donne chiesa mondo

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Sua madre confrontava
tutte queste cose nel suo cuore
L’OSSERVATORE ROMANO luglio 2015 numero 37
Le donne latinoamericane
Dalla politica all’attivismo per la difesa dei diritti umani,
dalla scienza all’arte, la storia latinoamericana è popolata
da donne che hanno dettato legge e svoltato epoche. Ci
sono quelle che hanno dominato la scena politica,
reggendo per anni governi e lottando per la conquista del
potere. O quelle che il primo fine settimana di ottobre
trovano ogni anno la forza evangelizzatrice della pietà
popolare ripercorrendo a piedi 67 chilometri nel segno
della venerazione alla Madonna di Luján (raffigurata qui a
sinistra), patrona dell’Argentina. Ci sono quelle con forti
ideali, che hanno combattuto in nome di un diritto, di un
principio morale o dell’uguaglianza civile. E poi ci sono
quelle che marcano un’epoca e che segnano una grande
svolta. È il caso di Frida Kahlo, nata nel 1907 in Messico,
prima donna pittrice a vendere un dipinto al Louvre e
prima artista latinoamericana a presentare i suoi lavori in
una galleria parigina. Oppure il caso di Evita Perón che,
morta a soli 33 anni, fu la prima in America latina a essere
candidata, nel 1951, alla vicepresidenza in Argentina: il suo
ingresso in politica segnerà la fine della società
tradizionale argentina. La politica per Evita e l’arte per
Frida sono la chiave di ingresso in spazi tradizionalmente
maschili. Evita farà leva proprio sulla differenza per
inserirsi nella scena politica senza mettere in discussione,
in un primo momento, la divisione degli spazi maschili e
femminili. Frida invece costruirà un percorso che inizia
dal riconoscimento delle proprie radici e finisce con il
diritto a partecipare e a essere politicamente presente nella
comunità. Per entrambe, ciò che era personale era anche
politico. È questo il filo rosso che unisce storie e momenti
diversi delle donne latinoamericane: la dimensione politica
della solidarietà. Che va da Rigoberta Menchú — premio
Nobel per la pace (1992) e depositaria della cultura degli
indios, una dei pochi indigeni sopravvissuti al genocidio
in Guatemala — a Estela Carlotto, inossidabile leader delle
di SILVINA PÉREZ
onsignor Óscar Romero
fu ucciso mentre stava celebrando la messa nella
cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza a
San Salvador, il 24 marzo 1980. Colpito
alla testa, cadde immediatamente. Secondo la registrazione audio, il colpo venne
sparato durante la consacrazione eucaristica, mentre Romero alzava il calice verso
l’alto. Per anni aveva denunciato le ingiustizie in Salvador e le violenze della polizia e dei militari contro i più deboli. Nel
1983, in visita in Salvador, Papa Wojtyła si
recò a pregare sulla tomba del vescovo. La
causa di beatificazione è iniziata nel 1997
ma si era poi bloccata, fino alla decisione
di Papa Francesco. E così il 23 maggio
scorso Romero è stato proclamato beato.
M
donne chiesa mondo
Ancora oggi ascolto
i nastri delle sue bellissime omelie
Ogni volta è un grande dolore
pensare alla sua solitudine
Cecilia Romero è una delle nipoti di
Romero e ha partecipato alla messa a San
Salvador. Emozionata ci racconta quel
giorno. A San Salvador alla messa di beatificazione hanno partecipato 260 mila fedeli. Romero diventa il primo della lunga
schiera dei nuovi martiri contemporanei.
Quanto è stato importante il ruolo di Bergoglio nell’accelerare il processo di beatificazione? «Senza alcun dubbio, molto. Per
noi è un grande segnale di riconciliazione
e speranza. Era inspiegabile che un sacerdote ucciso sull’altare mentre celebrava la
messa non fosse riconosciuto martire. In
questo modo la Chiesa oggi afferma ufficialmente che monsignor Romero non ha
sbagliato in ciò che ha detto e fatto, così
come alcuni hanno continuato
a sostenere per anni. Credo che
ci volesse il primo Papa latinoamericano per beatificare il
difensore del popolo del Salvador! Mancavo dal mio Paese da
undici anni e ho condiviso a
San Salvador insieme ai suoi
due fratelli ultraottantenni, Tiberio e Gaspar, questa gioia
immensa».
