L'OSSERVATORE ROMANO

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L’OSSERVATORE ROMANO
POLITICO RELIGIOSO
GIORNALE QUOTIDIANO
Non praevalebunt
Unicuique suum
Anno CLV n. 6 (46.844)
Città del Vaticano
sabato 10 gennaio 2015
.
Barricati con ostaggi i jihadisti ricercati
Ban Ki-moon sollecita dialogo e tolleranza
Francia nell’incubo
Risposte di sicurezza
e civiltà
alla sfida del terrorismo
Appello di Hollande all’unità della Nazione
PARIGI, 9. La Francia, colpita
dall’eccidio di mercoledì nella sede
parigina del giornale satirico «Charlie Hebdo», resta immersa in queste
ore nell’incubo del terrorismo e vive
con apprensione e timore gli sviluppi che vedono diverse persone in
ostaggio di terroristi jihadisti.
I due fratelli francesi d’origine algerina, Said e Cherif Kouachi, autori dell’attacco a «Charlie Hebdo», si
sono asserragliati questa mattina in
una tipografia di Dammartin-enGoële, nel dipartimento di Seine-etMarne, dopo una fuga di due giorni
braccati dalla polizia. I due hanno
sicuramente in ostaggio il titolare
della tipografia, il ventisettenne Michel Catalano, e secondo diverse
fonti almeno altre quattro persone.
La polizia, che sta conducendo una
trattativa con i due, ha isolato la zona e provveduto a mettere in salvo
gli studenti delle scuole della città.
Dopo una sparatoria che ha provocato vittime, si è barricato con
ostaggi — sembra quattro donne e
un bambino ebrei — in un negozio
di cibo kasher di Parigi anche l’uomo identificato come autore della
sparatoria di ieri a Montrouge, alla
periferia della città, nella quale è stata uccisa una poliziotta. Secondo
fonti degli inquirenti l’uomo farebbe
parte dello stesso gruppo jihadista,
organizzato a Parigi per inviare combattenti in Iraq, al quale risulta appartenere Cherif Kouachi, il più giovane dei due fratelli.
Il presidente, François Hollande,
ha rivolto oggi un nuovo messaggio
alla Nazione, con un appello all’unità. «La Francia vive una prova importante. Dobbiamo essere tutti
pronti a lavorare per la nostra
Repubblica», ha detto Hollande in
un discorso trasmesso per televisione
dalla sede del ministero dell’Interno,
che ha raggiunto a piedi dall’Eliseo
in quello che molti leggono come un
gesto di rassicurazione per la
cittadinanza. Hollande, pur ricordando come la strage nella sede di
y(7HA3J1*QSSKKM( +,!z!#!=!"!
Due giornalisti
assassinati in Libia
da miliziani dell’Is
TUNISI, 9. Un gruppo libico affiliato
al cosiddetto Stato islamico ha rivendicato ieri l’uccisione di due
giornalisti tunisini, scomparsi lo
scorso settembre in Libia, nei pressi
della frontiera con la Tunisia, mentre
erano impegnati in un reportage sugli sviluppi del conflitto. In una dichiarazione, pubblicata su un sito
jihadista che mostra le immagini di
Sofiene Chourabi e Madhir Ktari, i
miliziani affermano che l’esecuzione
dei due giornalisti è stata compiuta
a Barqah, a sud di Bengasi.
Nel frattempo, le autorità della regione autonoma del Kurdistan iracheno hanno lanciato l’allarme per
quella che hanno definito la «situazione catastrofica» di centinaia di
migliaia di profughi fuggiti davanti
all’avanzata del cosiddetto Stato islamico nel nord dell’Iraq, che si trovano esposti a una ondata di maltempo che sta colpendo tutto il Medio
oriente. La neve sta cadendo abbondante nelle province curde di Sulaimaniya, Erbil e Duhuk, dove molti
profughi, tra i quali appartenenti alle minoranze cristiana e degli yazidi,
sono ospitati in ricoveri di fortuna.
«Siamo di fronte a una situazione
catastrofica, perché ci sono migliaia
di persone ospitate in edifici non finiti e che mancano di tutti i servizi
essenziali, o all’aperto, esposti al
freddo, alla pioggia e ora anche alla
neve», ha detto Dindar Zibari, un
alto responsabile del Governo regionale curdo. Nei giorni scorsi anche
le maggiori agenzie dell’Onu hanno
lanciato un allarme anche per le
condizioni dei circa 3 milioni di rifugiati siriani a causa del maltempo.
Agenti in azione a Parigi (Reuters)
«Charlie Hebdo» sia stata un dramma, ha infatti aggiunto che i cittadini «devono essere certi di essere
protetti».
Il presidente ha anche insistito
sulla necessità di tenere «manifestazioni rispettose» domenica, quando
sono previste cerimonie di omaggio
alle vittime dell’attentato di mercoledì. Nel frattempo, però, si registrano
nuovi episodi di violenza o di offesa
in luoghi di culto musulmani. Nella
notte una moschea è stata incendiata
a Aix-les-Bains, a un centinaio di
chilometri da Lione. Oggi sono state
trovate una testa e viscere di maiale
sulla porta di una sala di preghiera
musulmana a Corte, in Corsica. Anche a Lievin, nel cantiere di una moschea in costruzione, è stata rinvenuta una testa di maiale. Già dopo
l’eccidio nella sede di «Charlie Hebdo» erano stati profanati alcuni luoghi di culto islamici.
NEW YORK, 9. Le notizie sulle spaventose dimensioni dell’ultima strage perpetrata da Boko Haram in
Nigeria e l’emozione suscitata in
tutto il mondo dall’eccidio di mercoledì a Parigi e da quanto sta accadendo in queste ore, ma anche le
barbare uccisioni in Iraq, in Siria,
fino all’ultima dei due giornalisti
tunisini in Libia, confermano
un’accentuazione della violenza terroristica che interpella l’intera comunità internazionale. Accanto alle
doverose misure di sicurezza da
adottare per proteggere le popolazioni inermi dalla ferocia di gruppi
e individui che dichiarano di agire
in nome dell’islam — e che massacrano soprattutto musulmani — si
fa pressante l’esigenza di scongiurare reazioni che avallino una deriva verso l’idea di una guerra di religione o di civiltà.
Di questo pericolo è cosciente il
Segretario generale delle Nazioni
Unite, Ban Ki-moon, che ieri, nella
prima riunione dell’anno dell’Assemblea generale, ha lanciato un
nuovo appello alla tolleranza e al
dialogo, come unico strumento per
costruire una condizione internazionale di giustizia e di solidarietà
in cui non trovi alimento e alibi la
ferocia terroristica. «In troppi posti
abbiamo visto atti di terrorismo,
estremismo, e di enorme brutalità»,
Si temono duemila morti in un attacco a Baga
Spaventoso massacro di Boko Haram
ABUJA, 9. Notizie riferite da diverse
fonti, anche se al momento impossibili da verificare, parlano di duemila persone uccise dai terroristi di
Boko Haram nell’attacco sferrato
questa settimana a Baga e a numerosi villaggi del suo circondario,
sulla sponda nigeriana del lago
Ciad, nello Stato nordorientale del
Borno. Di certo, seppure i morti
non dovessero raggiungere questa
spaventosa cifra, si è si è trattato
del più spaventoso massacro perpetrato dal gruppo di matrice fondamentalista islamica, che pure è responsabile da cinque anni a questa
parte dell’uccisione di migliaia di
persone in attacchi armati e attentati terroristici.
Un’implicita conferma della determinata ferocia messa in atto
nell’attacco a Baga viene dalle notizie, queste accertate, sul numero di
abitanti della zona fuggiti in Ciad.
L’alto commissariato dell’Onu per i
rifugiati (Unhcr) ha riferito che negli ultimi giorni sono arrivate 7.300
persone. Proprio dai loro racconti
emerge che nella zona attaccata
non è rimasto nessuno. La sola Ba-
ga aveva circa diecimila abitanti,
senza considerare quelli dei villaggi
attaccati, abitati per lo più da famiglie di pescatori. Secondo fonti locali citate dalla Bbc, alcune centinaia di persone avrebbero trovato
scampo sulle isolette del lago Ciad.
Non è chiaro, al momento, se
Boko Haram abbia sferrato un
nuovo attacco nell’area o se le notizie si riferiscano a quello del fine
settimana scorso, quando aveva
preso il controllo di una base militare a Baga, dopo intensi combattimenti con la guarnigione locale
dell’esercito. Secondo quanto aveva
riferito il quotidiano locale «Daily
Trust», i militari avevano abbandonato la base nella notte tra sabato e
domenica, dopo sedici ore di battaglia. In precedenza, i miliziani islamisti avevano attaccato diversi villaggi costieri, come Kuayen Kuros,
Mile 3, Mile 4, Doron-Baga, Bundaram.
Baga, già colpita in precedenza
da attacchi alle popolazioni sferrati
da Boko Haram, era una delle località non ancora passate sotto il controllo del gruppo islamista nello
Stato del Borno, che è considerato
la sua principale roccaforte. L’attacco alla guarnigione della cittadina
rivierasca del lago Ciad è stato il
momento culminante di un fine settimana che ha visto Boko Haram
impegnato in una delle più massicce offensive nell’ultimo periodo e
su diversi fronti. Nel villaggio di
Lugda, nello Stato di Adamawa,
l’esplosione di un ordigno ha provocato un morto e diversi feriti tra
la popolazione. Scontri tra i miliziani islamisti e forze militari e di
polizia sono stati ingaggiati anche
nello Stato di Yobe, il terzo — appunto con il Borno e l’Adamawa —
dove da venti mesi il presidente federale Goodluck Jonathan ha proclamato lo stato d’assedio e ha inviato l’esercito contro Boko Haram,
finora peraltro senza i risultati che
l’operazione si era prefissata.
Boko Haram ha anzi consolidato
il proprio controllo su parti sempre
più vaste di quei territori, teatro ormai di una delle maggiori emergenze umanitarie in atto nel mondo,
con oltre un milione di persone costrette ad abbandonare le loro case.
Appena due giorni fa, i governatori
dei tre Stati, in un incontro con lo
stesso Jonathan, avevano escluso
l’invio di più truppe.
La memoria del disastro di Haiti
per rilanciare gli aiuti
Caleidoscopio
asiatico
MALCOLM RANJITH
A PAGINA
8
Il Santo Padre ha ricevuto questa mattina in udienza:
le Loro Eminenze Reverendissime i Signori Cardinali:
— Gerhard Ludwig Müller,
Prefetto della Congregazione
per la Dottrina della Fede;
— Fernando Filoni, Prefetto
della
Congregazione
per
l’Evangelizzazione dei Popoli;
Annunciati colloqui all’Avana
tra Cuba e Stati Uniti
gionieri politici a Cuba. Almeno
trentacinque detenuti sono stati
scarcerati nelle ultime 48 ore. La
notizia era stata diffusa da Elizardo
Sánchez, presidente della commissione cubana per i diritti dell’uomo. L’Avana si è impegnata con
Washington a rimettere in libertà
cinquantatré persone.
È stata nel frattempo smentita la
convocazione di una conferenza
stampa per oggi all’Avana. L’appuntamento era stato collegato da
alcuni media al possibile annuncio
del decesso dell’ex presidente Fidel
Castro, che non appare in pubblico
ormai da un anno, dopo aver ceduto il potere nel 2006.
Il viaggio del Papa in Sri Lanka
NOSTRE
INFORMAZIONI
Incontro in Vaticano a cinque anni dal terremoto
Dopo il disgelo nelle relazioni bilaterali
WASHINGTON, 9. Un alto rappresentante
di
Washington
sarà
all’Avana fra il 21 e il 22 gennaio
per colloqui sulla ripresa dei rapporti diplomatici fra Stati Uniti e
Cuba.
Roberta Jacobson, assistente segretario di Stato per l’Emisfero occidentale, parteciperà ai colloqui —
già previsti — sui migranti fra i due
Paesi. Ma nell’occasione inizierà a
gettare le basi per la ripresa dei
rapporti diplomatici anticipata dai
presidenti Barack Obama e Raúl
Castro.
Inoltre, la portavoce del dipartimento di Stato, Jen Psaki, ha confermato la liberazione di alcuni pri-
ha detto Ban Ki-moon, facendo riferimento, in particolare, alle terribili immagini dell’attacco al giornale satirico francese «Charlie Hebdo», tra cui quella della spietata
esecuzione del poliziotto Ahmed
Merabet. «Era un musulmano, e
rappresenta un altro promemoria di
ciò che ci troviamo a fronteggiare»,
ha precisato il Segretario dell’O nu,
ribadendo la necessità di «trovare
un modo per vivere insieme in pace, in armonia, e nel rispetto dei
diritti umani e delle libertà fondamentali».
La condanna della strage a Parigi è stata espressa da tutti i Governi e da tutti i rappresentanti delle
istituzioni internazionali, delle organizzazioni della società civile e
delle fedi religiose. Questo pur non
nascondendo la necessità di contrastare sia le condizioni sociali nelle
quali il terrorismo trova proseliti,
sia gli interessi economici, primo
tra tutti il traffico di armi, che lo
alimentano.
Il che conferma che il terrorismo, di qualunque matrice, è sentito come una minaccia nei confronti
dell’intera umanità. Questa convinzione sarà alla base del confronto
al vertice internazionale sul terrorismo convocato per domenica a Parigi dal Governo francese e al quale è già stata annunciata la partecipazione, tra gli altri, del segretario
alla Giustizia americano, Eric
Holder.
Tra i temi in discussione c’è
quello dei cosiddetti foreign fighters,
cittadini europei o in genere occidentali che a migliaia si recano a
combattere all’estero nelle file dei
gruppi jihadisti ma che sono pronti
ad agire anche in patria.
Sulla questione dei foreign fighters
e più in generale in materia di lotta
al terrorismo ha annunciato imminenti nuove misure anche la Commissione europea.
— Godfried Danneels, Arcivescovo emerito di MechelenBrussel (Belgio);
Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Julio Murat, Arcivescovo titolare di Orange,
Nunzio Apostolico in Zambia e
in Malawi.
Il sisma del 12 gennaio 2010 causò 230.000 morti, 300.000 feriti e 1.200.000 senza tetto
SERVIZIO
A PAGINA
7
Il Santo Padre ha nominato
Prelato Uditore del Tribunale
della Rota Romana il Reverendo Monsignore Pietro Milite,
del clero della Diocesi di Nocera Inferiore - Sarno, finora Promotore di Giustizia del medesimo Tribunale.
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pagina 2
sabato 10 gennaio 2015
L’alto rappresentante per la Politica estera
e di sicurezza comune dell’Ue (Reuters)
Draghi promette misure di stimolo all’economia
Bce pronta
a varare l’acquisto
di titoli di Stato
BRUXELLES, 9. La promessa di
Draghi di una nuova e imminente
politica monetaria targata Bce ha
spinto ieri le Borse europee. In scia
alle parole del presidente della
Banca centrale europea, che si è
detto pronto a varare l’atteso acquisto di titoli di Stato, i listini del
vecchio continente sono partiti al
galoppo, al punto da far dimenticare lo scorso lunedì nero.
I mercati, già positivi in apertura, hanno accelerato al rialzo nel
primo pomeriggio quando il presidente della Bce è tornato ad aprire
all’ipotesi di una manovra di acquisto di titoli di Stato — peraltro già
utilizzata in questi anni dalla Fed
negli Stati Uniti — che permetterebbe ai Paesi più fragili dell’eurozona di alleggerire il proprio debito pubblico. L’indicazione, arrivata
a due settimane dall’attesa riunione
di Francoforte, è vista con favore
dagli operatori che adesso la danno
quasi certa, mentre l’incognita più
grande è rappresentata dalle modalità del possibile intervento (chi acquisterà e cosa sarà comprato). Bene le principali piazze finanziarie
europee con Milano (più 3,69 per
cento), davanti a Parigi (più 3,59
per cento). Positivo anche Wall
Street: il Dow Jones ha chiuso in
forte rialzo (1,86 per cento) consolidando i guadagni nonostante il
dato sui sussidi alla disoccupazione
sia stato peggiore delle attese.
La Banca centrale europea ha
però avvertito la Grecia: stop ai finanziamenti alle banche elleniche
se Atene volta le spalle alla troika.
