donne chiesa mondo Sua madre confrontava tutte queste cose nel suo cuore L’OSSERVATORE ROMANO luglio 2015 numero 37 Le donne latinoamericane Dalla politica all’attivismo per la difesa dei diritti umani, dalla scienza all’arte, la storia latinoamericana è popolata da donne che hanno dettato legge e svoltato epoche. Ci sono quelle che hanno dominato la scena politica, reggendo per anni governi e lottando per la conquista del potere. O quelle che il primo fine settimana di ottobre trovano ogni anno la forza evangelizzatrice della pietà popolare ripercorrendo a piedi 67 chilometri nel segno della venerazione alla Madonna di Luján (raffigurata qui a sinistra), patrona dell’Argentina. Ci sono quelle con forti ideali, che hanno combattuto in nome di un diritto, di un principio morale o dell’uguaglianza civile. E poi ci sono quelle che marcano un’epoca e che segnano una grande svolta. È il caso di Frida Kahlo, nata nel 1907 in Messico, prima donna pittrice a vendere un dipinto al Louvre e prima artista latinoamericana a presentare i suoi lavori in una galleria parigina. Oppure il caso di Evita Perón che, morta a soli 33 anni, fu la prima in America latina a essere candidata, nel 1951, alla vicepresidenza in Argentina: il suo ingresso in politica segnerà la fine della società tradizionale argentina. La politica per Evita e l’arte per Frida sono la chiave di ingresso in spazi tradizionalmente maschili. Evita farà leva proprio sulla differenza per inserirsi nella scena politica senza mettere in discussione, in un primo momento, la divisione degli spazi maschili e femminili. Frida invece costruirà un percorso che inizia dal riconoscimento delle proprie radici e finisce con il diritto a partecipare e a essere politicamente presente nella comunità. Per entrambe, ciò che era personale era anche politico. È questo il filo rosso che unisce storie e momenti diversi delle donne latinoamericane: la dimensione politica della solidarietà. Che va da Rigoberta Menchú — premio Nobel per la pace (1992) e depositaria della cultura degli indios, una dei pochi indigeni sopravvissuti al genocidio in Guatemala — a Estela Carlotto, inossidabile leader delle di SILVINA PÉREZ onsignor Óscar Romero fu ucciso mentre stava celebrando la messa nella cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza a San Salvador, il 24 marzo 1980. Colpito alla testa, cadde immediatamente. Secondo la registrazione audio, il colpo venne sparato durante la consacrazione eucaristica, mentre Romero alzava il calice verso l’alto. Per anni aveva denunciato le ingiustizie in Salvador e le violenze della polizia e dei militari contro i più deboli. Nel 1983, in visita in Salvador, Papa Wojtyła si recò a pregare sulla tomba del vescovo. La causa di beatificazione è iniziata nel 1997 ma si era poi bloccata, fino alla decisione di Papa Francesco. E così il 23 maggio scorso Romero è stato proclamato beato. M donne chiesa mondo Ancora oggi ascolto i nastri delle sue bellissime omelie Ogni volta è un grande dolore pensare alla sua solitudine Cecilia Romero è una delle nipoti di Romero e ha partecipato alla messa a San Salvador. Emozionata ci racconta quel giorno. A San Salvador alla messa di beatificazione hanno partecipato 260 mila fedeli. Romero diventa il primo della lunga schiera dei nuovi martiri contemporanei. Quanto è stato importante il ruolo di Bergoglio nell’accelerare il processo di beatificazione? «Senza alcun dubbio, molto. Per noi è un grande segnale di riconciliazione e speranza. Era inspiegabile che un sacerdote ucciso sull’altare mentre celebrava la messa non fosse riconosciuto martire. In questo modo la Chiesa oggi afferma ufficialmente che monsignor Romero non ha sbagliato in ciò che ha detto e fatto, così come alcuni hanno continuato a sostenere per anni. Credo che ci volesse il primo Papa latinoamericano per beatificare il difensore del popolo del Salvador! Mancavo dal mio Paese da undici anni e ho condiviso a San Salvador insieme ai suoi due fratelli ultraottantenni, Tiberio e Gaspar, questa gioia immensa». Resterà per sempre l’immagine del suo corpo insanguinato circondato dai fedeli. Il momento della morte: cosa ha significato per lei quello scatto? «Ha reso ancor più eterna la sua figura di vescovo che era dalla parte degli ultimi. Fu il segno indelebile di un atto atroce che ha colpito almeno tre generazioni di salvadoregni. Un colpo solo, terribile. Romero sapeva bene che prima o poi abuelas, le coraggiose “nonne” di Plaza de Mayo la cui resistenza non nasce come un movimento politico, bensì da un’elementare risposta umana. Si tratta di donne di diversa estrazione sociale, per lo più modesta, cresciute nel rispetto dell’autorità sociale e familiare, e nel desiderio di una normale vita quotidiana. Arrivano spontaneamente all’azione politica dall’universalità dei valori e dai diritti umani calpestati dal potere. Svolgono dalla fine degli anni Settanta un lavoro politico di incredibile lucidità, concretezza ed efficacia, che sarà il seme su cui si consoliderà l’attuale democrazia dei Paesi dell’America meridionale. A partire degli anni Ottanta sono altre donne quelle che sviluppano strategie di tipo comunitaria, rivolte al rinnovamento di strutture sociali e in grado di condividere i successi altrui, piuttosto che vedere in essi una minaccia al proprio ego e all’affermazione della propria soggettività. Ciò che metodologicamente caratterizza le donne latinoamericane di questi anni è il costante riferimento a fatti sociali, reali e concreti dai quali hanno origine le condizioni di sfruttamento in diversi campi. (silvina pérez) Quel diploma mai consegnato A colloquio con Cecilia, una delle nipoti di monsignor Óscar Romero l’avrebbero ucciso ma non indietreggiò mai. Tutti noi abbiamo sentito in famiglia il peso del cognome Romero, e per anni siamo stati costretti a fingere di non avere legami con lui. Da un certo punto in poi i contatti della mia famiglia con Romero si interruppero. Solo mio padre li mantenne, ma in segreto. Durante il 1979 un gruppo di militari sfondò la porta ed entrò in casa mia, subito chiesero di mostrargli i documenti e quando lessero “Romero” si insospettirono. «Ah, quindi siete anche voi Romero! Siete parenti?», «No, non siamo parenti». Quanto dolore in queste parole. Nel 1980, finivo i miei studi da liceale e, da noi, la consegna dei diplomi la fa il vescovo. Non vedevo l’ora che arrivasse ottobre, mese in cui era fissata la cerimonia, per ricevere dalle mani di mio zio il diploma e festeggiare con lui e la mia famiglia. Quel momento non si realizzò mai». «Quando fu ammazzato lo zio — prosegue Cecilia — avevo 18 anni e per lo stesso motivo (minacce di morte alla sua famiglia) non partecipai ai funerali. Una sofferenza nella sofferenza. Allora era troppo pericoloso, mio padre per prudenza non fece avvicinare fisicamente mia madre e tutti noi figli a monsignor Romero, che per primo gli consigliò di non farlo. Devo dire che il pericolo continuò anche dopo la sua morte. Fino agli anni Novanta era impossibile parlare apertamente di Romero. Il suo nome era ingombrante direi fino alla visita di Giovanni Paolo II nel 1996: da quel momento in poi cominciarono a cambiare le cose». Di Romero si è detto molto in questi lunghi anni. Ci aiuti a capire, chi era è veramente. «La sua vita è stata fortemente caratterizzata da una coerenza unica tra i valori in cui credeva, la sua fede e la sua ro una nuova fase dal punto di vista umavita quotidiana. Lottò per i diritti umani e no e della fede. Il delitto lo sconvolse. non solo a parole, pagò con la vita il suo Purtroppo dopo Rutilio Grande, Romero coraggio e la sua determinazione nell’op- vide cadere anche altri preti». Le sue catechesi, le sue omelie, trasmesporsi alla dittatura militare. Il suo senso di carità si estendeva anche ai suoi perse- se dalla radio diocesana, vennero ascoltate cutori ai quali predicava la conversione al anche all’estero: eravate al corrente della bene. Fu accusato di essere un membro sua crescente popolarità? «Ho cominciato della teologia della liberazione, ma lui era a sentirmi libera ascoltando e riascoltando soltanto un cuore cristiano che soffriva le sue bellissime omelie. Ancora oggi senper e con quelli più deboli. Romero vole- tire i nastri con le registrazioni mi provoca va soltanto portare il Paese fuori della vio- ogni volta un grande dolore. Penso alla lenza combattendo quella che lui stesso sua solitudine, alle sue convinzioni e