Resterà per sempre l’immagine del suo corpo insanguinato
circondato dai fedeli. Il momento della morte: cosa ha significato per lei quello scatto?
«Ha reso ancor più eterna la
sua figura di vescovo che era
dalla parte degli ultimi. Fu il
segno indelebile di un atto
atroce che ha colpito almeno
tre generazioni di salvadoregni.
Un colpo solo, terribile. Romero sapeva bene che prima o poi
abuelas, le coraggiose “nonne” di Plaza de Mayo la cui
resistenza non nasce come un movimento politico, bensì
da un’elementare risposta umana. Si tratta di donne di
diversa estrazione sociale, per lo più modesta, cresciute nel
rispetto dell’autorità sociale e familiare, e nel desiderio di
una normale vita quotidiana. Arrivano spontaneamente
all’azione politica dall’universalità dei valori e dai diritti
umani calpestati dal potere. Svolgono dalla fine degli anni
Settanta un lavoro politico di incredibile lucidità,
concretezza ed efficacia, che sarà il seme su cui si
consoliderà l’attuale democrazia dei Paesi dell’America
meridionale. A partire degli anni Ottanta sono altre donne
quelle che sviluppano strategie di tipo comunitaria, rivolte
al rinnovamento di strutture sociali e in grado di
condividere i successi altrui, piuttosto che vedere in essi
una minaccia al proprio ego e all’affermazione della
propria soggettività. Ciò che metodologicamente
caratterizza le donne latinoamericane di questi anni è il
costante riferimento a fatti sociali, reali e concreti dai quali
hanno origine le condizioni di sfruttamento in diversi
campi. (silvina pérez)
Quel diploma mai consegnato
A colloquio con Cecilia, una delle nipoti di monsignor Óscar Romero
l’avrebbero ucciso ma non indietreggiò
mai. Tutti noi abbiamo sentito in famiglia
il peso del cognome Romero, e per anni
siamo stati costretti a fingere di non avere
legami con lui. Da un certo punto in poi i
contatti della mia famiglia con Romero si
interruppero. Solo mio padre li mantenne,
ma in segreto. Durante il 1979 un gruppo
di militari sfondò la porta ed entrò in casa
mia, subito chiesero di mostrargli i documenti e quando lessero “Romero” si insospettirono. «Ah, quindi siete anche voi
Romero! Siete parenti?», «No, non siamo
parenti». Quanto dolore in queste parole.
Nel 1980, finivo i miei studi da liceale e,
da noi, la consegna dei diplomi la fa il vescovo. Non vedevo l’ora che arrivasse ottobre, mese in cui era fissata la cerimonia,
per ricevere dalle mani di mio zio il diploma e festeggiare con lui e la mia famiglia.
Quel momento non si realizzò mai».
«Quando fu ammazzato lo zio — prosegue Cecilia — avevo 18 anni e per lo stesso
motivo (minacce di morte alla sua famiglia) non partecipai ai funerali. Una sofferenza nella sofferenza. Allora era troppo
pericoloso, mio padre per prudenza non
fece avvicinare fisicamente mia madre e
tutti noi figli a monsignor Romero, che
per primo gli consigliò di non farlo. Devo
dire che il pericolo continuò anche dopo
la sua morte. Fino agli anni Novanta era
impossibile parlare apertamente di Romero. Il suo nome era ingombrante direi fino
alla visita di Giovanni Paolo II nel 1996:
da quel momento in poi cominciarono a
cambiare le cose».
Di Romero si è detto molto in questi
lunghi anni. Ci aiuti a capire, chi era è veramente. «La sua vita è stata fortemente
caratterizzata da una coerenza unica tra i
valori in cui credeva, la sua fede e la sua ro una nuova fase dal punto di vista umavita quotidiana. Lottò per i diritti umani e no e della fede. Il delitto lo sconvolse.
non solo a parole, pagò con la vita il suo Purtroppo dopo Rutilio Grande, Romero
coraggio e la sua determinazione nell’op- vide cadere anche altri preti».