A due settimane dalle elezioni in
cui il partito che guida i sondaggi,
Syriza, si presenta con un piano di
addio all’austerity e rinegoziazione
del debito del Paese volato al 175
per cento del pil, la Bce mette le
mani avanti: ha in pancia l’8 per
cento del debito greco e fornisce liquidità alle banche in cambio di titoli ellenici a garanzia. Ma è una
deroga ai principi generali (che vietano di accettare titoli speculativi
come quelli greci) che vale finché
c’è un’estensione tecnica del salvataggio concesso fino a febbraio
2015. E si basa — spiega un portavoce — sul presupposto di una
«conclusione positiva dell’attuale
programma di salvataggio e di un
successivo accordo» con la troika.
Mario Draghi ha ribadito ieri
che «a inizio d’anno» la Bce valuterà se acquistare titoli di Stato.
Ma il presidente della Bce nasconde a stento l’apprensione per l’incognita del voto greco del 25 gennaio: cadendo giusto tre giorni dopo il prossimo consiglio direttivo
nel quale la Bce potrebbe lanciare
il quantitative easing, l’appuntamento complica il negoziato con la
Bundesbank, indebolendo l’argomentazione di Draghi secondo cui
Francoforte non si espone a perdite. E così la Bce, il 22 gennaio, potrebbe limitarsi ad annunciare un
quantitative easing limitato ai titoli
sovranazionali, rinviando al 5 marzo la decisione sugli acquisti dei titoli di Stato.
Chiesto il rispetto degli accordi di Minsk sulla crisi ucraina
Missione dell’Unione europea
a Kiev e a Mosca
RIGA, 9. Il ministro degli Esteri lettone, Edgars Rinkēvičs, come presidente di turno dell’Ue, sarà in missione tra oggi e domani a Kiev e
Mosca. Lo ha annunciato ieri, nel
corso di una conferenza stampa a
Riga insieme all’alto rappresentante
per la Politica estera e di sicurezza
comune dell’Ue, Federica Mogherini, affermando che la visita sarà cruciale. «Abbiamo concordato di cer-
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comune dell’Unione europea ha affermato di non poterlo confermare.
«Discussioni sono in corso a diversi
livelli» ha dichiarato, sottolineando
per questo l’importanza della missione a Kiev e a Mosca.
Un eventuale alleggerimento delle
sanzioni contro la Russia per la crisi
ucraina «dipende dalla situazione
sul terreno. Se e quando tutti i punti
dell’accordo di Minsk verranno ri-
Per neutralizzare i ribelli hutu rwandesi da vent’anni attivi nel Nord Kivu
Tensione tra Mogadiscio e il Somaliland dichiaratosi autonomo
L’Onu prospetta un’azione decisiva
nell’est congolese
Contrasti sul petrolio
aggravano la crisi somala
NEW YORK, 9. Un’azione decisiva
contro i ribelli hutu rwandesi delle
Forze democratiche di liberazione
del Rwanda (Fdlr), attivi da
vent’anni nell’est della Repubblica
Democratica del Congo e in particolare nel Nord Kivu, è stata prospettata e sollecitata dal Segretario
generale dell’Onu, Ban Ki-moon, in
una telefonata al presidente congolese, Joseph Kabila, della quale ha
dato notizia l’Onu stessa. Le Fdlr
«non hanno mantenuto la loro promessa di disarmare e la scadenza del
2 gennaio è trascorsa senza risultati
significativi», ha detto Ban Kimoon, al quale Kabila ha assicurato
che le forze governative sono pronte
ad affiancare la Monusco, la missione dell’Onu nel Paese, per neutralizzare una volta per tutte il gruppo
armato riparato in territorio congolese dopo il massacro dei tutsi in
Rwanda del 1994.
Di una possibile azione imminente contro le Fdlr ha parlato anche il
comandante dei caschi blu, il generale Carlos Alberto dos Santos
Cruz, in un’intervista a Radio Okapi, l’emittente della Monusco. Pur
riconoscendo che non si tratta
dell’unico gruppo attivo nell’area,
dos Santos Cruz ha sostenuto che le
Fdlr hanno un grande peso nella
persistente situazione di violenza e
che il loro completo disarmo è cruciale per ripristinare la pace.
Stabilite
le date
delle legislative
in Egitto
IL CAIRO, 9. Le elezioni parlamentari egiziane, terza tappa sulla via
della democratizzazione del Paese,
si terranno in due tornate tra il 22
marzo ed il 7 maggio. Le date sono
state annunciate dal presidente
dell’alta commissione elettorale,
Ayman Abbas, in una conferenza
stampa al Cairo. La prima tornata,
in due turni, si svolgerà in circa la
metà dei governatorati egiziani a
partire dal 22 e 23 marzo. Per il 6 e
7 maggio è stata invece fissata la
seconda tornata negli altri governatorati. Gli egiziani all’estero voteranno per due giorni iniziando
ogni volta il giorno prima delle date indicate.
Le elezioni politiche sono l’ultima tappa della Road map per la
transizione democratica impostata
dopo la deposizione del presidente
Mohammed
Mursi
avvenuta
nell’estate del 2013. Le due fasi già
raggiunte sono state il varo della
nuova Costituzione e le elezioni
presidenziali vinte da Abdel Fattah
El Sissi. Inizialmente previsto per
la scorsa primavera, il voto è stato
rinviato più volte.
L’Egitto è senza Parlamento dal
giugno 2012, quando fu sciolta
l’Assemblea controllata dai Fratelli
musulmani.
care un’opportunità per un nuovo
dialogo politico con la Russia sulla
crisi in Ucraina», ha spiegato il capo
della diplomazia lettone che farà
rapporto ai colleghi in occasione del
prossimo consiglio Esteri dell’Ue in
programma il 19 gennaio.
Quanto all’eventuale incontro ad
Astana con Merkel, Hollande, Putin
e Poroshenko, l’alto rappresentante
per la Politica estera e di sicurezza
spettati, allora sicuramente non ci
saranno più le sanzioni. Ma siamo
ancora lontani» ha aggiunto Federica Mogherini. «Se gli sviluppi, positivi ma limitati, diventeranno qualcosa di più concreto allora valuteremo di conseguenza a marzo e alla
scadenza successiva», ha aggiunto.
Il rispetto degli accordi di Minsk
è infatti «presupposto importante»
per un ammorbidimento delle sanzioni a Mosca. Lo ha confermato ieri Angela Merkel, a Berlino, in conferenza stampa con il premier ucraino, Arseny Yatsenyiuk. «Le sanzioni
sono state applicate per reagire a
delle cause, e possono essere rimosse
quando le cause saranno eliminate».
Alcune sanzioni sono dipese dall’annessione della Crimea, ha aggiunto
il cancelliere tedesco, e dipendono
dal futuro della penisola; altre dagli
attacchi all’est del Paese, e per rimuoverle bisogna partire da Minsk.
Nel frattempo, la Commissione europea ha deciso ieri di prolungare il
sostegno finanziario all’Ucraina mettendo a disposizione ulteriori 1,8 miliardi di euro. Lo ha annunciato il
presidente della Commissione Ue,
Jean-Claude Juncker, a Riga dopo
l’incontro con il Governo lettone.
«Questo prova — ha aggiunto Juncker — che la solidarietà europea
non è una vana parola ma riflette la
realtà di tutti i giorni, e sono stato
contento di vedere come il Governo
lettone abbia apprezzato questo gesto».
Caschi blu della Monusco in azione nel Nord Kivu
MO GADISCIO, 9. La questione del
petrolio minaccia di aggravare la
già precaria situazione della Somalia, in preda ad una guerra civile
che con fasi più o meno acute si
protrae da oltre un quarto di secolo. Proprio sul petrolio, a giudizio
di molti osservatori, si gioca infatti
una parte rilevante della difficile
partita per ricostituire l’unità del
Paese e, soprattutto, una prospettiva di pace per le sue popolazioni
stremate.
Le autorità di Hargeisa, il capoluogo dell’autoproclamata regione
autonoma del Somaliland, relativamente risparmiata dalla guerra,
stanno preparandosi a sfruttare in
proprio i ricchissimi giacimenti
d’idrocarburi al largo della costa e
questo minaccia di compromettere
la trattativa in atto con il Governo
di Mogadiscio, riconosciuto dalla
comunità internazionale, per arrivare a ripristinare uno Stato federale unitario.
Il Governo di Mogadiscio di recente ha invitato le compagnie che
detenevano concessioni petrolifere
prima della caduta del regime di
Siad Barre, nel 1991, a riprenderne
lo sfruttamento, oltre ad avviare
una mappatura completa dei possibili giacimenti offshore. Proprio alcune di queste aree sono però già
state offerte ad altri soggetti dai capi politici del Somaliland. Mogadi-
scio, tra l’altro, non riconosce l’accordo fatto dalla società di prospezioni petrolifere norvegese Dno
Explorer con le autorità di Hargeisa. Queste ultime, tra l’altro, hanno
un contenzioso aperto con l’altra
regione autoproclamatasi autonoma
del Puntland, che ha dato in concessione alla compagnia Africa Oil
lo sfruttamento di giacimenti in acque reclamate dal Somaliland.
L’inviato speciale delle Nazioni Unite a colloquio con i leader delle fazioni rivali
Sforzi per rilanciare il dialogo in Libia
TRIPOLI, 9. L’inviato speciale delle
Nazioni Unite in Libia, Bernardino
León, ha incontrato ieri per la prima
volta il generale Khalifa Haftar, da
poco meno di un anno alla guida
dell’operazione militare «Karama»
contro le milizie islamiste. Lo riferisce il quotidiano locale «Al Wasat».
Si tratta del primo incontro tra il
diplomatico spagnolo e il generale,
di recente reintegrato nelle forze armate libiche insieme ad altri 129 ufficiali (tra cui il capo delle forze aeree
Saqr Al Jroushi) per volontà del
GIOVANNI MARIA VIAN
direttore responsabile
Giuseppe Fiorentino
vicedirettore
Piero Di Domenicantonio
Parlamento eletto il 21 giugno dello
scorso anno e riconosciuto dalla comunità internazionale e che, per motivi di sicurezza nella capitale controllata dagli islamisti, è costretto a
riunirsi a Tobruk. León, che ieri ha
incontrato anche il presidente del
Congresso nazionale libico con sede
a Tripoli Nouri Abu Sahimin, è impegnato nel tentativo di organizzare
una seconda tornata di colloqui tra
le parti in conflitto. Il primo incontro era previsto per lunedì scorso ma
è stato rinviato a data da destinarsi.
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caporedattore
Gaetano Vallini
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La situazione in Libia resta caotica. Il Governo di Ankara ha invitato
tutti i cittadini turchi a lasciare immediatamente il Paese nordafricano
a causa del continuo degradarsi della situazione interna. Secondo la
stampa di Ankara, negli ultimi giorni sono circolate informazioni su
presunte minacce contro gli aerei civili turchi in volo sulla Libia. Il ministero degli Esteri ha reagito «condannando con forza queste dichiarazioni ostili contro la Turchia».
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Editrice L’Osservatore Romano
don Sergio Pellini S.D.B.
direttore generale
Intanto, sono stati rilasciati i tredici copti egiziani le cui tracce si
erano perse sabato scorso a Sirte. Lo
riferisce una fonte tribale della città.
Una fonte dell’esercito libico aveva
riferito che i tredici erano stati rapiti
da estremisti islamici, mentre il presidente del Consiglio dei saggi di
Sirte aveva dichiarato che gli uomini
non erano stati rapiti, ma solo trattenuti presso l’ufficio immigrazione
generale perché entrati illegalmente
in Libia. I tredici stanno bene e saranno trasferiti presto in Egitto.
Tariffe di abbonamento
Vaticano e Italia: semestrale € 99; annuale € 198
Europa: € 410; $ 605
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Segnali
di rallentamento
dell’epidemia
di ebola
GINEVRA, 9. Dopo la fase esplosiva dei mesi scorsi, l’epidemia
di ebola sembra rallentare in
tutti e tre i Paesi dell’Africa occidentale più colpiti, compresa
la Sierra Leone, dove i focolai
sembravano incontrollabili. La
rapidità di diffusione del tremendo virus starebbe, quindi,
diminuendo, anche se la situazione resta comunque grave. Lo
hanno evidenziato gli ultimi dati
diffusi
dall’O rganizzazione
mondiale della sanità (Oms).
Secondo l’organismo delle
Nazioni Unite, in Sierra Leone,
nella prima settimana dell’anno,
sono stati accertati duecentoquarantotto nuovi contagi della grave malattia di febbre emorragica. Nonostante tutto, sottolineano gli esperti dell’Oms, «ci sono segnali che il numero dei casi si sia stabilizzato». Sinora
l’epidemia di ebola ha provocato più di 8.300 vittime, quasi
tutte in Sierra Leone, Liberia e
Guinea, i Paesi più colpiti. Miglioramenti sono stati segnalati
anche in Liberia. In questo Paese, infatti, si è passati dagli oltre
trecento casi confermati a settimana dell’agosto scorso agli appena otto confermati (e quaranta probabili) di inizio anno.
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L’OSSERVATORE ROMANO
sabato 10 gennaio 2015
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Civili indiani
abbandonano il loro villaggio (LaPresse/Ap)
Battuto a sorpresa Rajapaksa
Sirisena
eletto
presidente
dello Sri Lanka
COLOMBO, 9. Sovvertendo tutti i
pronostici degli analisti, il candidato dell’opposizione nello Sri
Lanka, Maithripala Sirisena, ha
vinto le elezioni presidenziali anticipate di ieri. La commissione
elettorale ha reso noto stamane
che il nuovo capo dello Stato ha
conquistato il 51,3 per cento dei
voti, contro il 47,6 per cento del
presidente
uscente,
Mahinda
Rajapaksa, che aveva convocato le
elezioni con due anni di anticipo
convinto di ottenere un terzo
mandato consecutivo.
Sirisena, ex ministro della Sanità nel Governo Rajapaksa, presterà giuramento già stasera, secondo
quanto scrive la stampa a Colombo. Prima di lasciare il palazzo
presidenziale, Rajapaksa — che ha
accettato il verdetto delle urne,
ammettendo la sconfitta — ha dichiarato che il giuramento del primo ministro è previsto per sabato.
Si prevede che l’incarico sia affidato al leader dell’opposizione,
Ranil Wikremansinghe. Secondo
fonti vicine a Sirisena, il nuovo
capo dello Stato estenderà un invito aperto a tutti i parlamentari,
tra cui i deputati dell’United
People’s Freedom Alliance — la
coalizione che ha sostenuto
Rajapaksa, vincitore delle presidenziali del 2005 e del 2010 — ad
unirsi al suo programma di cento
giorni per introdurre le riforme
democratiche annunciate durante
la campagna elettorale.
Le operazioni di voto e di scrutinio si sono svolte senza incidenti
di rilievo. Nelle nove ore di votazioni, hanno sottolineato i media
locali, l’affluenza alle urne ha superato il 70 per cento dei quindici
milioni di aventi diritto.
Durante la breve campagna
elettorale, Sirisena — entrato in
Parlamento nel 1989 — ha promesso di dare al Paese una democrazia parlamentare dove polizia, magistratura e amministrazione civile
siano indipendenti dalla presidenza e dall’Esecutivo. Nel periodo
della sanguinosa guerra civile, durata oltre trent’anni, era stato inserito nella lista nera dei ribelli separatisti delle Tigri per la liberazione dell’Eelam. In almeno cinque occasioni, i terroristi hanno
cercato di ucciderlo.
Il primo a congratularsi con
Sirisena è stato il premier indiano,
Narendra Modi. «Come Paese vicino e amico — ha scritto Modi in
un tweet — l’India conferma il
pieno appoggio per la pace e lo
sviluppo dello Sri Lanka».
Inviato
delle Nazioni Unite
in missione
nel Myanmar
Migliaia di persone abbandonano le abitazioni a causa dei combattimenti tra esercito indiano e pakistano
Fuga dal Kashmir
NEW DELHI, 9. Si riaccende la tensione tra India
e Pakistan sulla contesa regione del Kashmir. A
causa dell’aumento nelle ultime settimane dei violenti scontri a fuoco tra forze indiane e truppe
pakistane, migliaia di famiglie sono state costrette
ad abbandonare le loro abitazioni.