penchiamava “l’ingiustizia”». so al fatto che nemmeno noi parenti siamo Cosa è rimasto degli anni della guerra stati vicini come avremmo voluto. Eravacivile? La memoria è ancora viva nella so- mo abituati al silenzio, eravamo un popocietà salvadoregna? Cosa ne pensano le lo timido, chiuso. Io stessa sono cresciuta nuove generazioni? «La guerra civile non si può dimenticare, nonoMio zio contava sull’aiuto stante siano passati tanti anni. Durante la guerra civile circa il 2 per dell’avvocato Marianela García Villas cento della popolazione ha perso Che verrà torturata la vita. È un dato sconvolgente se pensiamo concretamente cosa vuol e uccisa tre anni dopo di lui dire all’interno delle famiglie salvadoregne. Le tracce di quei tragici eventi sono ovunque. Molti trentenni sono in quegli anni abituandomi al silenzio. Un i bambini orfani di ieri. El Salvador, infat- silenzio che ha ucciso gran parte di noi. ti, è finalmente una democrazia, schiaccia- Sì, la radio era l’unico modo per sapere ta dalle terribili eredità della guerra civile per aprire gli occhi e avere notizie. Tutti si e naturalmente dalla crisi economica mon- fermavano ad ascoltare. Qualcuno mi ha diale». detto che all’epoca era possibile camminaTornando a Romero, c’è una data che re per le strade di San Salvador anche segna il prima e il dopo nella sua vita: il senza la radio, senza perdere una parola 12 marzo 1977 quando Rutilio Grande, ge- delle sue prediche, perché da tutte le case suita, venne ucciso in un piccolo paese a e da tutti i bar proveniva la sua voce. Denord di El Salvador, Anguilares. Perché è vo dire che Romero rispettava una sorte così importate questa data? «Era il suo di schema fisso. Nella prima parte commiglior amico. Ed ebbe un grande merito: mentava la Parola di Dio, nella seconda, lo avvicinò alla gente. Penso che l’atroce alla luce di quella Parola, denunciava i fatfine del suo migliore amico aprì in Rome- ti della settimana così come gli venivano documentati dal Socorro Jurídico, l’ufficio di tutela dei diritti umani. Leggeva i nomi delle persone scomparse, trovate uccise nelle discariche della città. Era l’unica fonte di informazione. La polizia fingeva di non conoscere i casi, per cui i familiari degli scomparsi si recavano ogni domenica nella cattedrale per avere notizie. Talvolta la notizia non riguardava il ritrovamento di un cadavere, ma quella di una detenzione e allora la famiglia riprendeva a sperare». «Mio zio — racconta ancora Cecilia — contava sull’aiuto dell’avvocato Marianela García Villas, che poi verrà torturata e uccisa tre anni dopo di lui, nella giurisdizione di Suchitoto mentre stava raccogliendo le prove sull’uso di armi chimiche contro la popolazione civile da parte dei militari. Aveva trentaquattro anni questa giovane militante per i diritti umani che amava suonare, dipingere e scrivere racconti. Era tra i più stretti collaboratori di Romero, a capo del piccolo gruppo di giovani avvo- Cecilia Romero ha 53 anni, è figlia di José Romero, cugino di primo grado dell’arcivescovo salvadoregno. È nata a San Salvador e vive in Italia da quindici anni. Ha sposato nel suo Paese un italiano che lavorava per l’Unione europea, vivono a Tuscania, in provincia di Viterbo, con i due figli, Lucia ed Edoardo, di 16 e 15 anni. È molto legata a Tiberio e Gaspar Romero, i due fratelli ultraottantenni rimasti in vita di monsignor Romero. Fa parte della Commissione per la verità e della giustizia dei desaparecidos latinoamericani che il 28 maggio 2014 ha incontrato Papa Bergoglio. Sigan adelante, “andate avanti” ha detto Francesco alla delegazione di familiari dei desaparecidos di Argentina, Cile e Uruguay. Secondo Cecilia è nell’ultima omelia, celebrata il 23 marzo 198o, che bisogna cercare il vero testamento cristiano di Romero: «Vorrei fare un appello speciale agli uomini dell’esercito, in concreto alla base della Guardia nazionale, della polizia, delle caserme — disse solo poche ore prima di essere ucciso — Fratelli, siete del nostro stesso popolo, perché uccidete i vostri fratelli campesinos? Davanti all’ordine di uccidere deve prevalere la legge di Dio che dice: non uccidere». cati che, a rischio della propria vita, registravano e indagavano le violenze quotidiane e redigevano settimanalmente un rapporto sulle violazioni dei diritti umani commesse dallo Stato e dai gruppi armati di qualunque parte politica. È stata pressoché dimenticata nel nostro Paese, e non solo. Era “l’avvocata dei poveri e dei contadini” e purtroppo se n’è persa memoria: eppure ci troviamo di fronte a una martire dei diritti umani. A Romero, chi pensava di averlo messo a tacere per sempre, non solo ha dato voce a un popolo di fedeli, ma lo ha consegnato alla beatificazione eterna». donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo Il Paese delle donne Il romanzo Paula L’eroico servizio durante la tragica guerra della Triplice alleanza modello ancora attuale per le nuove generazioni di BEATRIZ GONZÁLEZ DE BOSIO* nche quando ormai il giovane e l’anziano, / il figlio e il fratello e lo sposo, / caddero per sempre … e nella pianura / regnò dei sepolcri il riposo, / lei intraprese il ritorno, con il petto / dalla patria nostalgia oppresso, / e invano scrutò nella sua casa distrutta / l’antico luogo dell’essere amato». Così, nella poesia La Mujer Paraguayana, Ignacio A. Pane (1880-1920) celebrava la donna paraguayana. La Guerra guazu — “Guerra grande” in guaranì, o guerra della Triplice alleanza — continua a essere per la popolazione paraguayana l’episodio più traumatico «A Donarono i gioielli per la patria Ma soprattutto assistettero i feriti coltivarono la terra fecero ripartire l’economia e la fecondità Sono state e sono tutt’oggi il pilastro della società nazionale della storia nazionale, la fase storica più drammatica e cruenta dell’America latina dalle sue origini ai giorni nostri. Perciò è stata anche chiamata «la guerra della triplice infamia» (Juan Bautista Alberdi) o «genocidio americano». È stato un evento che ha segnato un prima e un dopo. Un prima, il Paraguay come autentica potenza nei suo assi centrali, ossia potere economico e tecnologico, rispetto regionale e presenza sovrana. Un dopo segnato invece dalla desolazione, dalla rovina, dalla dipendenza, dalla sottomissione, pur se in un stato di democrazia e di libertà, per quanto imperfette. Era il 1865 quando il presidente del Paraguay, maresciallo Francisco Solano López, si ritrovò coinvolto in uno scontro bellico dalle enormi proporzioni. Il momento d’inizio delle ostilità non fu tra i più favorevoli per il Paese poiché l’armamento moderno, commissionato in Europa, ancora non gli era pervenuto. Né sarebbe più arrivato: ora, di certo non avrebbe superato il blocco che l’attendeva nei canali di accesso. E così gli imponenti mezzi militari, ancora in costruzione in Europa, furono acquistati dal Brasile, che li utilizzò contro il Paraguay durante il conflitto. Solano López non disponeva neppure di un corpo di ufficiali ben addestrato e con esperienza di guerra: di fatto, il Paraguay aveva smesso di partecipare a scontri bellici dalla battaglia di Tacuary nel marzo 1811, prima dell’indipendenza dalla Spagna. Il trattato segreto della Triplice alleanza, firmato il 1° maggio 1865 da Brasile, Argentina e Uruguay, contro il Paraguay, smise di essere segreto ancor prima del primo anniversario della sua firma: per esteso, infatti, venne pubblicato sulle pagine di un giornale londinese. Da quel momento la causa paraguayana si circondò di una mistica difensiva e di un eroismo incrollabile. I giganteschi vicini del Paraguay, desiderosi di appropriarsi di nuovi territori, invasero e mutilarono il territorio nazionale. Una donna paraguayana in un’illustrazione del 1870 La memoria collettiva della guerra della Triplice alleanza dà particolare risalto nella storia ufficiale alle donne paraguayane che donarono i loro gioielli per la causa della patria. Ma le donne paraguayane fecero in realtà molto di più: svolsero infatti un ruolo centrale coltivando la terra, assistendo i feriti, seppellendo i morti e accompagnando le truppe, come residentas o destinadas. È indubbio che le donne sono state — e sono tutt’oggi — il pilastro della società paraguayana. Il presidente López e quel che restava del suo esercito furono seguiti da vicino dalle residentas, donne che — costrette ad abbandonare la capitale del Paese, Asunción, di fronte all’occupazione e al saccheggio degli invasori all’inizio