Le sue catechesi, le sue omelie, trasmesporsi alla dittatura militare. Il suo senso
di carità si estendeva anche ai suoi perse- se dalla radio diocesana, vennero ascoltate
cutori ai quali predicava la conversione al anche all’estero: eravate al corrente della
bene. Fu accusato di essere un membro sua crescente popolarità? «Ho cominciato
della teologia della liberazione, ma lui era a sentirmi libera ascoltando e riascoltando
soltanto un cuore cristiano che soffriva le sue bellissime omelie. Ancora oggi senper e con quelli più deboli. Romero vole- tire i nastri con le registrazioni mi provoca
va soltanto portare il Paese fuori della vio- ogni volta un grande dolore. Penso alla
lenza combattendo quella che lui stesso sua solitudine, alle sue convinzioni e penchiamava “l’ingiustizia”».
so al fatto che nemmeno noi parenti siamo
Cosa è rimasto degli anni della guerra stati vicini come avremmo voluto. Eravacivile? La memoria è ancora viva nella so- mo abituati al silenzio, eravamo un popocietà salvadoregna? Cosa ne pensano le lo timido, chiuso. Io stessa sono cresciuta
nuove generazioni? «La guerra civile non si può dimenticare, nonoMio zio contava sull’aiuto
stante siano passati tanti anni. Durante la guerra civile circa il 2 per
dell’avvocato Marianela García Villas
cento della popolazione ha perso
Che verrà torturata
la vita. È un dato sconvolgente se
pensiamo concretamente cosa vuol
e uccisa tre anni dopo di lui
dire all’interno delle famiglie salvadoregne. Le tracce di quei tragici
eventi sono ovunque. Molti trentenni sono in quegli anni abituandomi al silenzio. Un
i bambini orfani di ieri. El Salvador, infat- silenzio che ha ucciso gran parte di noi.
ti, è finalmente una democrazia, schiaccia- Sì, la radio era l’unico modo per sapere
ta dalle terribili eredità della guerra civile per aprire gli occhi e avere notizie. Tutti si
e naturalmente dalla crisi economica mon- fermavano ad ascoltare. Qualcuno mi ha
diale».
detto che all’epoca era possibile camminaTornando a Romero, c’è una data che re per le strade di San Salvador anche
segna il prima e il dopo nella sua vita: il senza la radio, senza perdere una parola
12 marzo 1977 quando Rutilio Grande, ge- delle sue prediche, perché da tutte le case
suita, venne ucciso in un piccolo paese a e da tutti i bar proveniva la sua voce. Denord di El Salvador, Anguilares. Perché è vo dire che Romero rispettava una sorte
così importate questa data? «Era il suo di schema fisso. Nella prima parte commiglior amico. Ed ebbe un grande merito: mentava la Parola di Dio, nella seconda,
lo avvicinò alla gente. Penso che l’atroce alla luce di quella Parola, denunciava i fatfine del suo migliore amico aprì in Rome- ti della settimana così come gli venivano
documentati dal Socorro Jurídico, l’ufficio
di tutela dei diritti umani. Leggeva i nomi
delle persone scomparse, trovate uccise
nelle discariche della città. Era l’unica fonte di informazione. La polizia fingeva di
non conoscere i casi, per cui i familiari degli scomparsi si recavano ogni domenica
nella cattedrale per avere notizie. Talvolta
la notizia non riguardava il ritrovamento
di un cadavere, ma quella di una detenzione e allora la famiglia riprendeva a sperare».
«Mio zio — racconta ancora Cecilia —
contava sull’aiuto dell’avvocato Marianela
García Villas, che poi verrà torturata e uccisa tre anni dopo di lui, nella giurisdizione di Suchitoto mentre stava raccogliendo
le prove sull’uso di armi chimiche contro
la popolazione civile da parte dei militari.
Aveva trentaquattro anni questa giovane
militante per i diritti umani che amava
suonare, dipingere e scrivere racconti. Era
tra i più stretti collaboratori di Romero, a
capo del piccolo gruppo di giovani avvo-
Cecilia Romero ha 53 anni, è
figlia di José Romero, cugino di
primo grado dell’arcivescovo
salvadoregno. È nata a San
Salvador e vive in Italia da
quindici anni. Ha sposato nel suo
Paese un italiano che lavorava per
l’Unione europea, vivono a
Tuscania, in provincia di Viterbo,
con i due figli, Lucia ed Edoardo,
di 16 e 15 anni. È molto legata a
Tiberio e Gaspar Romero, i due
fratelli ultraottantenni rimasti in
vita di monsignor Romero. Fa
parte della Commissione per la
verità e della giustizia dei
desaparecidos latinoamericani che
il 28 maggio 2014 ha incontrato
Papa Bergoglio. Sigan adelante,
“andate avanti” ha detto
Francesco alla delegazione di
familiari dei desaparecidos di
Argentina, Cile e Uruguay.