I combattimenti si sono diffusi a ridosso di un
tratto di circa duecento chilometri della frontiera
di fatto che attraversa la regione nella parte settentrionale del subcontinente indiano. I profughi
parlano senza mezzi termini di uno scenario di
guerra. «Ci sono molti bombardamenti in corso e
non sappiamo il motivo per cui tutto questo stia
accadendo. Ogni volta che c’è un raduno di persone si inizia a sparare e nessuno ci aiuta», ha dichiarato alla stampa un residente della zona.
Negli ultimi giorni, almeno una dozzina di
persone sono state uccise in scontri di confine e
le autorità locali hanno fatto sgomberare più di
seimila persone in campi di sfollati, mentre altre
quattromila si sono rifugiate in altre zone, presso
parenti o conoscenti. Una scuola sarebbe stata
colpita e ripetuti colpi di mortaio sono partiti
dalle opposte fortificazioni anche ieri. Queste in-
formazioni sono state confermate da un funzionario indiano. Il Kashmir, a maggioranza musulmana, è già stato al centro di due sanguinose guerre
tra India e Pakistan, Paesi dotati entrambi di arsenale nucleare. La situazione viene seguita con
particolare attenzione dalla diplomazia internazionale dal 1998, anno in cui India e Pakistan
hanno testato entrambi un’arma nucleare: anni fa
il settimanale britannico «The Economist» aveva
definito il confine tra India e Pakistan «il più pericoloso del mondo».
L’Onu, per ora, non si pronuncia, mentre Islamabad e New Delhi continuano a rimpallarsi la
responsabilità della violazione della tregua. L’India ha infatti denunciato come lo scorso anno le
truppe pakistane abbiano violato gli accordi del
cessate-il-fuoco (siglati nel 2003) più di cinquecentocinquanta volte.
L’India accusa le autorità di Islamabad di inviare militanti nella parte indiana del Kashmir,
un’accusa che il Pakistan ha sempre negato. Proprio ieri, il ministero degli Esteri di Islamabad ha
affermato che il Pakistan è contro ogni forma di
terrorismo e che «le continue provocazioni india-
Gli Stati Uniti
nella morsa del gelo
Obama a sostegno
del mercato immobiliare
WASHINGTON, 9. Il presidente degli
Stati Uniti, Barack Obama, ha annunciato ieri un taglio ai premi delle assicurazioni relative ai mutui casa garantiti dalla Federal House
Administration. L’iniziativa è volta
a favorire l’acquisto della prima
abitazione. Il risparmio medio stimato «è di circa 900 dollari all’anno che potranno essere usati per la
spesa, per la benzina, per l’educazione dei figli e possono anche
equivalere a una rata mensile», ha
sottolineato Obama durante un discorso in un liceo di Phoenix.
«L’azione significa più soldi nelle
tasche dei cittadini e centinaia di
Tensione
politica
in Bangladesh
DACCA, 9. Non accennano a diminuire in Bangladesh le tensioni
politiche. L’opposizione ha fatto
sapere che continuerà a bloccare i
trasporti, decisione presa lunedì
scorso nel primo anniversario delle controverse elezioni che hanno
permesso al partito Awami League, di Sheikh Hasina, di restare
al Governo. La polizia ha tenuto
Zia, leader dell’opposizione, confinata nel suo ufficio a Dacca, mentre altri leader e militanti del Partito nazionalista sono stati tratti in
arresto. Ieri, altre tre persone sono
state uccise nelle diverse manifestazioni in corso nel Paese, facendo salire a sette le vittime della
campagna di protesta.
La tensione politica è nuovamente cresciuta da quando l’Alta
corte ha ordinato il divieto di trasmissione, pubblicazione e diffusione delle dichiarazioni del figlio
di Zia, Tarique Rahman, attualmente a Londra, che spesso è stato protagonista di prese di posizione fortemente critiche sulla storia recente del Bangladesh e, in
particolare, su Sheikh Mujib, padre del primo ministro.
ne lungo il confine hanno il solo scopo di distogliere l’attenzione e gli sforzi dalla guerra al terrorismo».
La tensione tra India e Pakistan è salita dopo
che il primo ministro indiano, Narendra Modi,
ha deciso, lo scorso agosto, di cancellare
dall’agenda i colloqui di pace con Islamabad. A
giorni sarà in India il segretario di Stato americano, John Kerry. E verso la fine di gennaio, lo
stesso presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, sarà in visita a New Delhi. Obama è stato invitato in occasione delle celebrazioni del Giorno
della Repubblica, che cade il 26 gennaio.
L’Amministrazione di Washington ha per anni
cercato di favorire un riavvicinamento tra India e
Pakistan e più volte ha invitato entrambi i Governi a trovare una soluzione giusta e pacifica per
l’annosa e delicata questione del Kashmir, che in
oltre vent’anni di combattimenti ha provocato oltre ottantamila vittime e migliaia di profughi.
Secondo gli osservatori internazionali, la storica e reciproca diffidenza tra New Delhi e Islamabad non lascia al momento sperare in drastici
cambiamenti.
migliaia di nuovi acquirenti che sosterranno il mercato a favore di tutti, anche di coloro che già possiedono un’abitazione» ha osservato il
presidente. «Oggi le compravendite
di case sono salite di circa il 50 per
cento rispetto al picco della crisi, le
costruzioni sono più che raddoppiate e i pignoramenti sono ai minimi dal 2006. L’aumento dei prezzi
delle case ha messo milioni di dollari nelle tasche della classe media
americana ma voglio mettere in
chiaro che tutto ciò non è avvenuto
per caso» ha rimarcato Obama ma
è «il risultato di politiche incentrate
sulla classe media».
NAYPYIDAW, 9. È iniziata ieri la visita in Myanmar dell’inviato speciale delle Nazioni Unite per il
Paese asiatico, la sudcoreana
Yanghee Lee. Iniziativa che ha al
centro la verifica del processo di
riforma avviato dal nuovo Governo civile, erede del regime militare
precedente al 2011. Durante la
missione l’inviato dell’Onu si recherà anche nelle aree al centro di
contrasti e violenze a sfondo etnico e religioso. Prima tappa lo Stato di Rakhine, al confine con il
Bangladesh, dove da oltre due anni la minoranza musulmana rohingya subisce le continue violenze
da parte di estremisti buddisti.
Violenze che hanno costretto migliaia di persone a rifugiarsi in
campi di raccolta. Lee si recherà
poi nello Stato di Shan e in altri
dove da anni è attiva la guerriglia
armata contro il Governo centrale
di Naypyidaw.
Attaccata
una base
dei talebani
afghani
KABUL, 9. Un aereo senza pilota
ha attaccato ieri posizioni dei talebani nella provincia orientale afghana di Nangarhar uccidendo almeno sei militanti. Lo scrive
l’agenzia di stampa afghana Pajhwok. Il portavoce della polizia
provinciale, Hazrat Hussain Mashriqiwal, ha dichiarato che il drone è entrato in azione nel distretto
di Lalpori sparando missili su una
base degli insorti nella località di
Chaknor. Oltre alle sei vittime,
l’attacco ha causato anche tre feriti. Nel frattempo, almeno sette talebani pakistani sono morti a seguito di una esplosione avvenuta
nell’edificio in cui si trovavano
nella Khyber Agency, territorio
tribale nord-occidentale al confine
con l’Afghanistan. Lo riferisce oggi Express News Tv. Fonti locali e
tribali hanno riferito che lo scoppio, forse dovuto a materiale
esplosivo che i militanti manipolavano, è avvenuto in un compound
dell’area di Sepah nella Tirah Valley, gestito dal movimento talebano Lashkar-e-islam. Oltre alle vittime, si è appreso, vi sono stati
anche vari feriti. Le forze di sicurezza pakistane hanno sferrato
nell’ottobre scorso una operazione
militare, denominata Khyber-1,
mirante proprio a distruggere le
basi degli insorti talebani.
A causa del riscaldamento globale e dell’inquinamento
Ecosistemi marini in pericolo
Freddo polare a New York (LaPresse/Ap)
WASHINGTON, 9. Continua l’ondata
di freddo polare che ha colpito
quasi tutti gli Stati Uniti a causa
del fronte di correnti fredde dal Canada. Le temperature sono in picchiata da un paio di giorni con la
colonnina di mercurio che ha sfiorato i meno 40 nel Minnesota, ma
anche in Dakota e Iowa a causa del
vento. A Chicago la temperatura è
di meno 21 gradi. Molte scuole da
Boston, a Providence, Rhode
Island, e nel sud-est del New England rimarranno chiuse. Freddo
polare anche a New York e Washington dove la colonnina di mercurio
segna meno 16. L’ondata di gelo
continuerà per tutta la settimana
con precipitazioni nevose — che
hanno già causato notevoli disagi —
previste in gran parte degli Stati
Uniti.
LONDRA, 9. L’inquinamento, in aggiunta a un improvviso aumento
delle temperature, possono mettere
in serio pericolo l’intero ecosistema
marino. L’ipotesi è stata avanzata
da un team di ricercatori in uno studio
pubblicato
sulla
rivista
«Philosophical Transactions B»,
della Royal Society britannica.
Si tratta di un’edizione speciale
che raccoglie i lavori di oltre ottanta
esperti da sei continenti, tra cui anche ricercatori italiani del Cnr. Secondo gli scienziati, «anche i sistemi
marini fra loro non comunicanti potrebbero presentare, quasi sincronicamente, i cosiddetti regime shifts,
cioè repentini cambiamenti che influenzano l’intero ecosistema». La
causa, hanno evidenziato gli esperti,
sarebbe da ricercare nell’aumento
della temperatura. «Bacini marini
tra loro scollegati subiscono in mo-
do pressoché sincrono rapidi cambiamenti che coinvolgono i loro
ecosistemi», evidenzia lo studio.
I ricercatori hanno compilato undici banche dati marine multidecennali (1960-2005) delle popolazioni
zooplanctoniche provenienti dagli
oceani Atlantico e Pacifico e dai
mari Mediterraneo, del Nord e Baltico. Lo studio ha analizzato i tre
principali componenti, considerati
indicatori dello stato biologico di
ogni sistema, e identificato i loro
anni di shift, cioè di “salto”. I ricercatori hanno così constatato che tra
il 1987 e il 1990 tali cambiamenti repentini si sono verificati in ben sette
degli undici bacini analizzati, tra cui
nord Adriatico, Mare del Nord,
Mar Baltico, Atlantico nord-occidentale e Pacifico nord-orientale.
Ma qual è la causa di questi fenomeni? Una parte della comunità
scientifica ritiene che a provocare gli
shift siano fattori locali, come la pesca o l’inquinamento. Anche se questo può avvenire in molti casi, avvertono gli studiosi, i cambiamenti
ecosistemici, avvenuti in particolare
alla fine degli anni Ottanta nei vari
mari e oceani, sono stati causati
dall’innalzamento della temperatura
dell’emisfero nord avvenuto intorno
al 1987, possibilmente causato dai
cambiamenti atmosferici artici.
È da notare che, nei quarantacinque anni investigati in questo lavoro, la temperatura media globale è
aumentata di meno di un grado
centigrado, mentre nell’ultimo report sui cambiamenti climatici
dell’Ipcc si prevede un innalzamento di temperatura entro il 2100 da
meno di due fino a 3-5 gradi, per
cui nel futuro ci si aspettano fenomeni più frequenti e intensi.
L’OSSERVATORE ROMANO
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sabato 10 gennaio 2015
Stesse stelle
per islamici
e cristiani
di MARCELLO FILOTEI
Le password utilizzate dal direttore della Radio vaticana e della Sala stampa della Santa Sede sono
nomi di stelle, rigorosamente in
arabo. L’informazione, inutile per
chi voglia tentare di forzare il
computer di padre Federico Lombardi essendo migliaia gli astri
scoperti da scienziati musulmani,
aiuta invece a riflettere sulle affinità tra islam e cristianesimo in ambito astronomico. Le due culture
hanno camminato in parallelo per
secoli occupandosi dello stesso
oggetto e, che lo abbiano saputo
o meno gli stessi protagonisti della ricerca, molto probabilmente si
sono influenzate a vicenda.
Proprio per riflettere su questo
tema la Specola vaticana — in col-
La statua di Nostra Signora di Matara tra storia e leggenda
Divorata e restituita
dalle acque
dallo Sri Lanka
CRISTIAN MARTINI GRIMALDI
l Forte a forma di stella che risale al
1763 è conservato talmente bene che
Asanke, la guardia appostata a un
passo dal ponte levatoio, dice che se
si guarda giù nel fossato — pieno
d’acqua — è possibile vedere un coccodrillo. Non scherza, la guardia. Il coccodrillo,
infatti, c’è davvero. Pare che il fiume Nilwala, che scorre vicino, ne sia pieno.
Se Asanke avesse indossato un’uniforme
settecentesca piuttosto che abiti borghesi
per un attimo si sarebbe potuto pensare di
trovarsi di fronte la sentinella di una guarnigione olandese dell’epoca, quando le coste dello Sri Lanka venivano attrezzate dal
piccolo ma potente Stato nordeuropeo con
le più moderne tecnologie di difesa per
scongiurare gli attacchi delle potenze rivali
con le quali si contendeva il controllo delle
rotte dell’oceano indiano. Il Forte venne
costruito a forma di stella a sei punte allo
scopo di realizzare una difesa a trecentosessanta gradi. Ma le strategie militari fondate
sulla geometria, per quanto sofisticate, vengono rese obsolete dai progressi dell’artiglieria e il Forte resistette appena trent’anni: l’isola nel 1796 passò nelle mani degli
inglesi che trasformarono questo baluardo
difensivo in un ufficio amministrativo.
Siamo a Matara, una piccola cittadina
nel sud dello Sri Lanka che, a dispetto del
passato militaresco, ospita uno degli oggetti
di maggiore devozione religiosa del Paese:
la famosa statua di Nostra Signora di Matara, custodita nell’omonima chiesa a ridosso del lungomare.
Attraverso il ponte sul fiume Nilwala e
sulla sinistra splende, bianchissima, la moschea: brilla come uno specchio in mezzo
al deserto sotto il sole di mezzogiorno.
Non lontano c’è la chiesa riformata olandese di Matara, una delle più antiche chiese
I
La stella Aldebaran, nome che deriva dalla parola
araba al-Dabarān («l’inseguitore»)
laborazione con l’ambasciata della
Repubblica Islamica d’Iran presso
la Santa Sede — ha organizzato
un convegno dal titolo «Il ruolo
dell’astronomia nel cristianesimo e
nell’islam», che si svolgerà dal 13
al 15 gennaio a Castel Gandolfo.
Presentando l’evento venerdì 9
gennaio presso la Sala Marconi
della Radio vaticana, padre José
Gabriel Funes, direttore della Specola vaticana, ha sottolineato come la fonte principale di informazione per un astronomo è la luce,
e la luce è la stessa per tutti, su
tutto il globo, per qualsiasi cultura. La luce gioca un ruolo fondamentale, stabilisce i ritmi della vita, ed è pertanto un elemento importantissimo non solo nell’ambito della scienza e della tecnologia,
ma anche in quello della religione
e della cultura.
Non è un caso, quindi, che l’incontro sia stato organizzato nel
2015, anno che le Nazioni Unite
hanno dichiarato «International
year of the light and light-based
technologies» per celebrare il centenario delle equazioni di campo
della relatività generale formulate
da Albert Einstein nel novembre
del 1915. In questo convegno, ha
aggiunto padre Funes, l’attenzione
sarà puntata sugli aspetti storici e
culturali, ma non è escluso che
dal confronto emergano novità
scientifiche.
Da parte sua Farid Ghassemlou, del Department of History of
Science della Islamic Encyclopedia Foundation, ha sottolineato
come nella storia le fonti scientifiche a disposizione di studiosi islamici e cristiani siano state le stesse, così come simili erano anche le
sfide che gli esperti fronteggiavano. Secondo Ghassemlou quindi
la questione che dobbiamo porci
oggi è: le due culture hanno trovato le stesse risposte? E ancora:
le traduzioni di testi scientifici
dall’arabo al latino hanno portato
agli scienziati europei informazioni che hanno influenzato il loro
lavoro? Insomma: Galileo e Copernico, per fare solo qualche nome, hanno attinto anche al lavoro
di altri?