del 1869 — non ebbero altra scelta se non quella di seguire da vicino i sopravvissuti e condividere con loro le privazioni, la fame e gli inenarrabili sacrifici. Fu questo, ad esempio, il caso di Ramona Martínez, un’adolescente che, brandendo la spada, in quel fatidico 1869, salvò la vita a Solano López nella località di Lomas Valentinas, permettendogli di fuggire. O di Juliana Insfran de Martínez, Pancha Garmendia, María Meque, e molte altre donne coraggiose. Tornata la pace, alle donne paraguayane spettò essere reconstructoras de la patria, essere cioé l’asse centrale per il ripopolamento, facendosi carico per molto tempo dell’attività produttiva volta a ottenere gli alimenti di base. Tutto venne compiuto in modo anonimo ma molto significativo. Vanno quindi ricordare figure del post-guerra come Asunción Escalada, Rosa Peña de González, Adela e Celsa Speratti: donne dedite all’istruzione che, superando mille ostacoli per educare varie generazioni, furono paradigmi di dedizione e di coraggio. Grazie a loro, infatti, le bambine e le ragazze paraguayane ricevettero la stessa educazione primaria e secondaria dei maschi. Una parità per nulla diffusa all’epoca. Nel riflettere sul nostro divenire storico come nazione, ci colpisce il ruolo che le donne paraguayane hanno svolto nella storia del Paese: un ruolo che fu dunque preponderante fin dall’inizio. Non a caso uno dei modi in cui il Paraguay veniva definito era “il Paese delle donne”, come risulta dal titolo dell’opera maestra sulla storia sociale paraguayana scritta dalla storica tedesca Barbara Potthast nel 1996. Anche nell’altra guerra, quella del Chaco, combattuta contro la Bolivia tra il 1932 e il 1935, le donne si fecero carico dell’attività agricola e mai come allora si ottenne tanta produzione alimentare. Eppure, nonostante questi successi, questo eroismo, questa storia, le donne paraguayane ancora oggi lottano contro la povertà e l’esclusione. L’equazione ci mostra che donna e mancanza di educazione danno come risultato la povertà. Perciò qualsiasi iniziativa dello Stato che voglia essere feconda dovrà necessariamente mirare al campo educativo, in modo da superare il ciclo della povertà e dell’esclusione in una società asimmetrica e polarizzata. Un ciclo che è diventato una ferita aperta. Nel ricordare le donne eroiche di ieri, facciamo sì che le donne di oggi ottengano quel riconoscimento dato loro da Papa Francesco: la visita al nostro amato Paraguay fa vibrare il nostro popolo di profonda emozione, di gioia e speranza. Questo articolo è stato scritto per «donne chiesa mondo» dall’équipe di catechiste e catechisti della parrocchia di San Francesco di Assisi in Ocopilla (Huancayo, Perú). L *Università cattolica Nuestra Señora de la Asunción, Paraguay Il monumento a Las Residentas a Luque in plaza de las Residenta Si ripartì dal matriarcato di ROMINA TABOADA TONINA* Nonostante l’eroismo e il coraggio del popolo paraguayano, la guerra si concluse con un massacro per il Paraguay, vista l’evidente sproporzione delle forze in campo. Tra le conseguenze di questo conflitto, vi fu anche un disastro demografico: il Paese perse tra il 50 e l’85 per cento della popolazione, e forse il 90 per cento della popolazione maschile adulta. Lo storico argentino Felipe Pigna ha realizzato uno studio in cui ha dimostrato che la popolazione passò da 1,3 milioni di abitanti a 0,3: in pratica restarono solo donne e bambini. La British Encyclopaedia del 1911 stimò che la popolazione paraguayana fosse passata da 1.337.439 abitanti a 221.079 sopravvissuti, ossia appena il 17 per cento del totale. Il Paraguay aveva praticamente smesso di esistere come comunità organizzata ed economicamente sviluppata. Restavano solo vedove, orfani, madri, figlie e sorelle indifese, che decisero di Cándido López, «Triple alianza» (XIX secolo) portare comunque avanti un Paese ridotto in cenere, facendo sopravvivere la sua fede, la sua lingua e la sua cultura. Il matriarcato che si creò in quel momento permise al Paraguay di non morire. Le nostre donne piene di coraggio, forza d’animo, pronte al sacrificio, dal cuore nobile e generoso, le nostre antenate, le nostre trisnonne, bisnonne, la garra guaraní del Dna delle donne paraguayane. Alcuni comandanti della Triplice alleanza volevano uccidere i paraguayani ancora prima che nascessero. «Di quante vite e di quante risorse abbiamo bisogno per porre fine alla guerra, ossia per trasformare in fumo e in polvere tutta la nazione paraguayana, per uccidere persino il feto nel grembo della donna paraguayana?» chiese il duca di Caixas, Luis Alves de Lima e Silva, comandante alleato del Brasile. Le donne del Paraguay scelsero invece di avere figli e di ricostruire così la famiglia paraguayana, consolidata a povertà estrema nella quale le donne che vivono nelle Ande devono provvedere alle necessità familiari ha come conseguenza anche la difficoltà nell’accesso all’educazione e la mancanza di attenzione per la salute fisica e mentale. Data la povertà delle zone rurali — raggiunge il 66 per cento e la povertà estrema il 30 per cento — le donne sono prive di diritti, pur essendo protagoniste dell’alimentazione familiare: le donne delle campagne andine infatti, da millenni, svolgono un ruolo importante nel campo della sicurezza e della sovranità alimentare; contribuiscono all’esercizio del diritto all’alimentazione delle persone e sostengono proposte volte a far sì che i popoli decidano il tipo di produzione per il loro sostentamento. Tale ruolo però non è riconosciuto né valorizzato nelle loro comunità e neppure da parte dello Stato: le donne vengono escluse dalla proprietà delle terre e dall’accesso all’acqua, dalle prese di decisioni e dalla formazione in campo tecnologico. Fin dall’infanzia su di loro gravano i lavori domestici e la cura della famiglia, anche se ciò significa trascurare se stesse e la propria salute e mettere da parte le proprie aspirazioni. Maltrattamenti fisici, psicologici e sessuali, l’incesto seguito molto spesso da gravidanze forzate per bambine e adolescenti, la tratta ai fini di sfruttamento sessuale e il femminiciLa vita quotidiana delle donne andine dio, sono alcune delle espressioni quotidiane della violenza contro le donne delle campagne andine. L’impunità di fronte a simili fatti è la norma, a causa dell’ignoranza delle donne riguardo ai loro diritti e alle norme che le proteggono, ma anche a causa di una società di tipo maschilista e della debole e inefficiente presenza e azione dello Stato, che arriva a negare alle vittime il diritto alla giustizia. che in passato e sono economicamente indi- zionano l’accesso delle donne alle opportuniIl diritto a una vita libera dalla violenza è pendenti, anche rispetto alla maternità. Il tà economiche all’interno del settore formale pertanto lungi dall’essere una realtà concreta problema è che, se la convivenza è associata di ogni economia — pone il Perú al cinquanper le donne andine delle campagne. La nor- alla povertà, la famiglia si lacera facilmente, taseiesimo posto a livello mondiale e al decimativa vigente, che risponde a una visione e ne pagano il prezzo le donne e i bambini. mo livello del continente americano. urbana e occidentale, non ha incluso la proNonostante questi ostacoli, però, la donna L’Ente delle Nazioni Unite per l’uguaspettiva interculturale. A ciò si aggiunge la andina svolge un ruolo importante all’interno glianza di genere e l’emancipazione delle mancanza di formazione e di sensibilizzazio- dell’economia, in quanto amministratrice del- donne mette il Perú al quarantanovesimo pone degli operatori responsabili della preven- le risorse familiari, ma anche, più in generale, sto quanto a partecipazione delle donne a inzione e delle sanzioni per gli atti di violenza; esercitando incarichi sempre più importanti carichi ministeriali (insieme ad Haiti, Italia, una cultura che considera normale la discri- in campo imprenditoriale, nella ricerca scien- Romania e Sud Sudan) e al cinquantottesiminazione e il maltrattamento di bambine, tifica e accademica, e persino a livello gover- mo posto rispetto al numero di donne preadolescenti, giovani e donne adulte. nativo. senti nel Parlamento (28 donne per 130 Nonostante la legge lo proibisca, ancora Secondo l’Istituto nazionale di statistica e seggi). oggi alle donne che decidono di denunciare informatica (Inei), ogni anno 187.000 donne Indubbiamente la partecipazione femminiil proprio compagno, persino in casi le è