Secondo Cecilia è nell’ultima
omelia, celebrata il 23 marzo 198o,
che bisogna cercare il vero
testamento cristiano di Romero:
«Vorrei fare un appello speciale
agli uomini dell’esercito, in
concreto alla base della Guardia
nazionale, della polizia, delle
caserme — disse solo poche ore
prima di essere ucciso — Fratelli,
siete del nostro stesso popolo,
perché uccidete i vostri fratelli
campesinos? Davanti all’ordine di
uccidere deve prevalere la legge di
Dio che dice: non uccidere».
cati che, a rischio della propria vita, registravano e indagavano le violenze quotidiane e redigevano settimanalmente un
rapporto sulle violazioni dei diritti umani
commesse dallo Stato e dai gruppi armati
di qualunque parte politica. È stata pressoché dimenticata nel nostro Paese, e non
solo. Era “l’avvocata dei poveri e dei contadini” e purtroppo se n’è persa memoria:
eppure ci troviamo di fronte a una martire
dei diritti umani. A Romero, chi pensava
di averlo messo a tacere per sempre, non
solo ha dato voce a un popolo di fedeli,
ma lo ha consegnato alla beatificazione
eterna».
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Il Paese delle donne
Il romanzo
Paula
L’eroico servizio durante la tragica guerra della Triplice alleanza modello ancora attuale per le nuove generazioni
di BEATRIZ GONZÁLEZ
DE
BOSIO*
nche quando ormai
il giovane e l’anziano, / il figlio e il
fratello e lo sposo, /
caddero per sempre
… e nella pianura / regnò dei sepolcri il
riposo, / lei intraprese il ritorno, con il
petto / dalla patria nostalgia oppresso, /
e invano scrutò nella sua casa distrutta /
l’antico luogo dell’essere amato». Così,
nella poesia La Mujer Paraguayana,
Ignacio A. Pane (1880-1920) celebrava la
donna paraguayana.
La Guerra guazu — “Guerra grande” in
guaranì, o guerra della Triplice alleanza
— continua a essere per la popolazione
paraguayana l’episodio più traumatico
«A
Donarono i gioielli per la patria
Ma soprattutto assistettero i feriti
coltivarono la terra
fecero ripartire l’economia e la fecondità
Sono state e sono tutt’oggi
il pilastro della società nazionale
della storia nazionale, la fase storica più
drammatica e cruenta dell’America latina
dalle sue origini ai giorni nostri. Perciò è
stata anche chiamata «la guerra della triplice infamia» (Juan Bautista Alberdi) o
«genocidio americano».
È stato un evento che ha segnato un
prima e un dopo. Un prima, il Paraguay
come autentica potenza nei suo assi centrali, ossia potere economico e tecnologico, rispetto regionale e presenza sovrana.
Un dopo segnato invece dalla desolazione, dalla rovina, dalla dipendenza, dalla
sottomissione, pur se in un
stato di democrazia e di libertà, per quanto imperfette.
Era il 1865 quando il
presidente del Paraguay,
maresciallo Francisco Solano López, si ritrovò coinvolto in uno scontro bellico dalle enormi proporzioni. Il momento d’inizio
delle ostilità non fu tra i
più favorevoli per il Paese
poiché l’armamento moderno, commissionato in
Europa, ancora non gli era
pervenuto. Né sarebbe più
arrivato: ora, di certo non
avrebbe superato il blocco
che l’attendeva nei canali
di accesso. E così gli imponenti mezzi militari, ancora
in costruzione in Europa,
furono acquistati dal Brasile, che li utilizzò contro il
Paraguay durante il conflitto.
Solano López non disponeva neppure di un corpo di ufficiali
ben addestrato e con esperienza di guerra: di fatto, il Paraguay aveva smesso di
partecipare a scontri bellici dalla battaglia di Tacuary nel marzo 1811, prima
dell’indipendenza dalla Spagna.
Il trattato segreto della Triplice alleanza, firmato il 1° maggio 1865 da Brasile,
Argentina e Uruguay, contro il Paraguay,
smise di essere segreto ancor prima del
primo anniversario della sua firma: per
esteso, infatti, venne pubblicato sulle pagine di un giornale londinese.
Da quel momento la causa paraguayana si circondò di una mistica difensiva e
di un eroismo incrollabile. I giganteschi
vicini del Paraguay, desiderosi di appropriarsi di nuovi territori, invasero e mutilarono il territorio nazionale.