Un solo convegno, probabilmente, non sarà sufficiente a trovare le risposte. Per questo i protagonisti auspicano che l’iniziativa
sia solo la prima di una lunga serie di colloqui che metta al centro
il tema del dialogo culturale.
omaggio alla religione induista. I monaci
sono stati lungimiranti ad aver scelto questo luogo, perché il tempio si trova a diversi metri sul livello del mare: di conseguenza
è potuto sottrarsi alla furia dello tsunami
del dicembre 2004.
Ma la stessa sorte non è toccata alla
chiesa di Nostra Signora di Matara, che
conserva la venerata statua della Madonna. La chiesa è il primo edificio a ridosso
del lungomare e la prima grande onda del in chiesa una grande pioggia aveva ridato
maremoto l’ha centrata in pieno. Era la di nuovo vita ai campi: la siccità era sconmattina di santo Stefano e il parroco stava giurata.
dando la comunione quando proprio di
Ma la storia di questa sacra scultura non
fronte a sé vide arrivare l’imponente massa finisce qui. Nel 1911 il vescovo di Galle, il
d’acqua. Non c’è stato neppure il tempo di belga Van Reeth, fece trasportare la statua
dare l’allarme: ventiquattro degli oltre cento in Europa perché venisse restaurata. Dopo i
fedeli presenti non hanno avuto scampo. lavori, la statua venne caricata su una nave
Ingenti, poi, i danni materiali. E in questo che l’avrebbe dovuta riportare in Sri Lanscenario di distruzione la statua di Nostra ka. Ma nel mar del nord, a causa di forti
Signora di Matara era scomparsa. Il mare venti, la nave rischiò di schiantarsi sugli
se l’era ripresa esattamente come l’aveva re- scogli: dovette quindi riparare in Inghilterstituita quattro secoli prima a un gruppo di ra. A questo punto qualcosa di sconcertante
pescatori che l’avevano trovata impigliata accadde: la statua fu «presa in ostaggio»
nelle loro reti.
La leggenda narra infatti
che nel XVII secolo la statua
Lo tsunami del 26 dicembre 2004
venne rinvenuta in mare —
contenuta in una scatola di letravolse la chiesa
gno — da alcuni pescatori del
mentre il parroco dava la comunione
luogo, che poi la consegnarono al parroco della chiesa di
Ventiquattro fedeli rimasero uccisi
Matara. La chiesa originaria si
e l’oggetto di grande devozione scomparve
trova non molto lontano da
qui, ma oggi è abbandonata
essendo troppo piccola per
contenere i fedeli che vanno aumentando di da un uomo che chiese un’esorbitante somanno in anno grazie alla crescente popolari- ma di denaro per il riscatto. Non riuscendo
però nel suo intento, lo squilibrato ritorse il
tà della statuetta.
«Due furono gli eventi miracolosi legati suo astio sulla statuetta sfigurandola con
alla statua» dice il parroco, padre Damian colpi di accetta. Infine la preziosa scultura
Arsakularatne: «Il primo avvenne durante venne recuperata, ma di nuovo dovette esun’epidemia di colera che fece centinaia di sere riportata in Belgio — dallo stesso remorti. La gente impaurita si radunò in stauratore — per essere sottoposta a «nuove
chiesa e portò la statua in processione. Da cure». A questo punto padre Van Reeth
quel giorno non si registrò un solo altro ca- prese con sé la statua e salpò sulla naso di colera in città». Il secondo evento mi- ve «Princess Alice». Il sacerdote sentiva
racoloso accadde durante una forte siccità. dentro di sé che il tutto finalmente sarebbe
Gli abitanti di Matara portarono di nuovo andato per il meglio: ma proprio quando
la statua in processione e prima di tornare mancava poco per giungere a destinazione
la nave prese fuoco. Durante l’incendio
parte del carico dovette essere gettato in
mare e al suo arrivo a Colombo padre Van
Reeth scoprì che la statua non c’era più.
Era stata gettata in mare insieme al carico.
Ma tre giorni dopo la statua venne riportata a Matara da alcuni marinai che l’avevano
ripescata in alto mare.
«Questa statua ne ha passate di tutti i
colori» esclama padre Damian, aggiungendo che oggi vengono da lui madri che raccontano la storia dei loro figli con malattie
apparentemente incurabili, ma poi superate
grazie alle preghiere formulate ai piedi della statua.
Tornando con la mente al dramma consumatosi il 26 dicembre 2004, padre Damian ricorda che il parroco di questa chiesa, padre Charles Hewawasam, e gli altri
fedeli che stavano assistendo alla messa,
trovarono rifugio in un edificio vicino. La
statua, appunto, era scomparsa e per due
giorni, nonostante le ricerche, non se ne ebbe notizia. Era la sera del 28 dicembre
quando Milton Hakmanage, che abitava vicino alla chiesa, telefonò al parroco dicendo di aver avuto in sogno una visione:
qualcosa di prezioso si trovava nel giardino
del suo vicino. Il 29 mattina il parroco disse ai suoi collaboratori di andare a dare
un’occhiata nel giardino. «Il giorno dopo
avevamo di nuovo la statua con noi» afferma commosso padre Damian. E la cosa ancor più straordinaria fu che il Gesù della
statua aveva ancora la piccola corona di
spine in testa e la catenina d’oro intorno al
collo. Oggi la statua è venerata non solo
dai cristiani, ma anche da hindu e musulmani.
Il caso del Centro di educazione motoria di Roma
Qualcuno che aiuti Emanuela a bere
di SILVIA GUSMANO
«Un’organizzazione nei confronti della
quale l’umanità è grandemente debitrice». Così Giovanni Paolo II, ospite a Ginevra del Comitato Internazionale della
Croce rossa nel 1982, definì la creatura
nata dalla mente e dal cuore di Henry
Dunant. Rivolgendosi a «tutti gli uomini e le donne di buona volontà» che
nell’ambito della Croce Rossa si metto-
olandesi dello Sri Lanka. Campeggia austera e solitaria all’interno del secondo Forte
della città con l’ingresso principale chiuso
con un lucchetto. Accanto, gremito di gente e con la porta spalancata, c’è il centro
per la detenzione di minori dove madri e
padri attendono notizie sulla sorte dei loro
figli arrestati per piccoli furti. L’edificio è
stato dipinto dello stesso color giallo paglierino della vecchia chiesa adiacente.
Passeggiando tra decine di negozietti improvvisati sul marciapiede, che vendono di
tutto, dalle infradito di plastica a coltelli di
tutte le taglie, si arriva sul lungomare. Proprio su una roccia, che poi è un piccolo
isolotto una trentina di metri a largo, i monaci hanno costruito, dieci anni fa, un monastero. Si attraversa un ponte pedonale
sospeso, che trema non poco, e poi si salgono numerosi scalini prima di giungere al
cuore dell’edificio dove si trova una grande
statua di Budda. Ai quattro angoli dell’edificio vi sono poi statue di divinità hindu, in
Venne fondato negli anni Cinquanta
perché c’era bisogno
di un luogo di cura e sostegno
per persone gravemente disabili
Non di internamento
no a servizio del prossimo, il Papa li ringraziò per «un rispetto e una dedizione
che umanizzano il nostro mondo tormentato e dilaniato».
Sono passati oltre trent’anni da
quell’incontro, 150 dalla nascita del più
grande organismo umanitario del pianeta e le parole di Wojtyła sono ancora valide. Croce rossa e Mezza luna rossa,
presenti in tutti i continenti, assistono
oggi milioni di persone e intervengono
nei contesti critici più disparati: dagli
scenari di guerra ai campi profughi, dai
Paesi colpiti da calamità naturali a quelli
martoriati da fame e malattia. E, al contempo, con un impagabile lavoro quotidiano, alleviano le piaghe nascoste della
società del benessere.
Dispiace quindi in modo particolare
apprendere quanto sta accadendo in Italia dove la Croce rossa nazionale, protagonista da quasi un secolo e mezzo di
azioni e piani umanitari encomiabili, sta
attraversando una crisi di natura economica che in alcuni contesti rischia di minare l’incisività della sua opera. Non è il
caso di addentrarsi qui in complesse
questioni giuridiche e di bilancio, ma va
ribadito che a rimetterci sono come sempre i più indifesi, persone e famiglie che
nella Croce rossa e nei suoi volontari
hanno trovato un’ancora di salvezza, la
garanzia di una vita dignitosa, la promessa di un futuro protetto.
Significativa è la vicenda del Centro
di educazione motoria (Cem) di Roma,
dove i dipendenti sono ancora della
Croce rossa, mentre la gestione dei servizi è passata all’azienda sanitaria regionale. Si tratta di un complesso di strutture
— centro di eccellenza per decenni — in
cui vivono oltre quaranta persone con
gravi disabilità e circa quindici trascorrono la giornata. Persone che vanno avvicinate e aiutate da mani esperte, con accortezze particolari e con quel rispetto e
quella dedizione di cui parlò a Ginevra
Giovanni Paolo II. Persone che oggi, a
causa dei numerosi licenziamenti che
hanno colpito i loro operatori di una vita, vengono esposte a disagi e incuria.
Emanuela, da sempre in carrozzina,
ha 32 anni e non parla. Sorride molto,
ama la musica e le carezze, ma, chissà
perché, odia bere. Se chi le sta accanto
non ha tempo calmo da dedicarle,
l’esperienza necessaria e soprattutto la
sua fiducia, può rifiutarsi di bere per intere giornate. Ed è quanto sta accadendo. Come lei ogni ospite del Cem vive
in questo frangente un aggravio di sofferenza che si ripercuote sulla sua famiglia
e carica il futuro di ulteriori penose incertezze.
Per Barbara, 40 anni, il Cem è una seconda casa e sua madre Maria pensava
con serenità al suo futuro là, anche un
domani, in sua assenza. La crisi del centro per molte famiglie ripropone la difficile questione del “dopo di noi” e, immancabilmente, apre una voragine di solitudine e smarrimento. E quest’anno per
la prima volta non si è potuta organizzare neanche la messa di Natale, da tutti
tanto attesa. «I nostri ragazzi — scrivono
in una nota i genitori — sono vittime di
un’economia che li fa scomparire, di un
diritto che premia il capriccio del più
forte».
Un paradosso se si pensa allo spirito
che ha dato vita al Cem negli anni Cinquanta. Si voleva un posto che fosse
centro di cura e di sostegno, non di internamento. Un posto dove relazioni interpersonali autentiche rappresentassero
un valore aggiunto. Un posto come tanti
altri creati in Italia e nel mondo dalla
Croce rossa, di cui oggi più che mai c’è
un disperato bisogno.
L’OSSERVATORE ROMANO
sabato 10 gennaio 2015
pagina 5
Era un uomo singolare
di grande e sottile intelligenza
Il cardinale Lustiger lo definì
il meno conformista e il più tradizionale
fra gli studiosi cattolici contemporanei
Le memorie di Louis Bouyer
Parresia
di un teologo scomodo
di PAOLO VIAN
veva un genio particolare
per i titoli Louis Bouyer
(1913-2004), pastore protestante divenuto cattolico nel 1939 e sacerdote
(1944), in quella congregazione
dell’Oratorio introdotta in Francia
da Pierre de Bérulle e restaurata da
Alphonse Gratry.
Un gusto evidente nelle sue opere
teologiche più celebri, le due trilogie
dogmatiche, quella “economica”, sul
disegno di salvezza, dalla creazione
alla redenzione (Le Trône de la Sagesse, 1957; L’Église de Dieu, 1970; Cosmos, 1982) e quella più propriamente teologica, sulle tre persone della
Trinità (Le Fils éternel, 1974; Le Père
invisible, 1976; Le Consolateur, 1980),
ma anche nelle opere letterarie pubblicate con gli pseudonimi di Jean
Thovenot, Guy Chardin, Louis
Lambert e Prospero Catella (Alceste,
1941; Les Eaux-belles, 1959; Prélude à
l’Apocalypse ou les derniers chevaliers
de l’Apocalypse, 1985; Les Hespérides,
1985). Semplice, quasi spoglio è invece il titolo delle sue memorie redatte negli anni Ottanta del secolo
scorso e ora pubblicate e puntualmente annotate dal suo exécuteur littéraire Jean Duchesne (Louis Bouyer,
Mémoires, postface et notes de Jean
Duchesne, Paris, Les Éditions du
Seuil, 2014, pagine 330). Ma il contenuto è fra i più avvincenti, davvero
quasi un romanzo.
Pendent opera interrupta, Laqueus
contritus est..., ... Et nos liberati sumus, Finita jam sum proelia. I quattordici capitoli accompagnano il lettore lungo la vita di Bouyer, dall’infanzia felice alla formazione alla
Sorbona e nelle facoltà teologiche
A
protestanti di Parigi e Strasburgo, al
ministero in una parrocchia luterana
parigina della rive gauche — il ministero fu sempre per lui una necessaria verifica e applicazione della ricerca teologica, per evitare di evaporare
nell’astrazione — sino all’approdo
nella Chiesa cattolica.
La scelta di divenire prete nella
singolare congregazione voluta da
quel paradossale santo che fu Filippo Neri — semplici preti che vivono
in comune, a metà strada fra vita canonicale e vita religiosa — fu certo
favorita dalla lunga consuetudine di
Bouyer con i Padri della Chiesa e
con John Henry Newman ma, più in
profondità, fu una trasparente opzio-
ne per la tradizione ecclesiale tout
court, quella della bimillenaria Grande Chiesa, senza asfittici particolarismi di scuole e Ordini. A questa
scelta Bouyer rimase sempre fedele
contribuendo come pochi al ressourcement, il ritorno alle fonti della Bibbia, dei Padri, della liturgia.
Docente (sino al 1963) di storia
della spiritualità all’Institut Catholique di Parigi, coltivò in modo particolare i rapporti col mondo anglofono (anglicano, protestante e cattolico), fra Inghilterra e Stati Uniti (ove
fu molto legato all’università di Notre Dame, nell’Indiana, e negli ultimi anni a San Francisco). Ma fu
sensibile anche alla voce dell’orto-
Coraggio intellettuale
Bouyer — sul quale, nel decimo anniversario della morte,
l’Institut Catholique di Parigi e il Collège des Bernardins hanno
organizzato un convegno internazionale nello scorso ottobre,
mentre «Gregorianum» dedica oltre la metà dell’ultimo fascicolo
(95, 2014, pp. 675-799) — conobbe e incontrò ripetutamente
Joseph Ratzinger, del quale fu collega nei primi due
quinquennati (1969-1974, 1974-1979) della Commissione Teologica
Internazionale. Nei suoi ricordi, scritti negli anni Ottanta,
dunque ben prima del 2005, compare anche il teologo bavarese:
Paolo VI «ci domandò di riflettere su alcuni temi di attualità,
come il ministero sacerdotale o il pluralismo teologico nella
Chiesa. Noi producemmo in proposito diversi compendi delle
più serie ricerche contemporanee. La chiarezza di visione, la
larghissima informazione, il coraggio intellettuale e nello stesso
tempo il giudizio penetrante di Joseph Ratzinger si distinsero in
modo particolare (...) come il suo humour pieno di gentilezza,
ma non facile da ingannare. Seduto durante le riunioni spesso
fra lui e Hans Urs von Balthasar, confesso che i nostri personali
commenti mi aiutarono molto a sostenere i discorsi intemperanti
di alcuni nostri colleghi e le sottili dispute di altri». (paolo vian)
dossia, inizialmente incontrata nella e dallo sconforto. Tutti coloro che
vivace emigrazione russa a Parigi e hanno avuto una parte nella ricerca
in Francia (l’Institut Saint-Serge, teologica, ecumenica, spirituale del
Sergej Bulgakov, Vladimir Lossky; secolo scorso compaiono, con ritratti
ma poi anche Louis/Lev Gillet, il più o meno brevi, notazioni e pen«monaco della Chiesa d’Oriente», e nellate sempre efficaci e incisive: dai
i circoli di Meudon), spendendosi benedettini Lambert Beauduin e
generosamente nell’educazione, nella Bernard Botte ai gesuiti Léonce de
cura pastorale, nell’insegnamento, Grandmaison, Jules Lebreton e Yves
anche itinerante, e in un’eccezional- de Montcheuil, ai domenicani Chrimente prolifica e poliedrica attività stophe-Jean Dumont — per quasi
di scrittura che lo condusse a sten- mezzo secolo direttore del centro
dere saggi teologici e romanzi, ma anche a rivisitare figure a lui congeniali —
Nonostante fosse scettico sull’utilità
da san Filippo a Newman,
da Tommaso Moro a Eradelle commissioni
smo da Rotterdam — scrifu chiamato a partecipare
vendo di icone e di figure
mistiche femminili, del rapalla commissione preparatoria
porto fra architettura e liper gli studi del Vaticano II
turgia e del senso della vita
sacerdotale e monastica.