aumentata negli ultimi anni, ma ci sono di violenza sessuale, si propone la ancora molti problemi aperti, come per esemconciliazione, e le pene imposte agli pio quello dell’accesso all’istruzione superioIl diritto a una vita libera dalla violenza aggressori si limitano a multe o a re, a cui passa solo il 28 per cento delle dongiornate di lavoro comunitario. ne, e quello dell’accesso alle assicurazioni saè lontano Lo stato civile delle donne andine nitarie, che dovrebbe essere garantito a una dall’essere una realtà concreta costituisce un problema: il 78 per percentuale superiore all’attuale, che è solo per chi vive nelle campagne cento delle madri che hanno partoridel 67 per cento (Sis, Es Salud e altri). to in ospedali pubblici e cliniche del In una cultura che vede intrecciarsi cerimonie religiose tradizionali e liturgie cristiane Perú tra gennaio e ottobre del 2013 trasmesse dai missionari, le donne svolgono aveva lo stato civile di convivente, solo il 9 per cento quello di coniugata (dati entrano nel mercato del lavoro e rappresenta- un ruolo non secondario. La vita religiosa si snoda in due fasi: una del Ministero della salute). Nello stesso pe- no il 44,3 per cento della popolazione econoriodo hanno partorito anche donne single micamente attiva del Paese; il 65,5 per cento da aprile ad agosto (periodo secco, di raccol(12,26 per cento), donne separate (0,23 per opera nei settori dei servizi e del commercio, ti e di buona salute) e l’altra da settembre a cento), vedove o divorziate (0,04 per cento), mentre il 14 per cento si dedica all’agricoltu- marzo (periodo piovoso, di semine, di malatsempre in base alle cifre fornite all’agenzia ra. Il 35,6 per cento delle donne sono lavora- tia e di morte). Tra le due fasi, un periodo di Andina. trici indipendenti, mentre il 36 per cento so- transizione. Questi periodi permeano la vita delle donne andine, tanto da determinare la L’elevato numero di donne che partorisce no stipendiate. con lo stato civile di convivente rivela la fraL’indice di opportunità economiche per le data dei matrimoni, che si celebrano da aprigilità e la vulnerabilità delle famiglie, ma al donne (The Women’s economic opportunity le ad agosto. I calendari liturgici delle Ande seguono i tempo stesso mette in luce la maggiore auto- index) elaborato da The Economist Intellinomia delle donne, che oggi lavorano più gence Unit — che valuta i fattori che condi- momenti più importanti del ciclo liturgico poi nelle sue fondamenta dall’azione pastorale di grandi figure della Chiesa come monsignor Juan Sinforiano Bogarín. Dopo centocinquant’anni l’affetto che Papa Francesco ha espresso per le donne paraguayane, nel ricordare quei fatti storici, motivati da interessi meschini, che ebbero conseguenze insospettate e crudeli, ci permette di rincontrarci, rivalorizzarci e ricordare le nostre radici e cercare di risanare le ferite di quel momento così tragico. *Ambasciata del Paraguay presso la Santa Sede I riti della terra cattolico che si conciliano con le fasi della vita agricola: un primo e importante periodo di raccolti-stagione di siccità, un secondo che è la stagione definita delle piogge-periodo di semina, e tra i due un momento di separazione e di transizione (il primo periodo va da aprile a giugno, poi viene agosto, e poi c’è il secondo periodo, da settembre a marzo). Una volta terminato il raccolto, dopo l’immagazzinamento dei prodotti agricoli e la conta del bestiame, occorre rinnovare la fertilità della terra e prepararla per un nuovo periodo di “gravidanza”, con un rito propiziatorio che si effettua nel mese di agosto come devozione alla Pachamama. Nelle Ande Centrali si dà molta importanza a questa divinità, alla sua pienezza femminile e materna, benevola ed esigente. La popolazione mette in rapporto il culto alla Pachamama con quello alla Vergine Maria. Durante la festa dell’Assunzione della Vergine, chiamata comunemente Vergine Assunta e familiarmente Mamacha Asunta, si celebra infatti il “pagamento alla terra” per la Pachamama. Le feste dei santi Domenico, Lorenzo e Girolamo, celebrate ad agosto in molte comunità delle Ande, coincidono anch’esse con questo omaggio. Il terzo periodo del calendario rituale inizia nel mese di settembre, con la situa, cioè la semina mediante l’irrigazione; la terra viene arata e aperta e inizia allora il periodo della sua fecondazione. Con questo rituale si cerca di allontanare e scongiurare le malattie, le pestilenze e gli infortuni che avvengono quando si conclude il periodo della siccità e iniziano le piogge. La malattia infatti, e quindi anche la morte, è collegata alle piogge, perciò in questo periodo critico si compiono atti purificatori e si cerca di allontanare ritualmente le influenze nefaste e i mali. Le donne preparano il sango, impasto composto da farina di mais mescolata al sangue caldo di un lama appena sacrificato. Con questo yaguarsango, in modo rituale, si ungono il volto, le estremità e il corpo, e si cospargono le porte e l’interno delle case, e anche alcune provviste immagazzinate. Poi, si butta una parte dell’impasto nei fiumi per purificare l’acqua. Si consuma il sango anche collettivamente, al fine di rinnovare il patto Il loro ruolo non è riconosciuto o valorizzato né dalle loro comunità né dallo Stato Oggetto di violenze e abusi sono escluse dalla proprietà delle terre e dall’accesso all’acqua Dalle prese di decisioni e dalla formazione Nipote di una delle personalità più amate della storia cilena, con oltre venti libri Isabel Allende è una tra le scrittrici viventi più note al mondo. Tra romanzi, pagine autobiografiche, racconti, ricette e libri per ragazzi, nel 1994 è arrivato, però, il libro più difficile, Paula. È un lungo diario di addio alla figlia, morta a 28 anni di porfiria, malattia rara e gravissima che la trascinò in quasi un anno di coma. La madre, già scrittrice di successo, resta costantemente al capezzale della ragazza: prima nei corridoi di un ospedale di Madrid, poi in una stanza di albergo e infine accanto al letto nella casa in California, parla e scrive incessantemente a sua figlia. «Ascolta, Paula, ti voglio raccontare una storia, così quando ti sveglierai non ti sentirai tanto sperduta». Se i medici tentano (inutilmente) di salvare la giovane donna con la loro scienza, la madre si affida invece alla sola arma che ha: la narrazione. Perché non esiste separazione definitiva finché esiste il ricordo. Anche quando Paula si allontana mujer per diventare, e tornare poi, espíritu. (@GiuliGaleotti) Il diario Tra un’onda e l’altra Si legge come un appassionante romanzo il libro Tra un’onda e l’altra di santa Francesca Cabrini. Racconta di una donna, una suora che affronta viaggi faticosi e terribili dall’Europa al continente americano, da Le Havre a Buenos Aires. Attraversa interi e immensi Paesi, supera sui muli la Cordigliera delle Ande, passa pericolosamente per il Nicaragua, spesso senza trovare un posto per dormire e per mangiare. E intanto apre scuole, asili, fondazioni e organizza gli emigranti. Dispensa speranza. Francesca Cabrini è spinta dalla fede che in quelle terre lontane a metà del diciannovesimo secolo diventa desiderio di fare e di fare per gli altri, per migliorare un mondo che descrive in tutta la sua povertà e disperazione. Il suo libro ci dona un modello di emancipazione che sa fare i conti con la solitudine e con il pericolo e invita le donne sciogliersi da tutti i vincoli. «Scioglietevi e mettete le ali ve ne prego per istar sempre sollevate dalla terra» è il messaggio di Francesca. Anche, e forse soprattutto, alle donne di oggi. (@ritannaarmeni) Il film Ixcanul tra gli autoctoni e gli stranieri e per propiziare la semina. Nei villaggi questi riti di purificazione si realizzano all’arrivo delle prime piogge, considerate eccellenti per l’inizio della semina. Si fanno offerte, e si crede che le prime piogge si portino via le malattie, i mali e i peccati, trascinandoli lontano. Naturalmente, il ruolo della donna viene messo in evidenza e valorizzato nella devozione per la Pachamama, ritratta mentre sorride: sorriso che è il tratto peculiare del volto della donna andina. Ixcanul (Vulcano, 2015), opera prima del regista guatemalteco Jayro Bustamante, è la storia di Maria, adolescente che vive in un villaggio dove regnano ancora superstizioni e tradizioni ancestrali. Retaggi di cui la stessa Maria diventa presto vittima, visto che i genitori le combinano un matrimonio. Prima della