimo «è la data della nostra rinascita come figli di Dio». Per questo il Papa ha invitato i fedeli riuniti in piazza San Pietro per l’Angelus di domenica 10 gennaio a festeggiare quel giorno per «riaffermare la nostra adesione a Gesù, con l’impegno di vivere da cristiani». Cari fratelli e sorelle, buongiorno! In questa domenica dopo l’Epifania celebriamo il Battesimo di Gesù, e facciamo memoria grata del nostro Battesimo. In tale contesto, stamattina ho battezzato 26 neonati: preghiamo per loro! Il Vangelo ci presenta Gesù, nelle acque del fiume Giordano, al centro di una meravigliosa rivelazione divi- Raccolti i discorsi di Paolo VI na. Scrive san Luca: «Mentre Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese su di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il ai gesuiti Montini, Arrupe e il giovane Bergoglio Pagine autografe, correzioni dell’ultimo minuto, note a margine: i discorsi rivolti da Paolo VI alla Compagnia di Gesù, a partire dall’omelia pronunciata il 15 novembre 1966, sono stati pubblicati nella loro veste integrale nel libro «Paolo VI e i gesuiti» (Roma, Viverein, 2015, pagine 83). Scritto dal reggente della prefettura della Casa pontificia — autore dell’introduzione, di cui riproduciamo uno stralcio — il volume attraverso i documenti ricostruisce lo stretto legame tra Montini e il preposito generale Pedro Arrupe e la di LEONARD O SAPIENZA Il 3 dicembre 1974 Paolo VI riceve in udienza i 237 Partecipanti alla Congregazione Generale provenienti da tutto il mondo. Quindici cartelle dattiloscritte contengono la lunga allocuzione in latino, che dura esattamente un’ora e nove minuti! L’intero discorso è dominato visibilmente da una preoccupazione di fondo, che è la stessa manifestata dalla maggioranza dei Gesuiti: «la preoccupazione di un sano, equilibrato, giusto aggiornamento nella fedeltà sostanziale alla fisionomia specifica della Compagnia». A proposito di questo discorso, un testimone dell’epoca racconta: «... ricordo quel discorso... Ricordo anche quanto Paolo VI era rattristato e preoccupato per la linea che la Compagnia di Gesù aveva preso non per iniziativa di Padre Arrupe, ma che Padre Arrupe di fatto permetteva. Paolo VI teneva molto a quel discorso. Non lo scrisse però lui. Chiese un progetto a Padre Paolo Dezza (che era anche il suo confessore) e al quale a voce aveva espresso qualche idea che desiderava dire. grande attenzione posta dal Pontefice alla vita e alle trasformazioni della Societas Iesu. Arricchiscono l’opera la lettera autografa scritta il 27 settembre 1978 da Giovanni Paolo I ad Arrupe e il testo del discorso previsto ai procuratori gesuiti per l’udienza che non si tenne a causa dell’improvvisa morte di Luciani. All’inizio del libro anche un autografo di Papa Francesco nel quale si legge: «Dobbiamo essere grati a Paolo VI che ha amato tanto, fatto tanto, pregato tanto, sofferto tanto per la Compagnia di Gesù». Paolo VI accolse tutta la sostanza del progetto di discorso scritto da Padre Dezza: il contenuto corrispondeva perfettamente al pensiero del Papa. Paolo VI vi fece soltanto alcuni ritocchi di stile. Anche se non fu scritto di suo pugno, è un discorso di cui Paolo VI condivideva ogni parola. Certamente lo avrà anche pronunciato con passione, perché si trattava di un problema che gli stava a cuore. Chi ha ascoltato dalla voce del Papa tale discorso avrà avuto l’impressione che si trattava di cose personalmente molto sentite. Ed era la verità». Tra gli ascoltatori vi era anche un giovane Padre Jorge Bergoglio, che a soli 36 anni, il 31 luglio di quell’anno, era stato nominato Superiore provinciale. Divenuto Papa con il nome di Francesco, così ricorda la sua esperienza: «...In quella situazione il Padre Carlo Maria Martini fu un uomo di dialogo, di mediazione, e fece da ponte tra la Compagnia e il Papa. Paolo VI, quando ci ricevette in udienza, fece un discorso memorabile, un capolavoro... Mentre noi eravamo preoccupati delle dispute interne, lui ci spalancò gli orizzonti della nostra missione...». In effetti, come ricorda un testimone dei fatti, «...quella Congregazione Generale della Compagnia di Gesù fin dal primo giorno designò Padre Carlo Maria Martini di tenere ufficialmente informata la Santa Sede circa lo svolgimento dei lavori...». Padre Martini si recava regolarmente dal Sostituto Mons. Benelli, e questi poi informava il Papa. Alla fine della Congregazione Generale, Padre Arrupe poteva affermare: «Possiamo dire che la Compagnia esce da questa Congregazione Generale più conscia dei suoi limiti e delle necessità del mondo e della Chiesa, infiammata dal desiderio di unità, più obbediente, più sacerdotale, con una visione più reale dell’apostolato; infine, più disposta ad ascoltare la voce di Cristo e a obbedire, sia che essa provenga direttamente da lui, sia che si manifesti attraverso l’obbedienza, sia che venga comunicata indirettamente, cioè attraverso la