Lui, così inguaribilmente
scettico sui frutti dei lavori delle
commissioni, fu chiamato a partecipare al Vaticano II nella commissione preparatoria per gli studi e poi
all’applicazione della riforma liturgica. Membro (1969, 1974) della Commissione Teologica Internazionale,
tra i fondatori della rivista Communio
(1972), fece anche parte (1979) della
commissione mista per il dialogo
teologico fra cattolici e ortodossi.
Conservando sempre, nei diversi incarichi, un’autonomia di valutazioni
che lo rese talvolta un personaggio
scomodo ma che ha radice nella parrèsia neotestamentaria.
Nelle sue pagine colpiscono la libertà e la lucidità dei giudizi — talvolta taglienti — la mancanza di falsi
riguardi, il ripudio di reticenze ed
eufemismi, ma anche l’humour che le
pervade preservandole dall’amarezza
ecumenico Istina, fondato dal suo
Ordine per promuovere gli studi
russi e gli incontri col mondo slavo
— Pie Duployé e Aimon-Marie Roguet e al Centre de pastorale liturgique, sino ai più noti nouveaux théologiens poi divenuti figure di spicco
della Chiesa post-conciliare (Congar,
Daniélou, de Lubac, ma anche von
Balthasar e Ratzinger, mentre mai
viene ricordato Chenu). Un viaggio
dunque nel Novecento teologico e
conciliare — e nel genus irritabile dei
teologi — nei movimenti biblico,
ecumenico e liturgico che lo hanno
attraversato e fecondato, ma anche
nella letteratura alla quale Bouyer si
mostrò sempre attentissimo (da Péguy a Huysmans, da Eliot a Tolkien,
da Green a Goudge).
Al termine del volume si comprende meglio quest’uomo singolare,
a tratti forse difficile, di grande e
sottile intelligenza, «il meno conformista e il più tradizionale» dei teologi cattolici contemporanei, come
un giorno ebbe a definirlo il cardinale Jean-Marie Lustiger.
E la cifra della sua vita appare in
ultima analisi e semplicemente nella
fedeltà alla tradizione della Chiesa e,
al tempo stesso, nella sua apertura
veramente cattolica ed ecumenica,
capace di cogliere e sintetizzare il
meglio da mondi e culture diverse e
lontane, dal protestantesimo tedesco
e anglofono all’ortodossia. E poi nel
coraggio e nell’aperta militanza che
gli fecero assumere spesso posizioni
minoritarie e controcorrente. Ma —
nuovamente la paradossale coincidenza degli opposti che caratterizza
già san Filippo — coltivando sempre
un desiderio di vita nascosta, un
anelito alla vocazione monastica mai
vissuta sino in fondo ma continuamente amata e desiderata; avrebbe
voluto chiudere gli occhi nell’abbazia normanna di Saint-Wandrille ma
le condizioni di salute lo costrinsero
nel 1998 a trasferirsi nella casa parigina delle Piccole suore dei poveri,
ove morì.
È la confessione delle ultime frasi
dei Mémoires, quando Bouyer ricorda
la cura con cui ha evitato le cariche,
un genere di vita per il quale non si
sentiva tagliato. Rimanendo così libero di comporre l’opera «buona o
mediocre, di cui ero capace», comunque felice in quella vie privée di
cui Jean La Fontaine — dal 1641 per
diciotto mesi novizio dell’Oratorio —
scriveva: «Per vivere felici, viviamo
nascosti». Ove la saggezza della
massima epicurea del lathe biòsas viene assunta e trasfigurata dall’ammonimento evangelico di Matteo, 6, 6.
Per una storia della tutela delle opere d’arte
Venerdì 9 gennaio, presso l’Accademia dei
Lincei, il direttore dei Musei Vaticani ha
tenuto un intervento nell’ambito della conferenza sul tema «La Tutela del patrimonio culturale in Italia, storia e prospettive». Ne pubblichiamo uno stralcio.
di ANTONIO PAOLUCCI
È un Paese, l’Italia, che ha conosciuto
relativamente tardi l’unità politica e
quindi la centralizzazione della sua amministrazione. È un Paese che non ha
sperimentato o ha sperimentato solo
marginalmente le dispersioni e le distruzioni del patrimonio, soprattutto ecclesiastico, provocate dalle grandi rivoluzioni della modernità e che ha mantenuto più a lungo che altrove in Europa
assetti sociali e forme culturali tradizionaliste.
Questo spiega perché, sotto il cielo
d’Italia, il patrimonio storico e culturale
si sia conservato più e meglio che altrove e perché abbia le caratteristiche di
varietà, pluralità, diffusione che lo fa
unico e invidiato nel mondo. Una cosa
va affermata con forza. Sono stati gli
italiani a inventare il concetto stesso di
tutela, a dare a esso forma giuridica, a
istituire le prime normative.
Potremmo partire da quel 1162 quando una deliberazione del Senato capitolino ordina la conservazione in aeternum
della Colonna Traiana perché essa è
«onore del popolo romano». Potremmo
ricordare la politica dei Papi del Rinascimento che si considerano legittimi
eredi e quindi i provvidenziali custodi
delle testimonianze dell’antichità classica, secondo un concetto di continuità
storica che saldava l’imperium di Augusto e di Traiano all’imperium sine fine
della Chiesa romano-cattolica.
Nel 1483 Sisto IV consegna al popolo
romano perché li custodisca nel suo
museo i signa imperii, le opere d’arte
emblematiche della storia di Roma: la
lupa, lo Spinario, l’Ercole dorato, la te-
Prima dell’Italia
sta colossale di Costantino. È l’atto di
nascita dei Musei che oggi chiamiamo
Capitolini ed è il primo atto politico
fondativo di museo pubblico nel mondo. Ed è ancora Sisto IV della Rovere
ad affermare per la prima volta — con
un atto sovrano — il concetto che la potestà prescrittiva e normativa sui beni
culturali deve essere affidata alla competenza tecnica. Questo accade quando
il Papa offre a Bartolomeo Sacchi detto
il Platina, illustre filologo e bibliofilo, la
direzione della Biblioteca Apostolica.
Non diversamente si comporterà Leone
X Medici quando, in un breve del
1515, nomina Raffaello praefectus
marmorum et lapidorum, in pratica soprintendente alle antichità di Roma. Il massimo
della qualità professionale e
della competenza tecnica
per il meglio dei tesori superstiti della storia romana.
La
normativa
tutelare
pontificia produrrà infine nel
1820, regnando Pio VII Chiaramonti, l’editto del cardinale
camerlengo Bartolomeo Pacca,
una legge che è l’atto germinale della futura legislazione italiana e nella
quale si afferma il principio (ancora oggi asse portante della moderna cultura
della tutela) del diritto dello Stato alla
conoscenza e alla conservazione del
patrimonio ovunque distribuito e comunque posseduto.
Anche negli altri Stati preunitari
molto forte è stata l’attenzione alla
tutela del patrimonio. Così a Firenze
dove l’Accademia delle Arti del Disegno svolge il ruolo di Soprintendenza
Regionale e proibisce l’esportazione dei
pittori che Giorgio Vasari chiamava «i
maestri dei maestri». Così a Venezia dove il Consiglio dei Dieci incarica lo sto-
rico dell’arte Antonio Maria Zanetti
(siamo negli ultimi anni della Repubblica) di censire le opere d’arte custodite
negli enti ecclesiastici e nelle dimore
private. È la prima forma istituzionale
del catalogo pubblico del patrimonio.
Dopo il periodo di dispersione del
patrimonio provocato dalle demanializzazioni unitarie per arrivare alla prima
legge nazionale di tutela bisogna attendere la Rava-Rosadi del 1909, che fa da
apripista alla 1089 di Giuseppe Bottai,
ministro dell’Educazione nazionale dal
1936 al 1943. Dobbiamo a Bottai l’ordinamento del sistema delle
«Spinario» (particolare,
III-I
Soprintendenze, l’istituzione dell’Ufficio
Centrale del Catalogo e dell’Ufficio
Centrale del Restauro. Suoi consulenti
sono Giulio Carlo Argan, Roberto Longhi, Cesare Brandi. Fondamentale è
dunque il ruolo degli storici dell’arte.
La Bottai 1089 del 1939 è un capolavoro di sapienza giuridica, ma è pensata
per l’Italia del 1939, un Paese povero e
statico, fortemente centralizzato, un
Paese di notabili, con una modesta classe borghese e vaste masse rurali. Si capisce come quella legge, che è ancora
vigente, risultasse di fatto inadeguata
davanti alle mutazioni economiche, sociali, politiche che hanno attraversato
l’Italia dal dopoguerra in poi.
La Costituzione repubblicana del 1948 ha portato al famoso articolo 9 «la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio
storico e artistico
della
Nazione».
Quando i costi-
secolo prima dell’era cristiana, Roma, Musei Capitolini)
tuenti hanno licenziato l’articolo avevano un’idea centralistica della pubblica
amministrazione. Valeva ancora, per loro, l’ordinamento che sta dietro la Legge Bottai. Solo in tempi recenti le regioni e gli enti locali hanno assunto le autonomie e hanno rivendicato le potestà
di cui oggi dispongono. Ed ecco, nel
2001, la riforma del titolo V. Lo Stato
non è più soltanto l’amministrazione
centrale ma è anche le Regioni le quali
hanno preteso spazi e competenze nel
settore dei Beni culturali. Si è arrivati
così al regime di legislazione concorren-
La normativa pontificia
produce nel 1820 con Pio VII
l’editto del camerlengo Bartolomeo Pacca
Atto germinale
della futura legislazione italiana
te che il Codice Urbani del 2004 teorizza e norma e che può essere stretto nella formula «la tutela allo Stato, la valorizzazione alle Regioni». Il fatto è che
tutela e valorizzazione fanno un binomio che può facilmente trasformarsi in
un ossimoro, in una contraddizione in
termini. E infatti quante devastazioni si
sono fatte in nome della valorizzazione.
Quello che l’Italia moderna non è
riuscita a salvare è stato il paesaggio. Di
fronte alla travolgente mutazione che ha
attraversato il nostro Paese, di fronte alle grandiose migrazioni interne, a una
edilizia travolgente e incontrollata che
ha consumato un’enorme quantità di
terreno agricolo, le leggi vigenti sono
diventate strumenti inefficaci. Il risultato è che l’Italia ha ancora le opere d’arte nei musei, ha ancora più o meno
conservati i centri storici medioevali e
rinascimentali, ma non ha più o quasi
più, il paesaggio.
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 6
sabato 10 gennaio 2015
Sussidio dell’episcopato di Inghilterra e Galles
Idee
per il sinodo sulla famiglia
Al «Sicomoro» di Como un’originale esperienza di pastorale vocazionale
Con un prete
e una coppia di sposi
di MICHELE GIANOLA
Il Catechismo della Chiesa cattolica
insegna che l’ordine e il matrimonio sono sacramenti che «se contribuiscono anche alla salvezza personale, questo avviene attraverso il
servizio degli altri». Come dire che
chi diventa prete e chi si sposa realizza la propria vocazione, trova
pienezza di vita, gode i frutti della
grazia
soltanto
impiegandosi
nell’opera per la quale ha ricevuto
il sacramento, la sua identità e la
sua missione: far crescere ed edificare il popolo di Dio. La sinergia
tra il prete e la coppia di sposi presente al “Sicomoro” offre a quest’opera, dedita a coltivare i germi
di vocazioni presenti nei giovani e
negli adolescenti, un terreno ancora
più fertile: il clima familiare e fraterno che si crea all’interno della
comunità, le relazioni di amicizia e
di scambio fecondo costruite all’interno dell’équipe, lo sguardo educativo reso ancor più completo dalla presenza femminile, la maggiore
sintonia indotta nelle famiglie dei
ragazzi dalla presenza di due sposi
sono soltanto alcuni dei pregi e
delle potenzialità di questa scelta.
Le coppie vengono individuate
— al momento senza particolari difficoltà — a partire dal confronto
con il presbiterio locale, attraverso
alcuni incontri previ da parte del
responsabile del progetto e scelti
con nomina ufficiale del vescovo
che affida all’intera équipe la formazione dei seminaristi. Sono uomini e donne credenti, di qualche
anno più adulti dei genitori dei ragazzi non solo per evitare una
qualsivoglia forma di identificazione, peraltro mai avvenuta, ma anche per godere della sapienza pratica di chi vive una stagione della
vita nella quale ha già saputo far
crescere. Tra questi qualcuno lavora, altri sono in pensione, tutti
hanno figli già grandi che hanno
compiuto le loro scelte di vita (nel
matrimonio e nel presbiterato) o
che ancora vivono in casa e sono
coinvolti nella decisione dei loro
genitori di dedicare un tempo cospicuo alla crescita di altri “fratelli”
più giovani. Grazie alla presenza
della coppia, la relazione con le famiglie dei ragazzi percorre anche
canali informali: abitando tutti lo
stesso territorio è normale scambiare quattro chiacchiere “tra genitori”
quando ci si incontra per strada o
al supermercato e far crescere quelle fondamentali relazioni di autentica collaborazione.
Meno che in altre zone d’Italia
ma anche sulle terrazze delle pendici retiche della Valtellina crescono viti che danno un ottimo prodotto e ogni viticoltore o appassionato del frutto della vigna sa bene
che uno stesso vitigno può portare
a vini differenti in relazione al luogo e alle modalità in cui viene coltivato. Anche il “Sicomoro” è così
e, sebbene abbia una struttura propria, un progetto e un’identità comune, cresce e matura a partire dal
contesto nel quale viene seminato.
Iniziare una nuova comunità è
un’operazione corale che interessa
il presbiterio locale, i consigli pastorali del territorio, le famiglie dei
ragazzi interessati al progetto. La
proposta non viene quindi percepita come un’iniziativa estrinseca ma
è assunta e curata come propria. A
inizio anno ciascuna delle équipe
calibra — nel confronto costante
con l’animatore vocazionale del seminario, responsabile del progetto
— il percorso formativo comune secondo le esigenze e le caratteristiche della propria comunità.
Durante la settimana i ragazzi
sono invitati ad avere un colloquio
personale con il sacerdote responsabile per verificare il proprio cammino di fede e discernere il progressivo orientamento vocazionale.
A tale discernimento intervengono
— in foro esterno — anche la coppia
di sposi e il responsabile del progetto che, in ultima istanza, accoglie o decide l’eventuale dimissione
dei ragazzi dal percorso formativo.
Agli adolescenti che decidono di
iniziare il percorso e prima della
Proposta
innovativa
D all’ultimo numero
della «Rivista del Clero
Italiano» pubblichiamo
stralci di un articolo in
cui il direttore del
servizio per le vocazioni
della diocesi di Como
presenta l’originale
esperienza del
«Sicomoro», comunità
nella quale, per una
settimana al mese, alcuni
ragazzi sono
accompagnati nel loro
cammino di crescita
vocazionale: una forma
innovativa dell’antico
seminario minore.
loro accoglienza formale da parte
del responsabile del progetto si domanda che l’intenzione sia seria:
non è possibile frequentare una settimana in prova ma si chiede che la
scelta comporti l’adesione a tutto il
cammino annuale. Evidentemente,
la libertà di interrompere il cammino in qualsiasi momento è garantita a tutti; in questi anni nessuno ha
lasciato l’itinerario durante l’anno,
alcuni hanno compreso che il loro
orientamento vocazionale si indirizza verso altre prospettive e hanno
compiuto altre scelte, qualcuno è
stato invitato a interrompere l’esperienza per il venir meno delle condizioni essenziali (il desiderio di
conoscere la propria vocazione e
l’accoglienza del percorso vocazionale del seminario) per il cammino
insieme. Il legame con il territorio
consente di accompagnare i ragazzi
nel loro cammino di fede anche
durante le altre tre settimane in cui
la vita trascorre in famiglia. Chi vive al “Sicomoro” sa che in un mese
ci sono quattro settimane e anche a
casa si può pregare, studiare, mettersi al servizio, stare con gli altri,
frequentare le attività della propria
parrocchia e trovare un momento
di confronto con il “don”. Il colloquio con le famiglie, mantenuto
costantemente dalla équipe e in tre
incontri annuali con la presenza
anche del responsabile del progetto, oltre a offrire a tutti elementi
utili per la crescita dei ragazzi, sviluppa piacevoli relazioni di amicizia, di confronto e di condivisione
anche tra gli adulti.