cerimonia, però, la ragazza, refrattaria alla decisione, ha un’avventura con un ragazzo e resta incinta. Scoperta la gravidanza, i genitori spingono per l’aborto. Ma la conclusione sarà per certi versi anche peggiore. Bustamante racconta un mondo chiuso e arcaico che vive a poca ma impermeabile distanza dalla società moderna. E non ne fa certo un bel quadro, denunciando la presenza di odiosi soprusi soprattutto nei confronti delle donne. D’altronde anche l’ambiente contadino, tante volte descritto con bonomia sul grande schermo, è qui inquadrato nei suoi aspetti più crudi e violenti, quasi contigui e propedeutici alle ingiustizie della comunità che lo abita. Lo stile del regista è descrittivo e piuttosto distaccato, tanto che fino a mezz’ora dalla fine ci si chiede perché abbia optato per un film a soggetto e non direttamente per un documentario. Nell’epilogo, però, si tirano finalmente le fila del racconto, rivelando una cospirazione che in realtà ha innervato silenziosamente tutta la vicenda. Non a caso la narrazione si conclude intelligentemente in modo circolare, a rimarcare il senso di ineluttabilità che grava sulla protagonista come, non è difficile immaginare, su tante sue coetanee. (emilio ranzato) women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women IL SESSO DEBOLE «A prima vista — ha scritto qualche settimana fa «The Economist» nel suo editoriale — oggi il patriarcato parrebbe prosperare», con gli uomini che dominano dalla politica alla tecnologia, passando per il cinema. «Potrebbe dunque sembrare singolare allarmarsi per la brutta situazione in cui si trovano i maschi. Invece ci sono molte cause di preoccupazione». Se in generale i maschi finiscono in carcere molto più delle donne, hanno il più alto tasso di suicidi, sono spesso separati dai loro figli e studiano meno delle donne, ve n’è però un gruppo che soffre particolarmente: sono «gli uomini poveri e poco istruiti dei Paesi ricchi che hanno grandi difficoltà a relazionarsi con gli enormi cambiamenti che si sono verificati nel privato e nel mondo del lavoro nell’ultimo mezzo secolo». Il risultato, per loro, «è una combinazione avvelenata di nessun lavoro, nessuna famiglia, nessuna prospettiva». E il settimanale inglese così conclude: «La crescente uguaglianza tra i sessi è una delle maggiori conquiste dell’era post bellica: le persone hanno maggiori opportunità rispetto al passato di perseguire le ambizioni personali a prescindere dal loro sesso. Alcuni maschi, però, hanno fallito nel relazionarsi con questo mondo nuovo. È ora di dar loro una mano». Per il benessere di tutti, varrebbe la pena di aggiungere. A SCUOLA DI GESTIONE PER LE SUORE DI GERUSALEMME Venti suore di diverse comunità religiose presenti a Gerusalemme hanno preso parte a un corso sulla gestione dei progetti di carattere sociale e caritativo, organizzato nella casa delle missionarie comboniane. Durato una settimana, il corso è stato coordinato da Charles Camara, esperto di Project Management e collaboratore della diocesi cattolica di Stoccolma, che ha indicato alle religiose alcuni criteri-guida per gestire un progetto, come la valutazione del bilancio, la stima dei costi operativi, le modalità per la raccolta e la gestione delle offerte. Partecipando a fine evento alla consegna dei diplomi, il vescovo William Shomali, vicario patriarcale di Gerusalemme, nel plaudere all’iniziativa, ha ricordato come la Chiesa sia oggi chiamata a essere più trasparente nella gestione di progetti e denaro, secondo le chiare indicazioni di Papa Francesco. L’ISTINTO DI MAMMA CICO GNA Tra i danni censiti dopo il rogo del municipio di Brunete, piccolo centro a trenta chilometri da Madrid, c’è anche il dramma di una famiglia di cicogne, che aveva messo su casa sul tetto dell’edificio. Appena il nido è stato lambito dalle fiamme — ha raccontato «La Razón» — papà cicogna, seguendo l’istinto di conservazione, è volato via. La mamma, invece, rischiando la vita, ha cercato in ogni modo di salvare i due piccoli, bruciandosi gran parte delle penne: i pulcini, infatti, nati da poco più di un mese, non erano ancora in grado di volare, e così mamma cicogna, trascinandoli con il becco, ha cercato di tirarli fuori dal nido in fiamme. Purtroppo solo uno dei due è riuscito a sopravvivere. Il piccolo superstite, ribattezzato Brunete dagli abitanti della cittadina, è stato adottato come mascotte insieme alla madre coraggio che ha sfidato il fuoco per proteggere la sua nidiata. Cerezo Barredo, «Magnificat» (pittura murale, chiesa di Luciara, prelatura di São Félix, Brasile, 1993) dei migranti» ha sottolineato suor Neusa. «Le parole di Gesù “Ero migrante e mi avete accolto” ci fanno capire, vivere e vedere il volto di Cristo nel volto di ogni migrante, soprattutto in questa realtà così vulnerabile» hanno quindi aggiunto suor Zenaide Ziliotto, superiora provinciale, e suor Ires da Costa, pioniera della missione. La giornata si è conclusa con la preghiera nella cappella della comunità Nostra Signora Pellegrina, dove erano rappresentate varie congregazioni. LE RELIGIOSE PER I MIGRANTI A RIO BRANCO Nella diocesi di Rio Branco, in Brasile, è stata ufficialmente inaugurata una nuova presenza missionaria per il servizio evangelico ai migranti delle suore missionarie di San Carlo Borromeo - scalabriniane. Al taglio del nastro erano presenti — oltre a circa quattrocento migranti — il vescovo di Rio Branco, monsignor Joaquín Pertíñez Fernández e suor Neusa de Fatima Mariano, superiora generale della congregazione. «Confidiamo che il Signore, per intercessione di Maria, madre dei migranti, del beato Giovanni Battista Scalabrini, apostolo dei migranti, e della beata Assunta Marchetti, possa sostenere questa nuova presenza missionaria della congregazione, come una realtà di solidarietà e accoglienza in difesa della vita e dei diritti Mensile dell’Osservatore Romano luglio 2015 numero 37 A cura di LUCETTA SCARAFFIA (coordinatrice) e GIULIA GALEOTTI Redazione: RITANNA ARMENI, CATHERINE AUBIN, RITA MBOSHU KONGO, SILVINA PÉREZ (www.osservatoreromano.va, per abbonamenti: [email protected]) SCIENZIATE E LO SCIENZIATO Aveva detto che era «meglio non avere donne nei laboratori perché ci innamoriamo di loro, si innamorano di noi e quando le criticate si mettono a piangere». E così, giustamente travolto dalle critiche, Tim Hunt, premio Nobel per la medicina nel 2001, si era dimesso dall’University College di Londra. La nuova punizione però ora arriva dalle colleghe scienziate che hanno lanciato una campagna fotografica via twitter per rispondere con il sorriso alle frasi sessiste. L’hashtag #distractinglysexy è così utilizzato da biologhe, archeologhe, chimiche, geologhe e via dicendo per far circolare immagini ironiche sulla capacità femminile di distrazione — tra tute da lavoro e occhialoni sul naso — sul posto di lavoro. Ancora una volta, donne e ironia contro il sessimo. LE RAGAZZE RAPITE E STUPRATE DA BOKO HARAM «No all’aborto di massa per le ragazze liberate dopo essere state rapite e stuprate da Boko Haram; siamo pronte ad aiutarle»: così monsignor Anselm Umoren, vescovo ausiliare di Abuja e presidente del comitato per la salute della Conferenza episcopale della Nigeria. «Condanniamo con forza alcune linee d’azione suggerite da diverse persone e gruppi in direzione di aborti di massa» afferma in un messaggio inviato all’Agenzia Fides il presule, facendo riferimento al dibattito in corso su come aiutare le ragazze rimaste incinte. «Non è sostenibile la posizione secondo cui l’uccisione dei bambini concepiti a seguito della violenza sessuale dei terroristi sia l’azione più umana da assumere. Dato che i nascituri sono innocenti e ignari dei crimini commessi contro le loro madri, è immorale punirli per i peccati e i crimini dei loro padri traviati». Il responsabile della pastorale della salute sottolinea che la Chiesa cattolica è pronta ad aiutare le vittime che hanno subito «l’enorme trauma» dello stupro. «In collaborazione con tutte le persone di buona volontà, la Chiesa cattolica in Nigeria è pronta a fornire tutto il supporto necessario per accelerare la cura, la riabilitazione e il ristabilimento delle vittime, in modo che possano essere reintegrate rapidamente nella società». donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne Tutto nello stesso giorno Maddalena, santa del mese, raccontata da Teresa Ciabatti quindici anni Maddalena aveva vissuto molte esperienze: pasticche, sesso in chat con sconosciuti, sesso