famiglia umana che soffre afflizioni e aspetta la salvezza e la liberazione, che non potrà trovare se non in Cristo». mio compiacimento”» (Lc 3, 21-22). In questo modo Gesù viene consacrato e manifestato dal Padre come il Messia salvatore e liberatore. In questo evento — attestato da tutti e quattro i Vangeli — è avvenuto il passaggio dal battesimo di Giovanni Battista, basato sul simbolo dell’acqua, al Battesimo di Gesù «in Spirito Santo e fuoco» (Lc 3, 16). Lo Spirito Santo infatti nel Battesimo cristiano è l’artefice principale: è Colui che brucia e distrugge il peccato originale, restituendo al battezzato la bellezza della grazia divina; è Colui che ci libera dal dominio delle tenebre, cioè del peccato, e ci trasferisce nel regno della luce, cioè dell’amore, della verità e della pace: questo è il regno della luce. Pensiamo a quale dignità ci eleva il Battesimo! «Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!» (1 Gv 3, 1), esclama l’apostolo Giovanni. Tale realtà stupenda di essere figli di Dio comporta la responsabilità di seguire Gesù, il Servo obbediente, e riprodurre in noi stessi i suoi lineamenti: cioè mansuetudine, umiltà, tenerezza. E questo non è facile, specialmente se intorno a noi c’è tanta intolleranza, superbia, durezza. Ma con la forza che ci viene dallo Spirito Santo è possibile! Lo Spirito Santo, ricevuto per la prima volta nel giorno del nostro Battesimo, ci apre il cuore alla Verità, a tutta la Verità. Lo Spirito spin- ge la nostra vita sul sentiero impegnativo ma gioioso della carità e della solidarietà verso i nostri fratelli. Lo Spirito ci dona la tenerezza del perdono divino e ci pervade con la forza invincibile della misericordia del Padre. Non dimentichiamo che lo Spirito Santo è una presenza viva e vivificante in chi lo accoglie, prega in noi e ci riempie di gioia spirituale. Oggi, festa del Battesimo di Gesù, pensiamo al giorno del nostro Battesimo. Tutti noi siamo stati battezzati, ringraziamo per questo dono. E vi faccio una domanda: chi di voi conosce la data del suo Battesimo? Sicuramente non tutti. Perciò vi invito ad andare a cercare la data, chiedendo per esempio ai vostri genitori, ai vostri nonni, ai vostri padrini, o andando in parrocchia. È molto importante conoscerla, perché è una data da festeggiare: è la data della nostra rinascita come figli di Dio. Per questo, compito a casa per questa settimana: andare a cercare la data del mio Battesimo. Festeggiare quel giorno significa riaffermare la nostra adesione a Gesù, con l’impegno di vivere da cristiani, membri della Chiesa e di una umanità nuova, in cui tutti sono fratelli. La Vergine Maria, prima discepola del suo Figlio Gesù, ci aiuti a vivere con gioia e fervore apostolico il nostro Battesimo, accogliendo ogni giorno il dono dello Spirito Santo, che ci fa figli di Dio. Al termine della preghiera mariana il Pontefice ha salutato i gruppi presenti, assicurando una speciale benedizione ai bambini battezzati di recente e a quelli che «hanno ricevuto da poco i Sacramenti dell’iniziazione cristiana o che ad essi si stanno preparando». Cari fratelli e sorelle, saluto tutti voi, fedeli di Roma e pellegrini venuti dall’Italia e da diversi Paesi. Saluto in particolare gli studenti dell’Istituto Bachiller Diego Sánchez de Talavera La Real, Spagna; il coro degli Alpini di Martinengo con i familiari; il gruppo adolescenti di San Bernardo in Lodi. Come dicevo, in questa festa del Battesimo di Gesù, secondo la tradizione ho battezzato numerosi bambini. Ora vorrei far giungere una speciale benedizione a tutti i bambini che sono stati battezzati recentemente, ma anche ai giovani e agli adulti che hanno ricevuto da poco i Sacramenti dell’iniziazione cristiana o che ad essi si stanno preparando. La grazia di Cristo li accompagni sempre! E a tutti auguro una buona domenica. Non dimenticatevi il compito a casa: cercare la data del mio Battesimo. E per favore, non dimenticatevi anche di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci! Nei mesi di gennaio e di febbraio Calendario delle celebrazioni presiedute dal Papa Gennaio 25 LUNEDÌ SOLENNITÀ DELLA CONVERSIONE DI SAN PAOLO Basilica di San Paolo fuori le Mura, ore 17.30, celebrazione dei Vespri 10 MERCOLEDÌ DELLE CENERI Basilica vaticana, ore 17, Santa Messa, benedizione e imposizione delle Ceneri, invio dei missionari della Misericordia 12 VENERDÌ - 18 GIOVEDÌ Viaggio apostolico in Messico Febbraio 2 MARTEDÌ FESTA PRESENTAZIONE DEL SIGNORE XX GIORNATA MONDIALE DELLA VITA CONSACRATA Basilica vaticana, ore 17.30, Santa Messa, giubileo della Vita consacrata e chiusura dell’Anno della Vita consacrata DELLA SOLENNITÀ 22 LUNEDÌ CATTEDRA DELLA DI SAN PIETRO Basilica vaticana, ore 10.30, Santa Messa, giubileo della Curia romana Città del Vaticano, 11 gennaio 2016 Mons. GUID O MARINI Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie
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