LONDRA, 9. S’intitola The Call, the
Journey and the Mission (“La vocazione, il viaggio, la missione”) il
sussidio pubblicato dalla Conferenza episcopale d’Inghilterra e Galles
in vista della quattordicesima assemblea generale ordinaria del Sinodo
dei vescovi in programma nell’ottobre 2015. Un ulteriore invito — che
dunque si affianca al questionario
diffuso nelle scorse settimane dalla
segretaria generale del sinodo — a
riflettere sul dono del matrimonio e
della famiglia in un contesto fortemente secolarizzato.
L’iniziativa, diffusa nei giorni
scorsi nel clima delle festività natalizie, scaturisce dall’esortazione rivolta lo scorso 18 ottobre da Papa
Francesco a maturare le proposte e
le idee scaturite dal Sinodo straordinario dei vescovi e a trovare soluzioni concrete alle tante difficoltà e sfide che le famiglie devono affrontare
oggi, con un «vero discernimento
spirituale». I vescovi inglesi e gallesi
invitano quindi i fedeli a pregare
perché lo Spirito Santo aiuti la
Chiesa in questo cammino di discernimento, ma anche a riflettere individualmente e in gruppo su queste
sfide e su come rafforzare la famiglia oggi.
Il sussidio propone come iniziali
spunti di riflessione sette storie
esemplari riferite dalla Bibbia: da
quella sulla fede di Abramo e Sara
nella Genesi, all’Annunciazione raccontata nel Vangelo di Luca, alle
Nozze di Cana, all’incontro dei discepoli sulla strada verso Emmaus.
Così, dopo avere passato in rassegna gli insegnamenti fondamentali
della Chiesa sul matrimonio cristiano quale unione sacramentale di
amore fedele e per sempre tra un
uomo e una donna, ordinata al bene
dei coniugi e alla procreazione e
sulla famiglia quale cellula fondamentale della società, il sussidio
propone una lista di domande su
cui riflettere, prendendo spunto dalle parole del Santo Padre: quali sono le gioie e le speranze delle nostre
famiglie oggi? Quali le nostre difficoltà e paure? Quale è la vocazione
della famiglia? Come arricchisce
ognuno di noi e chi ci circonda? In
che modo le nostre famiglie, con la
presenza costante di Dio, sono «sale
della terra e luce del mondo?».
Nel sussidio, infine, viene riproposto anche un brano dell’intervento pronunciato da Papa Francesco il
27 ottobre 2013. Occasione in cui il
Pontefice ha invocato la santa famiglia di Nazaret perché ridesti «nella
nostra società la consapevolezza del
carattere sacro e inviolabile della famiglia, bene inestimabile e insostituibile» e perché «ogni famiglia sia
dimora accogliente di bontà e di pace per i bambini e per gli anziani,
per chi è malato e solo, per chi è
povero e bisognoso».
Il sussidio sulla famiglia si innesta all’interno dell’articolata opera
pastorale già messa in campo
dall’episcopato di Inghilterra e Galles per il 2015. L’iniziativa più importante si chiama “Proclaim ’15” ed
ha l’obiettivo di incoraggiare nuove
espressioni di «evangelizzazione segnate dalla gioia», di cui parla Papa
Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium. Il progetto,
lanciato nelle scorse settimane dal
presidente dell’episcopato, l’arcivescovo di Westminster, cardinale Vincent Gerard Nichols, prende il via
proprio in questi giorni ed è destinato nel corso dell’intero anno a
coinvolgere tutte le ventidue diocesi
cattoliche. Soprattutto, l’iniziativa —
una vera e propria campagna nazionale — intende imprimere una svolta
nei metodi di evangelizzazione attraverso un’accurata opera di sensibilizzazione rivolta all’intero popolo
di Dio — sacerdoti, religiosi e laici —
sul valore del “proclamare” la gioia
del Vangelo. «Il progetto è volto alla pianificazione e alla realizzazione
di una fruttuosa evangelizzazione
parrocchiale per aiutare noi tutti a
essere migliori discepoli missionari»,
ha spiegato il cardinale Nichols.
“Proclaim ’15” prevede la distribuzione di materiale informativo e di
opuscoli formativi alle parrocchie, la
realizzazione di eventi a livello locale e l’organizzazione di una Conferenza nazionale sull’evangelizzazione già fissata a Birmingham per l’11
luglio prossimo, alla quale è attesa
la partecipazione di oltre 800 rappresentanti delle varie diocesi. L’iniziativa punta a sostenere e incoraggiare nuove espressioni di evangelizzazione
parrocchiale,
segnate
dall’entusiasmo e dalla gioia di condividere i contenuti della fede. Una
risposta all’invito che Papa Francesco ha espresso con semplicità sin
dalle prime righe dell’Evangelii gaudium: «Desidero indirizzarmi ai fedeli cristiani, per invitarli a una
nuova tappa evangelizzatrice marcata da questa gioia e indicare vie per
il cammino della Chiesa nei prossimi anni».
Progetto della Cei in vista del convegno ecclesiale di novembre
Caritas Serbia in aiuto degli ortodossi colpiti dalle alluvioni
Una casa
alla periferia di Firenze
Ecumenismo
della solidarietà
FIRENZE, 9. «Con il progetto della
Casa della carità il convegno di Firenze è già iniziato». È quanto ha
detto il vescovo Nunzio Galantino,
segretario generale della Conferenza episcopale italiana (Cei), per
sottolineare l’importanza attribuita
a un’opera di concreta solidarietà
nello sviluppo dei lavori del quinto
convegno ecclesiale nazionale in
programma nel capoluogo toscano
dal 9 al 13 novembre prossimi sul
tema «In Gesù Cristo il nuovo
umanesimo».
La realizzazione di una casa della carità — il cui progetto è stato
presentato ieri da monsignor Galantino e dal cardinale arcivescovo
di Firenze, Giuseppe Betori — sarà
appunto il primo passo verso questo importante appuntamento ecclesiale. Si tratta di una realizzazio-
ne concreta e permanente in aiuto
delle fasce più deboli della popolazione, che nascerà alla periferia di
Firenze, a Novoli, il quartiere più
popoloso e con la più alta incidenza di anziani, per venire incontro
alla carenza di servizi e di housing
sociale.
Per il segretario generale della
Cei, «questo condominio solidale,
insieme alla serie dei contributi
provenienti da tutta Italia che raccontano esperienze di umanesimo
concreto, aiuta a svecchiare l’immagine di convegno e a dare l’esatta
percezione di questo importante
appuntamento dei cattolici italiani:
inventare forme nuove del vivere
insieme, ispirate dal Vangelo. Anche la stessa dinamica dell’abitare
cambia di segno se c’è di mezzo
l’umanità che Gesù Cristo ci ha
svelato». Non sarà quindi «un convenire intorno a un tema, ma a una
esperienza, mettendoci alla ricerca
dei casi in cui questo umanesimo
non è riuscito. Mentre quest’opera
che nascerà alla periferia fiorentina
di Novoli è una risposta: è umanesimo riuscito». La casa della carità
ospiterà un centro diurno per anziani, una mensa, 18 mini appartamenti, un centro di accoglienza per
emergenze abitative, un asilo e una
comunità di suore. Per la Chiesa
locale, ha detto il cardinale Betori,
questa casa «significa implementare
un’attenzione concreta, che già esiste, verso chi vive ai margini della
società, a partire dalle persone anziane a cui ridare cittadinanza».
ROMA, 9. Circa due milioni e
mezzo di euro sono stati stanziati
dalla Caritas a favore delle popolazioni dell’area dei Balcani colpite lo scorso anno dalle alluvioni.
In Serbia e in Bosnia-Erzegovina
le abbondanti piogge hanno provocato la morte di decine di persone, interi villaggi e aree rurali
sono stati sommersi dalle acque,
migliaia di abitazioni sono risultate inagibili e i trasporti interrotti.
Grazie al sostegno dei volontari
della Caritas e all’impegno per un
ecumenismo della solidarietà le
comunità locali hanno saputo reagire. «Da soli non ce l’avremmo
fatta», ha raccontato al Sir Zarko
Kovacevic, agricoltore di 50 anni
che abita a Mrdenovac, provincia
di Sabac. La terra e il bestiame
hanno sempre assicurato a lui e
alla famiglia di che vivere ma, ricorda, l’acqua ha distrutto tutto in
soli 15 minuti: «Il fiume ha invaso
il cortile e la casa e siamo dovuti
fuggire». La famiglia Kovacevic è
rimasta ospite di amici per diverse
settimane. Poi, all’inizio di ottobre, è iniziata la ricostruzione della casa. «Grazie all’aiuto della Caritas ho avuto il materiale da costruzione — spiega l’agricoltore —
e abbiamo ricevuto anche un aiuto dallo Stato ma molto modesto». L’intervento della Caritas ha
rappresentato tantissimo, «anche
perché — spiega Zarko — è arrivato quando nessun’altra organizzazione avrebbe potuto farlo».
L’aiuto della Caritas alle persone colpite dalle alluvioni nella
provincia di Sabac ammonta a
400.000 euro, mentre per l’intera
Serbia la somma sale a più di due
milioni di euro fino a questo momento. Dall’inizio dell’emergenza
i volontari sono stati in prima linea distribuendo cibo, vestiti e coperte. Sono stati donati migliaia
di kit igienici, pompe di drenaggio, tonnellate di foraggio per animali.
«Tra poco — spiega il coordinatore nazionale della Caritas Serbia, Darko Tot — sarà terminato
anche il progetto di ricostruzione
delle case». Con l’arrivo dell’inverno sono stati distribuiti materiali per il riscaldamento, stufe
elettriche, frigoriferi e lavatrici. La
situazione ora sembra sotto controllo. «I cattolici nelle zone colpite sono stati pochissimi — chiarisce Tot — per questo il 99 per
cento dei destinatari del nostro
aiuto sono ortodossi». Un fatto
che non è passato inosservato,
tant’è che il vescovo ortodosso di
Sabac, Lavrentije Trifunovic, ha
espresso «grande gratitudine ai
fratelli cattolici dai quali possiamo
imparare molto nel servizio di carità per il prossimo. Questo esempio di applicazione della fede nella vita ci spinge a imitarli e a non
dimenticare i poveri». Secondo
l’arcivescovo di Belgrado, monsignor Stanislav Hočevar, «la carità
di Cristo ha spinto a non rimanere ciechi e sordi di fronte ai bisogni degli altri e a cercare l’unità
nella diversità».
L’OSSERVATORE ROMANO
sabato 10 gennaio 2015
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Incontro in Vaticano a cinque anni dal terremoto che ha devastato il Paese
La memoria del disastro di Haiti
per rilanciare gli aiuti
Il cardinale Ezzati Andrello ai partecipanti alla Misión País
È la vita
il dono più grande
SANTIAGO DEL CILE, 9. «La vita è il
dono più grande che abbiamo e il
dono più grande di cui dobbiamo
prenderci cura. Se non c’è vita, non
c’è nessun altro diritto che meriti
sostegno». È quanto ha dichiarato
il cardinale Ricardo Ezzati Andrello, arcivescovo di Santiago del Cile,
durante la messa di invio missione
(Misión País) di 2.500 giovani cattolici celebrata nei giorni scorsi nel
santuario nazionale di Maipú.
Il porporato, rivolgendosi ai giovani della Pontificia Università Cattolica del Cile, ha ricordato l’annuncio del Governo di voler inviare
al Congresso un progetto di depenalizzazione dell’aborto in caso di
violenza sessuale e pericolo per la
salute della madre e del feto. «Noi
— ha detto il cardinale — crediamo
e professiamo che la vita è un dono
di Dio e che tutti dobbiamo prenderci cura della vita».
Durante la messa, l’arcivescovo
di Santiago del Cile ha manifestato
un’altra preoccupazione della Chiesa che riguarda la riforma scolastica. «Spero, come ho detto sempre,
In Perú
un ministero
a tutela
della famiglia
LIMA, 9. L’arcivescovo di Lima,
cardinale Juan Luis Cipriani
Thorne, ha proposto la creazione
di un ministero della famiglia per
tutelare le relazioni umane tra genitori e figli, promuovere l’educazione civica e combattere l’individualismo malsano. «Lo schema
sociale attuale — ha spiegato il
cardinale — prevede che il marito
rientri stanchissimo la sera ed esca
presto la mattina. E la moglie anche. Dobbiamo fare in modo di
favorire l’incontro nella famiglia.
Dobbiamo far sì che nel 2015 la
famiglia faccia un passo avanti».
Il cardinale ha suggerito di dare
alle famiglie numerose la possibilità di detrarre le tasse. Inoltre, ha
puntato l’attenzione sulla tutela
della famiglia. «Dobbiamo vedere
come aiutare e proteggere l’arrivo
di una nuova vita in famiglia, del
nascituro indifeso. «Si potrebbe
creare un ministero perché ci sono
uomini, donne, bambini e giovani.
Ogni volta che c’è un attacco alla
famiglia, questa istanza dello Stato
potrà dire che si sta maltrattando
la famiglia e si stanno limitando i
diritti e i doveri della famiglia».
Infine, il porporato ha ricordato
che «l’individualismo malaticcio
va contro la felicità, la pace e la
prosperità che tutti cerchiamo.
Non c’è benessere possibile su
un’isola. Questo individualismo —
ha concluso — ha creato molti
danni nella politica, nell’economia, nel Governo e tra la gente».
che la riforma, che è necessaria e
che deve essere un bene per il Paese lo sia veramente e che intervengano soprattutto la coscienza, l’intelligenza, la saggezza pedagogica
per fare dell’istruzione un vero percorso di crescita per tutti».
Infine, il cardinale ha espresso
soddisfazione per i tanti giovani
che hanno preso parte alla messa di
invio missione. «È molto bello che
tanti giovani trascorrano parte del
loro tempo gli uni con gli altri. È
un segno di ciò che siamo chiamati
a costruire: un Paese di grande fraternità, un Paese — ha concluso —
fatto di persone molto felici e solidali impegnate ad aiutare coloro
che ne hanno bisogno».
La Misión País — promossa dalla
pastorale della Pontificia Università
Cattolica — coinvolgerà numerose
città. «Condividiamo la nostra fede
— ha spiegato Christopher Maturana, direttore nazionale di Misión
País — attraverso laboratori ricreativi, artigianato e giochi tra le comunità. Il tutto è focalizzato sulla trasmissione dei valori cattolici».
Si terrà in Vaticano domani, sabato,
presso la sala di Palazzo San Pio X,
la conferenza dal titolo «La comunione della Chiesa: memoria e speranza per Haiti a cinque anni del
terremoto», organizzata dal Pontificio Consiglio “Cor Unum” e dalla
Pontificia Commissione per l’America Latina, in collaborazione con i
vescovi di Haiti. L’incontro si svolge a seguito di un desiderio di Papa Francesco e ha lo scopo di mantenere viva l’attenzione su un Paese
che ancora soffre per le conseguenze di quella catastrofe e di ribadire
la vicinanza della Chiesa al popolo
haitiano in questa fase di ricostruzione. Sarà soprattutto l’occasione
per fare un bilancio degli aiuti destinati ad Haiti, nonché per analizzare i risultati della implementazione dei progetti realizzati dal 2010 a
oggi. All’incontro prenderanno parte i rappresentanti della Santa Sede, della Chiesa locale haitiana e di
alcune Conferenze episcopali, operatori degli organismi di carità cattolici, congregazioni religiose, e vari
rappresentanti diplomatici accreditati presso la Santa Sede.