a tre. Sì, lei aveva vissuto. Poi però quella che le era sembrata vita, distinzione di privilegio — «tutti mi vogliono» — era diventata colpa. È colpa mia, si ripeteva da un mese. Per quello che ho fatto Dio mi ha punita, si rannicchiava nel letto, le persiane aperte, fuori la notte, si accoccolava in posizione fetale. Lui era sparito il 12 marzo. Uscito per andare a vedere la partita al bar, mai più tornato. Nessuno l’aveva visto. Malore, sequestro, allontanamento volontario. «Se fossi stata buona — si ripeteva Maddalena — se avessi studiato, se non fossi uscita di nascosto». E intanto era passato un mese. Un mese senza papà. Con difficoltà aveva ripreso la vita di sempre. Se la prima settimana non era andata a scuola, poi era dovuta tornare. Tutti sapevano e la trattavano bene. Di più: con pena, piccola Maddy, povera Maddy. Nessun maschio però le chiedeva di andare in bagno, o di vedersi in palestra. Cos’era successo? Nessuno più la desiderava. Eppure era sempre lei: stessi occhi azzurri, stessa bocca piena, stesse gambe lunghe. Nei corridoi vedeva gli altri amoreggiare, oh le sembrava che il mondo intero amoreggiasse, quanto amore intorno a lei! Vedeva le vite degli altri andare avanti: Simona si era messa con Gianluca, Giada aveva fatto sesso con Federico, pensava di iniziare una storia, ma lui si era messo con Carla. Dennis aveva chiesto a Stefania di vedersi di pomeriggio, lei era indecisa, preferiva Paolo, ma Paolo voleva Maddalena, lo sapevano tutti. Anche se adesso Maddalena si domandava se fosse ancora così. Non che le piacesse Paolo, non le era mai piaciuto. La vita di tutti procedeva, tranne la sua. Lei era ferma al 12 marzo, inchiodata laggiù, quando invece erano passati due mesi, già due mesi senza papà. «La colpa è mia? — si torturava Maddalena — Davvero Dio mi ha punita?». Giorno dopo giorno tuttavia la colpa si confondeva col privilegio perduto («Tutti mi vogliono»). Insieme al padre, svaniva anche lei, lei desiderata dai maschi, lei invidiata dalle femmine. Si allontanavano insieme, padre e figlia, giorno dopo giorno. Sul vetro della finestra di camera, la sua immagine riflessa le pareva sempre più evanescente, un’immagine che si sovrapponeva al campo fuori, alla linea di palazzi sul fondo, il punto più lontano, e no, papà non era neanche laggiù. In quel punto spariva lui, e anche lei. Non era solo lotta contro l’assenza la sua. Stava diventando altro, sopravvivenza, foga per non dissolversi anche lei. Lei c’era ancora! Era qui — avrebbe voluto gridare in piedi sulla finestra — «Guardatemi, amatemi!». Nella sua mente succede tutto lo stesso giorno. Tre mesi. A tre mesi senza papà, lei si avvicina a Paolo e gli dice che deve parlargli, una cosa privata, bagno femmine. Nel bagno lo bacia. E lo bacia ancora, mentre chiede — ansiosa, disperata — se la desideri: «Dimmi che mi vuoi sempre». E lui dice sì, intontito dall’eccitazione, dice sì. Allora succede qualcosa. Maddalena si ferma. Pensa: «Papà». Pensa: «Dio mi vede». Nella sua mente succede tutto lo stesso giorno. Colpa e redenzione. Va bene, gli ha tirato giù i pantaloni, ma poi basta. Peccato a metà. «Quasi non peccato, mio Signore». Nella realtà torna in classe, si siede al banco, passa l’ora di storia, e quella di matematica. Nel ricordo invece, dal bagno Maddalena fugge. Fuori da scuola, fuori dal cancello. Corre fino al campo, lo attraversa, arriva alla strada sterrata, prende fiato, poi torna a correre. Entra in casa, e su per le scale, sempre di corsa, due scalini alla volta. Nel ricordo è lo stesso giorno, così avrebbe ricordato per il resto della vita, nella realtà ci sono venti giorni di differenza. La mattina nel bagno con Paolo, venti giorni dopo alla finestra di camera sua. Venti giorni che l’avreb- A Dal Paraguay alle Madres de Plaza de Mayo I tanti colori della storia di Esther di GIULIA GALEOTTI a prima cosa che colpisce, entrando nella piazza, sono i colori. Il prato, le bandiere, i toni della Casa Rosada, ma anche quelli del Banco de la Nación Argentina e della cattedrale, sulla sinistra. Eppure, a metter bene a fuoco gli spazi, non v’è nulla di particolarmente sgargiante in Plaza de Mayo nel cuore di Buenos Aires: il punto è che la storia delle Madres e, con loro, la storia delle vittime della dittatura argentina, è — per chi non l’ha vissuta in prima persona — una storia in bianco e nero. È, infatti, la storia dei volti sorridenti che rimbomba dalle migliaia di fotografie sventolate, nella disperazione, da chi non si è voluto rassegnare alla scomparsa dei propri cari, inghiottiti nel silenzio assordante della Guerra Sucia. Eppure, scavando un po’, ci si accorge che nelle vicende di questo popolo indomito e delle sue Madres, di colori ce ne sono migliaia. È il caso della storia di Esther Ballestrino, paraguaiana paladina dei deboli che, nel tentativo di sfuggire alla dittatura nel suo Paese, si rifugia nella vicina Argentina, finendo così inghiottita da un altro disumano regime. I colori della storia di Esther sono, innanzitutto, i colori di Encarnación, terza città del Paraguay, dove la bimba nasce nell’inverno del 1918, il 20 gennaio. Esther è vispissima sin da piccola, in famiglia, con gli amici, nello studio. E mentre si diploma come maestra prima e si laurea, poi, in biochimica e farmacia all’università di Asunción, è già attivissima in favore degli ultimi e dei perseguitati. Sostiene il Partito Revolucionario Febrerista d’ispirazione socialista e, mentre infuria la dittatura di Morínigio (1940-1948), a 28 anni è tra le promotrici della Unión Democrática de Mujeres, che si scioglierà l’anno dopo per dare origine al Movimento Femenino Febrerista de Emancipación. È il 1947. Il regime, però, non perdona: Esther si trova dunque costretta a scappare nella vicina Argentina, dove si sposa con Raymundo Careaga. Oltre ai colori della passione politica, gli anni successivi hanno i colori di una vita che scorre febbrile e appassionata a Buenos Aires. Nascono tre figlie — Esther, Mabel e Ana María — ma la madre riesce comunque a districarsi tra gli impegni, proseguendo nella sua professione di biochimica. A metà anni Cinquanta, mentre Esther è direttrice di un laboratorio, arriva a lavorarvi un ragazzo di origine italiana. Si chiama Jorge Mario Bergoglio. Le differenze tra loro sono tantissime, ma questo non impedirà la nascita di un rapporto profondo e duraturo. Passano intanto gli anni finché, il primo luglio 1974, con la morte di Peron, i colori dell’Argentina si fanno sempre più tetri, culminando nel golpe del 24 marzo 1976. E così la dittatura irrompe per la seconda volta nella vita di Esther. Il copione è il medesimo: lei — appassionata di giustizia, amica dei deboli e simpatizzante comunista — continua a parlare, a scrivere e a battersi per la libertà, mentre il regime la guarda a vista. In realtà inizialmente Esther chiede — e sorprendentemente ottiene — la condizione di rifugiata dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr/Acnur), uno dei pochissimi casi in tutta l’America latina, ma ovviamente ciò non impedisce che la Guerra Sucia deflagri tra i suoi affetti più cari. Il 13 settembre 1976 viene sequestrato il genero Manuel Carlos Cuevas, marito della secondogenita Mabel. È in questo frangente che padre Bergoglio riceve una strana telefonata dalla direttrice di un tempo — con cui non ha in realtà perso i contatti. Lui, sacerdote gesuita, corre a casa dell’amica atea e comunista, ma quando arriva è chiaro che della suocera per cui è stata chiesta l’estrema unzione non v’è traccia. Esther gli domanda aiuto perché la figlia minore, Ana Maria, è sotto controllo e bisogna liberarsi della sua biblioteca marxista. Bergoglio non batte ciglio: prende i libri e se li nasconde in casa. Il rischio che corre è enorme: nell’Argentina del tempo, essere un religioso non è affatto una protezione. Nascondere i libri, però, non salva la ragazza che il 13 giugno 1977 viene arrestata. Ha solo 16 anni ed è incinta di tre mesi: anche lei, come un numero impressionante di coetanee, viene torturata nel Club Atlético a San Telmo, un centro clandestino di detenzione. Dal giorno dell’arresto della figlia minore, un nuovo colore entra nella vita di Esther: il bianco dei fazzoletti delle Madres de la Plaza de Mayo, fondate il 30 aprile 1977 quando 14 madri marciano nella piazza chiedendo di conoscere la sorte dei figli scomparsi. E dal 14 giugno, ogni giovedì, anche Esther è della partita. Fortunatamente, però, in ottobre Ana Maria viene rilasciata: Esther capisce che deve portare le sue tre figlie in salvo, prima in Brasile e poi in Svezia. Ma l’esilio dura poco: le Madres la supplicano di restare dov’è, ma Esther torna: «Resto qui, insieme a voi, finché non li riavremo tutti vivi», è la sua risposta, testimoniata anche da un infiltrato militare, Gustavo Astiz. È un attimo, e il colore della tragedia chiude la storia di questa donna appassionata e coraggiosa. L’8 dicembre, infatti, all’uscita della chiesa di Santa Cruz (tra le vie Urquiza e Estados Unidos), al termine di una riunione per raccogliere fondi per la pubblicazione sul quotidiano «La Nación» della lettera che chiedeva conto alle istituzioni delle persone scomparse, Esther viene arrestata — insieme alla madre María Ponce e ad altre dieci persone, tra cui due monache francesi, Alice Domon e Léonie Duquet — dall’ex capitano della marina militare Alfredo Astiz. Ha 59 anni e non farà mai ritorno a casa. Secondo alcune testimonianze, Esther avrebbe trascorso qualche giorno nel settore Capucha dell’Esma (Escuela Mecánica de la Armada), il più efferato centro di detenzione situato proprio nel cuore di Buenos Aires, prima di essere eliminata con un volo della morte. «Una donna straordinaria, una grande donna a cui devo molto», racconterà decenni dopo quel giovane di origine italiana che aveva lavorato alle sue dipendenze a Buenos Aires: «In quel laboratorio capii il bello e il brutto di qualunque attività umana». L Nata e cresciuta a O rbetello, Teresa Ciabatti ha scritto i seguenti romanzi: Il mio paradiso è deserto (Rizzoli, 2013), Tuttissanti (Il Saggiatore, 2013), I giorni felici (Mondadori, 2008), Adelmo, torna da me (Einaudi Stile Libero, 2002). Collabora con La Lettura e Io Donna. Giovanni Bellini, «Madonna con Bambino e le sante Caterina e Maria Maddalena» (1490 circa, particolare) bero potuta liberare dall’idea — presto ossessione — che Dio ti vede e punisce. O premia. E dunque nel ricordo: lei corre su per le scale, entra nella sua stanza, guarda fuori dalla finestra, al punto più lontano. E allora lo vede. Una figura piccola piccola in fondo alla strada. Maddalena non vuole gridare, ha paura che si dissolva, che sparisca di nuovo. Smette persino di respirare. Lui sempre più vicino. È davanti casa, apre il cancelletto. Lei ancora immobile alla finestra. Sente le voci al piano di sotto, la mamma che piange. I passi, sente i passi pesanti che non sentiva da mesi, li risente! E la porta della stanza si apre, e appare la figura scontornata nella luce, tanto che lei deve strizzare gli occhi per metterlo meglio a fuoco. Oh, i suoi capelli hanno un alone argentato. Nella sua mente succede tutto lo stesso giorno. Colpa, redenzione, e risurrezione. Dall’assenza alla presenza di MARY MADELINE TODD I donne chiesa mondo luglio 2015 proprietaria — mi ha risposto con gli occhi colmi di tristezza — la cederebbe volentieri per poter avere indietro suo marito e la famiglia che sperava di farvi crescere». Quando ci si allontana delle persone più vicine, coloro il cui amore è una ricchezza autentica, il senso di isolamento può rendere il vuoto opprimente. Il problema dell’assenza non è soltanto fisico, ma anche spirituale. Pur stando con qualcuno, possiamo essere chiusi al dono dell’altra persona. Nel dramma di Karol Wojtyła Raggi di paternità, Adam, il personaggio centrale, si trova in mezzo a una folla di lavoratori alla fine di una giornata di fatiche. È in mezzo a tante persone, ma si sente completamente solo. Ha rifiutato sia la paternità di Dio, sia quella propria, considerando tali relazioni una zavorra alla sua libertà. Sperimenta un risveglio quando si rende conto che, a partire dall’interno della famiglia, è stato lui a scegliere il suo isolamento, e che non è tanto solo quanto chiuso. È stata la sua paura di affidarsi a un’altra persona e di accettare la responsabilità per un’altra persona l’origine della sua scelta di essere assente dalla comunità. Si rende conto che può scegliere di rischiare l’amore, di permettere a se stesso di essere il “mio” di qualcun altro e di accettare qualcun altro come “mio”. Di recente mi sono fermata a mangiare con un’amica in un ristorante molto affollato all’ora di pranzo. A ogni tavolo c’erano persone sedute assieme; erano in presenza le une delle altre senza dirsi una parola. Tutte controllavano i loro messaggi sui telefonini o la posta elettronica, oppure navigavano in rete. Era un’icona di “assenza reale”, ovvero dell’incapacità di essere attenti al dono dell’altro. Essa isola la persona e la lascia sola nella prigione dell’individualismo. Nell’icona della Trinità di Rublev vediamo l’esatto contrario di questa assenza reale. Le tre persone divine sono sedute al tavolo, guardandosi in faccia. Le teste chine del Figlio e dello Spirito, che sono rivolte verso il Padre, esprimono un’attenta riverenza per colui che è come loro, ma anche personalmente unico. La loro apertura reciproca non li rinchiude in se stessi. Li apre a una comunione condivisa con chi guarda l’immagine. Il quarto posto a tavola è sul lato dello spettatore, che è invitato non soltanto a condividere il pasto, ma anche a entrare in maniera più intima nella presenza dei tre e a partecipare alla gioia della comunione di vita. È possibile riscoprire il dono della presenza reale in famiglia, ma occorre un modo di pensare e di agire intenzionale e controculturale. La presenza presuppone la scelta di essere con l’altro. Questa scelta è, di per sé, un’amorevole affermazione dell’altro. La scelta di stare con una persona dice: «Sei degno del mio tempo. Stare con te è bello perché tu sei bello». Tuttavia, più in profondità, la scelta di essere attenti all’altro mentre siamo insieme esprime un amore preferenziale. Dice: «Sei la persona più importante per me in questo momento. Sei più importante di questo affare, di questa telefonata, di questa e-mail». Il Mary Madeline Todd è una religiosa domenicana della Congregazione di Santa Cecilia a Nashville, Tennessee, negli Stati Uniti. Dopo il diploma magistrale in letteratura, ha conseguito il dottorato in sacra teologia presso la Pontificia università San Tommaso d’Aquino a Roma. Tra le sue pubblicazioni, «Two Women and the Lord; the Prophetic Vocation of Women in the Church and the World», in «Promise and Challenge» (a cura di Mary Rice Hasson, Huntington, Our Sunday Visitor, 2015). È professore assistente di teologia all’Aquinas College di Nashville. l’autrice l cuore umano non può sentirsi appagato senza amore, senza unione con le persone care. Come nell’eucaristia, anche nella famiglia non possiamo sperimentare la gioia della comunione se non c’è prima la presenza, una presenza reale e solida. Non è un segreto che oggi la famiglia deve affrontare molte sfide importanti. Spesso guardiamo ai problemi e proponiamo soluzioni dall’esterno, ovvero dal punto di vista dell’economia, delle strutture legali e sociali o dei cambiamenti culturali, che sono fattori esterni importanti per il benessere umano; ma il rafforzamento della vita familiare inizia dall’interno, dal punto di vista della persona e dal desiderio innato di ognuno di amare e di essere amato. Dalla prospettiva personale vediamo che non stiamo solo cercando di affrontare problemi sociali, ma che c’è anche una ferita interna profonda che deve essere guarita, nel cuore e nell’anima stessa della famiglia e della vita familiare. Alla presenza di Gesù Cristo con noi nella Chiesa, che ci parla attraverso la Parola e dimora con noi nell’eucaristia, possiamo riscoprire quella presenza che guarisce le ferite dell’assenza. Imparare a discernere la sua presenza ed essere presenti per lui ci apre, a sua volta, alla presenza degli altri. Oggi viviamo una crisi derivante dal fatto che, sebbene desideriamo la presenza di un’altra persona con cui poter condividere la vita e noi stessi, troviamo invece assenza. L’assenza più ovvia è quella fisica delle persone tra di loro. Il lavoro è una parte integrante della vocazione umana, ma può diventare una via di fuga dalle fatiche, spesso più ardue, di costruire rapporti. Il lavoro dovrebbe essere al servizio della vita familiare e non a suo detrimento. Purtroppo, nel mondo molte famiglie vengono separate da circostanze che sono al di fuori del loro controllo, come la guerra e il terrorismo, che le costringono a fuggire dalle loro case, oppure la povertà, che le pone in condizione di accettare qualsiasi tipo di lavoro