Alle ore 9, dopo il saluto di benvenuto del cardinale Marc Ouellet,
presidente della Pontificia Commissione per l’America Latina, e la relazione introduttiva del cardinale
Robert Sarah, che, da presidente di
“Cor Unum” fino alla fine del 2014,
ha curato la gestione dei doni del
Santo Padre per la Chiesa locale
dell’isola, una prima parte della
conferenza sarà dedicata a «Uno
sguardo complessivo sul processo
di ricostruzione materiale e spirituale». In questa sessione prenderanno
la parola il cardinale Chibly Langlois, vescovo di Les Cayes e presidente della Conferenza episcopale
di Haiti; monsignor Thomas Gerald Wenski, arcivescovo di Miami;
Alberto Piatti, presidente della Fondazione Avsi (Associazione volontari solidarietà internazionale), che
gestisce alcune opere di carità
sull’isola; infine Eduardo Marques
de Almeida, già rappresentante della Banca Inter-Americana dello sviluppo ad Haiti. Alle 11.30 i delegati
presenti saranno ricevuti in udienza
da Papa Francesco presso il Palazzo
Apostolico.
Nel pomeriggio sarà dato spazio
alle testimonianze di quanti operano nel contesto della ricostruzione:
i presenti potranno perciò condividere le esperienze di cooperazione
internazionale sorte a seguito del
terremoto e avere uno spazio comune di discussione e dibattito riguardo a criteri di azione e priorità per
il futuro. Al termine dei lavori
monsignor Giampietro Dal Toso,
segretario del Pontificio Consiglio
“Cor Unum”, terrà una sintesi
conclusiva che metterà in evidenza
le problematiche ancora aperte e le
prospettive da affrontare nel prossimo futuro. Alle 18.30, nella Chiesa
di Santa Maria in Traspontina il segretario di Stato, cardinale Pietro
Parolin, presiederà la celebrazione
eucaristica
a
chiusura
della
giornata.
Il terremoto che colpì nel gennaio 2010 l’isola di Haiti, sviluppatosi nelle vicinanze della capitale,
Port-au-Prince, devastò gran parte
del territorio e causò circa 230 mila
morti. Le stime della Croce Rossa
Internazionale e delle Nazioni Unite, tuttavia, parlano di quasi 3 milioni di persone effettivamente coinvolte dal sisma. Il terremoto distrusse gran parte delle opere infrastrutturali, migliaia di abitazioni,
nonché tutti gli ospedali dell’isola.
L’incontro in Vaticano «sarà l’opportunità per fare memoria del di-
L’unione
fa la forza del Venezuela
CARACAS, 9. «Le prossime elezioni parlamentari hanno per il progresso del Paese un valore straordinario, perché dall’Assemblea
nazionale possono avere impulso
i cambiamenti che il Venezuela richiede per ripristinare il dialogo,
l’ordine e la pace. A nome della
Non solo formazione
condo il National Assessment of
Educational Progress, gli studenti
latini e afroamericani che frequentano le scuole cattoliche hanno più
probabilità di diplomarsi nella
scuola superiore e all’università.
Attualmente, sono circa 2,1 milioni gli studenti educati nelle quasi
6.600 scuole cattoliche nelle grandi
e piccole città e comunità rurali di
tutto il Paese. Gli studenti ricevono
una formazione che li prepara ad
affrontare le sfide dell’istruzione superiore e di un ambiente di lavoro
estremamente competitivo. Della
buona qualità e della valida offerta
formativa degli istituti cattolici negli Stati Uniti è convinto anche
monsignor Daniel Ernest Flores,
vescovo di Brownsville e presidente
da realizzare. Quelli in corso riguardano settanta chiese, cappelle o
scuole ricostruite e altri edifici che
ospitano attività di servizio gestite
dalla comunità cattolica. I settanta
progetti in esecuzione hanno
richiesto una spesa di 58 milioni di
dollari (di cui solo 32 erano precedentemente disponibili), secondo
quanto affermato da Stephan Destin,
l’ingegnere
responsabile
dell’Unità operativa per la costruzione. Sarebbero invece ancora da
avviare tutti i progetti di ricostruzione degli edifici pubblici distrutti
dal sisma.
Dai presuli nuovo invito al dialogo per il bene del Paese
A fine gennaio la settimana nazionale delle scuole cattoliche negli Stati Uniti
WASHINGTON, 9. Si svolgerà dal 25
al 31 gennaio prossimo in tutte le
diocesi degli Stati Uniti, con lo slogan «Le scuole cattoliche: comunità di fede, conoscenza e servizi», la
settimana nazionale delle scuole
cattoliche 2015. L’iniziativa è promossa dalla Conferenza episcopale.
«Le scuole cattoliche — spiega l’arcivescovo di Omaha, George Joseph Lucas, presidente della Commissione episcopale per l’educazione cattolica — rappresentano un
aspetto vitale della missione della
Chiesa di predicare il Vangelo e
quindi anche un aspetto importante
della nostra missione di insegnare».
In numerose occasioni, e in particolare durante l’assemblea generale dello scorso autunno, i vescovi
statunitensi hanno ribadito che «le
scuole cattoliche offrono una formazione alla fede continua, vocazioni alla vita religiosa e al sacerdozio, un elevato livello di istruzione
e collaborano con le comunità latine e con quelle sottorappresentate,
come parte della missione della
Chiesa». Sempre in quell’occasione,
monsignor Lucas sottolineò che «le
scuole cattoliche operano come vere e proprie comunità», piuttosto
che come mere istituzioni burocratiche, e i risultati si traducono con i
più alti livelli di preparazione e di
coinvolgimento nella vita scolastica
fatti registrare in tutto il Paese.
Il 99 per cento degli studenti che
frequentano le scuole cattoliche
concludono il loro percorso con
successo, l’87 per cento dei diplomati delle scuole cattoliche continua i suoi studi universitari e, se-
sastro», che causò, oltre a un gran
numero di morti, «300.000 feriti e
1.200.000 senza tetto», ha spiegato
all’agenzia Fides il presidente della
Conferenza episcopale di Haiti,
cardinale Chibly Langlois, vescovo
di Les Cayes, che guiderà una
delegazione di dodici persone, partita nei giorni scorsi dalla capitale
Port-au-Prince
per
partecipare
all’evento.
Il cardinale Langlois ha ricordato
che un buon numero di piani postterremoto è già stato completato e
che attualmente la Chiesa cattolica
ha ancora circa duecento progetti
della Commissione sulla diversità
culturale nella Chiesa, che di recente ha dichiarato che per molti fedeli
ispanici, le scuole religiose sono
«costose, quindi non accessibili, ecco perché in molte comunità cattoliche con un grande numero di
questi fedeli non ci sono studenti o
dirigenti ispanici delle scuole cattoliche, e neanche si informano al riguardo».
Ma questa mentalità sta cambiando: la percentuale di bambini
ispanici iscritti nelle scuole cattoliche degli Stati Uniti è cresciuta dal
12,8 per cento al 15 per cento negli
ultimi quattro anni. «L’ago si muove nella giusta direzione — ha proseguito monsignor Flores — anche
se lo fa lentamente».
Conferenza episcopale, propongo
nuovamente il dialogo tra il Governo e gli altri settori del Paese
come unica via per trovare soluzioni concordate».
Si è concluso con queste parole
il saluto dell’arcivescovo presidente, Diego Rafael Padrón Sánchez,
all’assemblea plenaria dell’episcopato venezuelano apertasi mercoledì scorso a Caracas. «La politica di esclusione e di reciproco disconoscimento fra i vari settori fa
diminuire la capacità di trovare le
strade per una soluzione. Il radicalismo acuisce la crisi», sottolinea il presule, mentre «il dialogo,
se risponde a una natura e una
metodologia efficaci, è la via che
prevede cambiamenti e accordi in
meglio per tutti. L’Assemblea nazionale dovrebbe essere la prima
istanza di dialogo nel Paese».
Secondo l’arcivescovo di Cumaná, la popolazione è consapevole del fatto che il Venezuela sta
attraversando una crisi di grandi
proporzioni, «i cui livelli superano qualsiasi crisi precedente e che
tocca profondamente tutti gli
aspetti della vita nazionale. Ogni
giorno il cittadino sente sempre
di più la crisi sulla propria pelle.
Una crisi di carattere etico-politico ed economico-sociale». Il punto di partenza di questa crisi è, da
una parte, «la perdita dei valori
morali» e, dall’altra, lo stesso sistema politico: «È ormai un luogo comune dire che in Venezuela
si è perso il rispetto fra le persone
e il rispetto per le istituzioni», così come il rispetto dei principi di
legalità e moralità «che sono alla
base del quadro giuridico, legale
e costituzionale».
Il presidente della Conferenza
episcopale afferma che esiste una
forte «divisione ideologica e sociale tra i diversi settori del Paese,
cosa che predispone gli animi alla
violenza e all’aggressività». Alla
base degli episodi di violenza, c’è
anche «la vergognosa povertà»
nella quale il Paese è stato condotto, mentre tra gli altri mali
spicca «la corruzione a vari livelli». Il clima politico-sociale è pesante, secondo l’episcopato del
Venezuela, il panorama nazionale
«oscuro». A questo contribuisce
«l’incertezza o la negligenza dei
poteri pubblici nel risolvere la cri-
si morale, l’inefficienza dei servizi
di base richiesti da tutti i cittadini, l’alto costo della vita, la crisi
del sistema sanitario pubblico, le
carenze in tutti i settori, la mancanza di lavoro dignitoso e giusto, la crisi economica che paralizza la nazione, l’insicurezza sociale e giuridica». Ma anche gli
ostacoli che trovano le manifestazioni pacifiche a tema politico e
sindacale. Davanti alla portata dei
problemi, i partiti dovrebbero riuscire «a offrire un progetto alternativo di democrazia efficiente.
La crisi dei partiti è più affettiva
che ideologica» e «ostacola la visione del bene comune e la realizzazione di un progetto al quale
possono partecipare tutti i settori,
senza eccezioni».
La questione è così complessa
che richiede, per essere risolta, il
concorso di tutti gli ambiti del
Paese. «Qui sta la nostra forza.
La fuerza es la unión», ha concluso Padrón Sánchez, citando le parole dell’inno nazionale del Venezuela.
L’OSSERVATORE ROMANO
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sabato 10 gennaio 2015
Preparativi a Colombo
per l’arrivo del Papa
Messa a Santa Marta
Cuori
induriti
Un cuore indurito non riesce a
comprendere neanche i miracoli
più grandi. Ma «come un cuore
si indurisce?». Se lo è chiesto
Papa Francesco durante la messa
celebrata venerdì 9 gennaio a
Santa Marta.
I discepoli, si legge nel brano
liturgico del Vangelo di Marco
(6, 45-52), «non avevano compreso il fatto dei pani: il loro
cuore era indurito». Eppure, ha
spiegato Francesco, «erano gli
apostoli, i più intimi di Gesù.
Ma non capivano». E pur avendo assistito al miracolo, pur
avendo «visto che quella gente —
più di cinquemila — aveva mangiato con cinque pani» non avevano compreso. «Perché? Perché
il loro cuore era indurito».
Tante volte Gesù «parla della
durezza del cuore nel Vangelo»,
rimprovera il «popolo dalla cervice dura», piange su Gerusalemme «che non ha capito chi
sia lui». Il Signore si confronta
Roy de Maistre, «Cena a Emmaus»
con questa durezza: «Tanto lavoro ha Gesù — ha sottolineato il
Papa — per rendere questo cuore
più docile, per renderlo senza
durezze, per renderlo amorevole». Un «lavoro» che continua
dopo la risurrezione, con i discepoli di Emmaus e tanti altri.
«Ma — si è domandato il Pontefice — come un cuore si indurisce? Come è possibile che questa
gente, che era con Gesù sempre,
tutti i giorni, che lo sentiva, lo
vedeva... e il loro cuore era indurito. Ma come un cuore può divenire così?». E ha raccontato:
«Ieri ho chiesto al mio segretario: Dimmi, come si indurisce un
cuore? Lui mi ha aiutato a pensare un po’ a questa cosa». Da
qui l’indicazione di una serie di
circostanze con le quali ciascuno
può confrontare la propria esperienza personale.
Innanzitutto, ha detto Francesco, il cuore «si indurisce per
esperienze dolorose, per esperienze dure». È la situazione di
quanti «hanno vissuto un’esperienza molto dolorosa e non vogliono entrare in un’altra avventura». È proprio quello che è
successo dopo la risurrezione ai
discepoli di Emmaus, dei quali il
Pontefice ha immaginato le considerazioni: «“C’è troppo, troppo chiasso, ma andiamocene un
po’ lontano, perché...” —Perché,
che? — “Eh, noi speravamo che
questo fosse il Messia, non c’è
stato, io non voglio illudermi
un’altra volta, non voglio farmi
illusioni!”».
Ecco il cuore indurito da una
«esperienza di dolore». Lo stesso capita a Tommaso: «No, no,
io non ci credo. Se non metto il
dito lì, non ci credo!». Il cuore
dei discepoli era duro «perché
avevano sofferto». E al riguardo
Francesco ha ricordato un detto
popolare argentino: «Se una
persona viene bruciata dal latte,
quando vede la mucca piange».
Ossia,
ha
spiegato,
«è
quell’esperienza dolorosa che ci
trattiene dall’aprire il cuore».
Un altro motivo che indurisce
il cuore è poi «la chiusura in se
stesso: fare un mondo in se stesso». Accade quando l’uomo è
«chiuso in se stesso, nella sua
comunità o nella sua parrocchia». Si tratta di una chiusura
che «può girare intorno a tante
cose»: all’«orgoglio, alla sufficienza, al pensare che io sono
meglio degli altri» o anche «alla
vanità». Ha precisato il Papa:
«Ci sono l’uomo e la donna
“specchio”, che sono chiusi in se
stessi per guardare se stessi, continuamente»: si potrebbero definire «narcisisti religiosi». Questi
«hanno il cuore duro, perché sono chiusi, non sono aperti. E
cercano di difendersi con questi
muri che fanno intorno a sé».
C’è inoltre un ulteriore motivo
che indurisce il cuore: l’insicurezza. È ciò che sperimenta colui
che pensa: «Io non mi sento sicuro e cerco dove aggrapparmi
per essere sicuro». Questo atteggiamento è tipico della gente
«che è tanto attaccata alla lettera
della legge». Accadeva, ha spiegato il Pontefice, «con i Farisei,
con i Sadducei, con i dottori
della legge del tempo di Gesù».
I quali obiettavano: «Ma la legge dice questo, ma dice questo
fino a qui...», e così «facevano
un altro comandamento»; alla fine, «poverini, si addossavano 300-400
comandamenti e si
sentivano sicuri».
In realtà, ha fatto
notare
Francesco,
tutti questi «sono
persone sicure, ma
come è sicuro un
uomo o una donna
nella cella di un
carcere dietro la
grata: è una sicurezza senza libertà».
Mentre è proprio la
libertà ciò che «è
venuto a portarci
Gesù». San Paolo,
ad esempio, rimprovera Giacomo e an(1958)
che Pietro «perché
non accettano la libertà che Gesù ci ha portato».
Ecco allora la risposta alla domanda iniziale: «Come un cuore
si indurisce?». Il cuore infatti,
«quando si indurisce, non è libero e se non è libero è perché non
ama». Un concetto espresso dalla prima lettura della liturgia del
giorno (1 Giovanni, 4, 11-18), dove l’apostolo parla dell’«amore
perfetto» che «scaccia il timore».
Infatti «nell’amore non c’è timore, perché il timore suppone un
castigo e chi teme non è perfetto
nell’amore. Non è libero. Sempre ha il timore che succeda
qualcosa di doloroso, di triste»,
che ci faccia «andare male nella
vita o rischiare la salvezza eterna». In realtà, sono solo «immaginazioni», perché semplicemente quel cuore «non ama». Il cuore dei discepoli, ha spiegato il
Papa, «era indurito perché ancora non avevano imparato ad
amare».
Ci si può allora chiedere:
«Chi ci insegna ad amare? Chi
ci libera da questa durezza?»