ovunque per poter sopravvivere. Siamo chiamati a pregare e a lavorare per una società più giusta, una società che, anche in tempi di crisi, dia la priorità alla famiglia e al suo bisogno di unità. Tra coloro che le circostanze della vita rendono liberi di scegliere come trascorrere il proprio tempo c’è un’assenza forse ancor più dolorosa perché è stata scelta. L’illusione che avere o sperimentare di più possa colmare il vuoto interiore spinge le persone a cercare beni, esperienze o piaceri. Queste ricerche di per sé non hanno la capacità di realizzare i desideri più profondi del cuore umano. Specialmente nelle società opulente, sono in tanti a cercare di possedere e di fare sempre più, solo per ritrovarsi sempre più insoddisfatti. Una volta, passando davanti a una casa splendida con giardini rigogliosi, ho fatto a una mia amica un qualche commento a proposito. «Conosco la susseguirsi di tanti di questi momenti, col passare del tempo diventa per la persona una garanzia d’amore, la base di un vincolo profondo di comunione. Dopo questa scelta che esprime una preferenza per l’altra persona, la presenza è poi mediata dallo sguardo. Quando Dio ha creato il mondo, il suo sguardo ha rispecchiato e comunicato la bontà di tutto ciò che aveva fatto. Dopo aver creato la persona umana, uomo e donna a immagine divina, lo sguardo di Dio ha suggerito l’affermazione che erano cosa molto buona. Il primo sguardo che si sono rivolti Adamo ed Eva era pieno di meraviglia e di stupore, uno sguardo che gioiva nel vedere un altro con cui poter condividere la propria vita in un incontro pienamente personale. Hans Urs von Balthasar scrive spesso dello sguardo della madre che comunica al figlio la bontà della sua persona, risvegliando il bambino alla realtà di essere amato. Nella famiglia ogni persona è invitata a guardare all’altro, a trasmettere con uno sguardo di ammirazione e affetto la bellezza che si vede nell’altro. È fondamentale al fine di essere presente l’uno all’altro. Oltre che alla vista, la presenza si affida all’udito, e più che all’udito, all’ascolto. L’iconografia tradizionale rispecchia l’importanza di vedere e sentire. Le persone dipinte nelle icone hanno occhi e orecchie grandi, ma la bocca di solito è piccola. Questa raffigurazione è un’istruzione per la preghiera attenta. Invita chi prega a guardare e ad ascoltare, ma a parlare molto poco. Questo atteggiamento è certamente fondamentale per la preghiera, ma lo è anche per una presenza attenta agli altri. Le persone che vivono in città affollate sono spesso quelle più sole. Circondate da tanti, sono alla presenza attenta di nessuno. Ciò può facilmente accadere persino in famiglia. L’attivismo della vita moderna può assorbire così tanto del nostro tempo e della nostra attenzione, da lasciarne molto poco per le persone a casa. L’onnipresenza del rumore e la sovrabbondanza di parole possono renderci sordi alla voce degli altri. Corriamo il pericolo di diventare estranei che vivono sotto lo stesso tetto. Guardare e ascoltare sono i primi elementi dell’ospitalità, dell’accoglienza e del dono della presenza reale. La verità di questa dinamica è evidente nella visita di Gesù in casa di Marta e di Maria a Betania, così come viene narrata nel vangelo di Luca. Marta lavora diligentemente per mostrare ospitalità a Gesù. Prepara un pranzo che potrebbe offrire un’opportunità di comunione della mente e del cuore ma lo prepara con grande distrazione dello spirito. Il problema non è la sua azione, ma piuttosto il suo spirito di attivismo. Concentrandosi troppo sul lavoro che sta svolgendo, ha perso di vista la relazione che è il motivo del suo lavoro. Maria, d’altro canto, comprende il primato della relazione con l’ospite. È consapevole che guardare e ascoltare sono necessari se vuole essere presente a Gesù. È questa la prima ospitalità, il dono di attenzione amorevole per l’altro. Questa attenzione amorevole può motivare l’azione. La vita familiare è piena di atti di servizio, ma, affinché questi gesti comunichino l’amore che li origina, occorre prima essere presenti gli uni agli altri. La presenza rivela amore, e la presenza duratura rivela amore immutato. È ciò che ci ha insegnato Cristo con i doni dell’eucaristia e dello Spirito Santo. Prima di ritornare al Padre, ha assicurato ai suoi discepoli: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Matteo, 28, 20). Il desiderio di Dio di essere con noi, espresso nella maniera più piena dalla sua incarnazione, dal suo venire tra noi come uno di noi, permane. In lui e nella sua fedeltà c’è il primo e più profondo rimedio all’assenza reale. Egli è realmente presente, infinitamente attento, scegliendo incessantemente di essere con noi e in noi. Non è mai troppo indaffarato per sentirci, per ascoltare i desideri del nostro cuore, che solo lui può realizzare. Gesù c’incontra negli eventi comuni della nostra vita quotidiana così come incontra la donna di Samaria, seduto accanto al pozzo, riconoscendo la nostra sete d’amore e offrendoci di placarla. Ci offre, come ha fatto con lei, il dono di acqua viva che sgorga da dentro. Ci insegna a rendere culto in Spirito e in verità, a riconoscere che ogni momento può essere un punto d’incontro con colui che ha sete del nostro amore come noi abbiamo sete del suo. Ci manda a condividere con le persone che amiamo l’invito a incontrarlo a loro volta. Ci rende testimoni del potere salvifico della sua presenza. Gesù c’incontra come ha incontrato i discepoli scoraggiati sulla strada di Emmaus. Avvia con noi una conversazione, profondamente interessato alle nostre speranze e ai nostri sogni, alle nostre delusioni e ai nostri dubbi. Partecipa al nostro dispiacere e con la sua parola getta luce sulle nostre domande. Cammina con noi sulle strade che percorriamo e si siede a tavola con noi, facendosi riconoscere per mezzo della frazione del pane. In sua presenza, apprendiamo di essere amati. Questo amore, incondizionato e incessante, ci dà la pace per accogliere gli altri, la libertà interiore per scegliere di essere presenti per loro, uno sguardo nuovo per guardarli in maniera amorevole e la pazienza di ascoltarli con cuore attento. Oggi, lo sforzo di essere presenti agli altri è una sfida più grande che mai. Abbondano le opportunità di partecipare a eventi e attività, di accedere a informazioni da tutto il mondo e all’intrattenimento su richiesta. Per quanto queste opportunità possano essere rinvigorenti, una così vasta gamma di possibilità può creare l’illusione di tempo illimitato e di impegno infinito. Possiamo dimenticare i limiti della nostra umanità. Sì, possiamo avere centinaia di “amici” attraverso i social network, ma riusciamo a conoscere in profondità solo poche persone. Nel perseguire questa molteplicità di legami superficiali, rischiamo di non avere relazioni profonde. Talvolta ci risvegliamo al bisogno di resistere consapevolmente alla superficialità che ci mantiene a galla nella vita. Possiamo anche Andrej Rublev, «Trinità» cadere preda delle pubblicità del consumismo, che promettono gratificazioni istantanee dei nostri sensi e delle nostre emozioni. Se ci soffermiamo a riflettere sulle nostre esperienze, scopriremo che per conoscere noi stessi e gli altri in profondità serve la pazienza necessaria per crescere nella conoscenza e nell’amore nel tempo. La riscoperta della ricchezza dell’amore, che la famiglia possiede in comunione, presuppone un nuovo impegno alla presenza reale. Invita a scegliere di trascorrere del tempo con l’altro. Esorta ognuno a essere attento, ad ascoltare e a rallegrarsi nell’altro, la cui differenza è un arricchimento e non una minaccia. Alla presenza del santissimo sacramento, siamo seduti ai piedi del maestro che può aiutarci a imparare come stare fermi alla presenza dell’altro, e quindi come essere attenti alla bellezza di ogni altra persona. Scopriamo in Cristo, presente a noi nell’eucaristia, e dentro di noi attraverso il suo Spirito che alberga in noi, la verità che l’amore è presenza persistente. Nella sua dottrina sociale, la Chiesa afferma ripetutamente che la società è forte solo nella misura in cui lo è la famiglia. La famiglia è forte solo nella misura in cui lo è l’amore che unisce ciascuno agli altri. L’amore in seno alla famiglia è forte solo nella misura in cui lo è l’impegno a essere realmente presenti, e in tal modo di amarci gli uni gli altri come siamo stati amati per primi.
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