Può farlo «soltanto lo Spirito
Santo», ha chiarito Francesco
precisando: «Tu puoi fare mille
corsi di catechesi, mille corsi di
spiritualità, mille corsi di yoga,
zen e tutte queste cose. Ma tutto
questo non sarà mai capace di
darti la libertà di figlio». Solo lo
Spirito Santo «muove il tuo cuore per dire “padre”»; solo lui «è
capace di scacciare, di rompere
questa durezza del cuore» e di
renderlo «docile al Signore. Docile alla libertà dell’amore». Non
a caso il cuore dei discepoli è rimasto «indurito fino al giorno
dell’Ascensione», quando hanno
detto al Signore: «Adesso si farà
la rivoluzione e viene il regno!».
In realtà «non capivano niente».
E «soltanto quando è venuto lo
Spirito Santo, le cose sono cambiate».
Perciò, ha concluso il Pontefice «chiediamo al Signore la grazia di avere un cuore docile: che
lui ci salvi dalla schiavitù del
cuore indurito» e «ci porti avanti in quella bella libertà
dell’amore perfetto, la libertà dei
figli di Dio, quella che soltanto
può dare lo Spirito Santo».
di MALCOLM RANJITH*
In Asia, e specialmente nello Sri Lanka, ringraziamo Dio per il duplice
dono che ha scelto di farci: la visita
del successore di Pietro e la canonizzazione del beato Joseph Vaz.
La decisione di Francesco di visitare lo Sri Lanka è maturata nel corso
di un anno. Gli ho rivolto l’invito la
sera stessa dell’elezione, il 13 marzo
2013. Egli si è mostrato entusiasticamente aperto all’idea. Desiderava manifestare in modo concreto l’amorevole vicinanza di Dio al piccolo gregge
di questo vasto continente. Ciò indicava come il suo cuore di pastore fosse aperto ad abbracciare tutti, anche
la gente di questa nostra minuscola
isola.
I successivi inviti da parte della
Conferenza episcopale e delle autorità
statali sono state accolte con entusiasmo. Poi, durante l’incontro con i migranti srilankesi in Italia nella basilica
di San Pietro, l’8 febbraio 2014, il Papa ha espresso pubblicamente la speranza di poter venire nel Paese. E in
occasione della visita ad limina dei vescovi dello Sri Lanka, il 3 maggio
scorso, ha ufficialmente confermato il
viaggio.
Nel primo invito ho spiegato al
Pontefice che lo Sri Lanka sarebbe
stato per lui un posto ideale per avere
una visione caleidoscopica dell’Asia,
con le sue numerose convinzioni religiose, e del modo in cui il piccolo
gregge del Signore vive e professa la
fede in mezzo a un mare di non cristiani. E ciò lo ha attratto, poiché
Francesco è sempre stato un appassionato sostenitore dell’armonia tra le religioni e dell’unità. Inoltre il continente, con oltre due terzi della popolazione mondiale e appena il 2,6 per
cento di cristiani, poteva essere un’interessante e nuova fonte di arricchimento per la Chiesa.
L’Asia, di fatto, è governata dai valori morali e spirituali rispecchiati
nell’ethos dell’induismo, del buddismo, dell’islam, del confucianesimo,
del taoismo e quindi del cristianesimo. L’anima asiatica è un’anima religiosa. Il suo orientamento filosofico
fondamentale non è dominato dal
principio greco-romano della contraddizione, piuttosto include gli opposti;
non è lineare bensì circolare ed è profondamente condizionato dai fondatori delle religioni antiche. Essa fatica
a venire a capo delle inadeguatezze, e
tuttavia ha una crescita economica ottimistica; è tormentata da povertà e
tensioni sociali, e tuttavia desiderosa
di pace; cerca di utilizzare tutte le risorse naturali per migliorare, ma è
consapevole del legame intimo che
esiste tra il mondo materiale e la vita
umana.
La Chiesa nel nostro continente
non può ignorare questi contrasti ma
deve mantenere con essi un dialogo
costante. Se per un verso la situazione di “piccolo gregge” espone la
Chiesa al pericolo del sincretismo,
dall’altro l’aiuta a imparare a sopravvivere e perfino a diffondersi in un
contesto che consente un silenzioso
senso di attrazione per ciò che è nuovo. La ragione di ciò è che tanti asiatici apprezzano la freschezza della fede cristiana, che è relativamente giovane se paragonata alle altre religioni.
Le Chiese orientali, che hanno anch’esse una storia di silenzioso ingresso nel continente, e non di intrusione
coloniale, hanno molto in comune
con la Chiesa universale in quanto a
età ed esperienza nell’evangelizzazione. Pertanto, la visita del Papa in un
contesto tipicamente asiatico può servire all’arricchimento reciproco sia
della Chiesa universale sia dello spirito asiatico.
E così il viaggio del Pontefice sarà
un’importante pietra miliare nel nuovo modo di realizzare l’evangelizzazione che Francesco sta raccomandando in particolare attraverso l’esortazione apostolica Evangelii gaudium.
La visita potrebbe accrescere l’interesse di entrambe le parti — la Chiesa e
il continente — a imparare l’una
dall’altra e ad apprezzarsi reciprocamente. E qui, una delle testimonianze
più forti, dal punto di vista pedagogico, è quella di Joseph Vaz.
La sua è stata una vita di umile testimonianza al linguaggio intensamente trasformatore dell’amore, manifestato nel Vangelo; ha rispecchiato la
potenza dell’amore misericordioso di
Dio, che nasceva dalle radici della sua
anima. In questo era umile e tuttavia
potente, ascetico — come ogni uomo
di fede asiatico dovrebbe sempre essere — ma generoso e gioioso nel suo
servizio; esposto a rischi di ogni genere, eppure dotato di profonda fiducia e fede in Dio; innamorato
dell’umanità, ma sempre consapevole
Il Papa in Sri Lanka
Caleidoscopio
asiatico
del bisogno di appoggiarsi al Padre.
Come Abramo, il quale partì obbedendo al Signore e permettendogli di
utilizzarlo totalmente per la missione.
Fu un sanyasi — uomo santo dell’induismo — totalmente altruista. Non
s’impose ai suoi contemporanei, ma
permise alla sua vita di dissolversi in
mezzo a loro, al punto che essi furono attratti da Cristo.
Per comprendere questa figura è
bene dare uno sguardo alla storia dello Sri Lanka del XVII e del XVIII secolo. Di fatto, nel Cinquecento c’era
stata una rinascita della fede cattolica
nel Paese con il fortuito arrivo dei
portoghesi nel 1505: rinascita perché
la precedente presenza è documentata
da alcuni registri e dal ritrovamento
di una croce orientale del V secolo negli scavi dell’antica città di Anuradhapura.
In seguito, la fede cattolica raggiunse il picco nelle aree costiere del
Paese. Sebbene i portoghesi fossero
interessati principalmente al commercio e alla ricerca di ricchezza, favorirono l’espansione del cattolicesimo
nell’isola invitando i missionari.
I primi ad arrivare furono i
francescani nel 1543, seguiti dai gesuiti nel
1602, dai domenicani
nel 1605 e dagli agostiniani nel 1606. Ma
erano tutti europei,
e quindi, quando
nel 1656 il controllo
delle provincie marittime passò ai protestanti olandesi, la
comunità cattolica fu
soppressa con la forza.
Tutti i missionari furono
espulsi e venne vietata la
pratica della fede. Molti cattolici furono costretti a diventare membri delle chiese protestanti o ad abbracciare altre religioni. La pratica della fede passò alla
clandestinità e per tre decenni non ci
furono sacerdoti a prendersi cura dei
cattolici rimasti. I missionari europei
non potevano entrare nello Sri Lanka
nemmeno di nascosto, poiché i funzionari olandesi potevano facilmente
identificarli grazie alla pelle bianca.
Questa situazione si rivelò provvidenziale poiché preparò il terreno a
una soluzione indigena alla crisi. Il
Signore toccò il cuore di un giovane
sacerdote dell’India, affinché si sentisse chiamato a portare sollievo e forza
alla comunità cattolica nello Sri
Lanka.
Joseph Vaz era nato a Goa, da
Christopher Vaz e Marie de Miranda,
il 21 aprile 1651. Sin da giovane trascorse molte ore in preghiera. Fu generoso ed entusiasta, leale alla Chiesa,
studioso e preoccupato per i poveri e
i bisognosi, con un profondo spirito
ascetico e di abnegazione. Entrato in
seminario, dopo aver completato gli
studi fu ordinato sacerdote nel 1676
per l’arcidiocesi di Goa. Sin dall’inizio si era sentito chiamato alle missioni, perciò decise di unirsi a un oratorio fondato dal padre Pasqual da Costa Jeraimias, che in seguito prosperò
e accolse molti altri membri. Ben presto Joseph Vaz ne divenne il leader e,
chiedendo il permesso per unirsi
all’Oratorio di San Filippo Neri, fece
della fondazione di Goa un Oratorio
indipendente sotto tale regola.
Fu allora che, venuto a conoscenza
della triste situazione della comunità
cattolica nello Sri Lanka, decise di
dedicarsi completamente a essa. Nel
1687, travestito da operaio, insieme a
un giovane volontario di nome John,
s’imbarcò su una nave commerciale e
approdò prima a Mannar e poi a Jaffna. Affaticato e malato, Joseph Vaz
ebbe grandi difficoltà a trovare i cat-
tolici, facendosi riconoscere da loro,
imparando la lingua locale tamil e
servendoli senza essere scoperto dagli
olandesi. Ma riuscì a servire con zelo
le comunità di quell’area, per la maggior parte camminando e visitando
segretamente i cattolici. I diversi tentativi degli olandesi di catturarlo fallirono.
Venuto a conoscenza della presenza
di altri cattolici nella zona di Kandy,
che non era sotto il controllo degli
olandesi ma del re locale, decise di recarvisi. Ma mentre era in cammino,
sospettato di essere una spia dei portoghesi, fu arrestato dai soldati del re
e imprigionato a Kandy. Dopo due
anni, il re Wimaladharmasuriya II,
avendo sentito parlare della sua natura profondamente ascetica ed edificante, mutò la condanna in arresti
domiciliari e gli permise di svolgere i
suoi doveri pastorali. Fu così che Joseph Vaz si recò ovunque, a volte perfino senza il permesso del re, anche
nelle aree sotto il controllo olandese,
Vetrata raffigurante il beato Joseph Vaz
che il Papa canonizzerà in Sri Lanka
visitando i cattolici, celebrando i sacramenti e catechizzando. Visse in
maniera semplice, aiutando tutti, operando una serie di miracoli — incluso
quello di far terminare una grave siccità con forti piogge — e occupandosi
personalmente dei malati quando la
città fu colpita da una pestilenza e
tutti gli altri fuggirono abbandonandoli. Invitò diversi altri confratelli
dell’Oratorio di Goa a unirsi a lui,
compreso Jacome Gonsalves, che poi
divenne un grande scrittore e contribuì alla diffusione della letteratura e
della cultura cattolica nelle lingue locali nello Sri Lanka. Ancora oggi l’influenza di padre Gonsalves nella liturgia cattolica, nella letteratura, nella
musica e nel teatro viene guardata
con ammirazione anche dai non credenti.
Joseph Vaz rifiutò il titolo episcopale, preferendo rimanere un semplice
sacerdote. La sua umiltà e il suo servizio furono motivo di frequenti malattie. Il 16 gennaio 1711 morì all’età di
sessant’anni. Venne tumulato a Kandy, ma a oggi si ignora il luogo della
sepoltura. La sua missione era stata
quella del dono totale, permettendo
al Signore di dominare la sua vita, come Giovanni Battista. La sua fama di
santità era così vasta da spingere il
vescovo di Cochin, già nel 1713, ad
avviare la causa per la beatificazione,
poi portata avanti dall’arcivescovo di
Goa e dal vescovo di Kandy. Nel 1989
la Congregazione delle cause dei santi
ha promulgato il decreto sulle sue vir-
tù eroiche e il 6 luglio 1993 Giovanni
Paolo II ha riconosciuto il miracolo
attribuito alla sua intercessione. Il 21
gennaio 1995 il Pontefice polacco, durante sua visita in Sri Lanka, lo beatificò a Colombo.
Il popolo srilankese ha continuato
a pregare per la sua canonizzazione.
Anche i vescovi del Paese hanno continuato a insistere e così, tenuto conto
della vasta considerazione popolare
della sua santità e delle continue richieste giunte dallo Sri Lanka,
dall’India e da altre parti del mondo,
Papa Francesco ha accelerato tale processo. E durante il concistoro del 20
ottobre 2014 ha deciso di canonizzarlo nel corso di questa visita.
Noi cattolici srilankesi siamo pieni
di gioia per questo grande dono di
Dio alla nostra Chiesa. Ringraziamo
il Signore per aver salvato la nostra
fede, durante un periodo estremamente difficile, attraverso questo
grande missionario. È provvidenziale
il fatto che, proprio quando un missionario dalla pelle bianca avrebbe
avuto difficoltà a operare, il Signore
abbia scelto un figlio del suolo asiatico. E più tardi, allorché Leone XIII
decise di istituire in Asia un seminario regionale per le vocazioni indigene, fu ispirato dall’esempio di Joseph
Vaz, della cui vita e della cui missione
in Sri Lanka era venuto a conoscenza
attraverso il delegato apostolico in India, monsignor Ladislaus Zaleski.
Papa Pecci, su raccomandazione di
Zaleski, nel 1893 scelse proprio Kandy
come sede del primo seminario regionale per sacerdoti indigeni in Asia. La
decisione profetica di Papa Leone di
incoraggiare l’indigenizzazione delle
Chiese locali, in un tempo in cui le
vocazioni missionarie in Europa erano
abbondanti, fu forse ispirata dal servizio esemplare svolto da Joseph Vaz.
L’imminente visita di Papa Francesco e la sua scelta di canonizzare il
nostro santo sul suolo di casa sono
davvero doni di un valore incommensurabile. Entrambi gli avvenimenti
esprimono in modo tangibile la profondità dell’amorevole sollecitudine di
Dio per noi. Ed è evidente che ci sono similitudini nelle scelte concrete
compiute da Papa Francesco e da Joseph Vaz, così come nella ratio che
c’è alla base di tali scelte: in particolare, lo spirito di ottimismo e la gioia del Pontefice
argentino nel far fronte alle diverse sfide della
missione ecclesiale oggi, da un lato, e la
forza di volontà e
l’impegno dimostrati
da
Joseph
Vaz,
dall’altro, sono radicati in Gesù.
Di fatto, Joseph
Vaz apparteneva totalmente a Cristo. Il
suo entusiasmo e la
sua disponibilità a subire anche il martirio per la
causa della sua missione rispecchiavano lo spirito del
grande apostolo Paolo. La gioia di
Joseph Vaz nello spendersi per il Signore proveniva da questa totale
identità con Gesù. E Papa Francesco
rispecchia questo stesso spirito.
La bellezza della vita di Vaz sta nel
fatto che l’amore lo ha spinto ad abbandonare tutto e a recarsi in un territorio ostile confidando totalmente
nel Signore. Quasi nessuno sapeva
del suo arrivo nello Sri Lanka. Non
lo attendeva nessun comitato di accoglienza. Non possedeva niente, dipendeva totalmente dalla generosità
dei cattolici poveri e perseguitati. Rimase con loro, condivise le loro umili
case, percorse lunghe distanze, fu
profondamente ascetico e distaccato,
e fu un uomo di preghiera che spesso
trascorreva notti intere dinanzi al Signore. Tuttavia non si scoraggiò mai:
celebrava i sacramenti con devozione,
fu buon insegnante e predicatore che
riusciva a entusiasmare il gregge. Era
sempre disponibile e molto amato,
perché, a sua volta, amava e avrebbe
dato la vita per il suo gregge. Il suo
entusiasmo nel servire era contagioso
e animò tutti i sacerdoti che si unirono a lui. Un vero modello per i missionari attuali.
Oggi l’Asia ha più che mai bisogno
di simili modelli di evangelizzazione.
Ha bisogno di missionari innamorati
del Signore e spumeggianti di entusiasmo, che siano gioiosi e ottimisti,
senza paura di soffrire povertà, privazioni e perfino persecuzioni per il
Vangelo. L’importante non è il trionfalismo, bensì la via umile della gioia
evangelica: il trionfo dei piccoli senza
trionfi.
*Cardinale arcivescovo di Colombo