Una donna paraguayana in un’illustrazione del 1870
La memoria collettiva della guerra
della Triplice alleanza dà particolare risalto nella storia ufficiale alle donne paraguayane che donarono i loro gioielli
per la causa della patria. Ma le donne
paraguayane fecero in realtà molto di
più: svolsero infatti un ruolo centrale
coltivando la terra, assistendo i feriti,
seppellendo i morti e accompagnando le
truppe, come residentas o destinadas. È
indubbio che le donne sono state — e
sono tutt’oggi — il pilastro della società
paraguayana.
Il presidente López e quel che restava
del suo esercito furono seguiti da vicino
dalle residentas, donne che — costrette ad
abbandonare la capitale del Paese, Asunción, di fronte all’occupazione e al saccheggio degli invasori all’inizio del 1869
— non ebbero altra scelta se non quella
di seguire da vicino i sopravvissuti e
condividere con loro le privazioni, la fame e gli inenarrabili sacrifici.
Fu questo, ad esempio, il caso di Ramona Martínez, un’adolescente che,
brandendo la spada, in quel fatidico
1869, salvò la vita a Solano López nella
località di Lomas Valentinas, permettendogli di fuggire. O di Juliana Insfran de
Martínez, Pancha Garmendia, María
Meque, e molte altre donne coraggiose.
Tornata la pace, alle donne paraguayane spettò essere reconstructoras de la
patria, essere cioé l’asse centrale per il ripopolamento, facendosi carico per molto
tempo dell’attività produttiva volta a ottenere gli alimenti di base. Tutto venne
compiuto in modo anonimo ma molto
significativo.
Vanno quindi ricordare figure del
post-guerra come Asunción Escalada,
Rosa Peña de González, Adela e Celsa
Speratti: donne dedite all’istruzione che,
superando mille ostacoli per educare varie generazioni, furono paradigmi di dedizione e di coraggio. Grazie a loro, infatti, le bambine e le ragazze paraguayane ricevettero la stessa educazione primaria e secondaria dei maschi. Una parità per nulla diffusa all’epoca.
Nel riflettere sul nostro divenire storico come nazione, ci colpisce il ruolo che
le donne paraguayane hanno svolto nella
storia del Paese: un ruolo che fu dunque
preponderante fin dall’inizio. Non a caso uno dei modi in cui il Paraguay veniva definito era “il Paese delle donne”,
come risulta dal titolo dell’opera maestra
sulla storia sociale paraguayana scritta
dalla storica tedesca Barbara Potthast
nel 1996.
Anche nell’altra guerra, quella del
Chaco, combattuta contro la Bolivia tra
il 1932 e il 1935, le donne si fecero carico
dell’attività agricola e mai come allora si
ottenne tanta produzione alimentare.
Eppure, nonostante questi successi, questo eroismo, questa storia, le donne paraguayane ancora oggi lottano contro la
povertà e l’esclusione.
L’equazione ci mostra che donna e
mancanza di educazione danno come risultato la povertà. Perciò qualsiasi iniziativa dello Stato che voglia essere feconda
dovrà necessariamente mirare al campo
educativo, in modo da superare il ciclo
della povertà e dell’esclusione in una società asimmetrica e polarizzata. Un ciclo
che è diventato una ferita aperta.
Nel ricordare le donne eroiche di ieri,
facciamo sì che le donne di oggi ottengano quel riconoscimento dato loro da
Papa Francesco: la visita al nostro amato
Paraguay fa vibrare il nostro popolo di
profonda emozione, di gioia e
speranza.
Questo articolo è stato scritto per «donne chiesa
mondo» dall’équipe di catechiste e catechisti della parrocchia di San Francesco di Assisi in Ocopilla (Huancayo, Perú).
L
*Università cattolica Nuestra
Señora de la Asunción,
Paraguay
Il monumento a Las Residentas
a Luque in plaza de las Residenta
Si ripartì dal matriarcato
di ROMINA TABOADA TONINA*
Nonostante l’eroismo e il coraggio del popolo
paraguayano, la guerra si concluse con un massacro per il Paraguay, vista l’evidente sproporzione delle forze in campo. Tra le conseguenze di
questo conflitto, vi fu anche un disastro demografico: il Paese perse tra il 50 e l’85 per cento
della popolazione, e forse il 90 per cento della
popolazione maschile adulta. Lo storico argentino Felipe Pigna ha realizzato uno studio in cui
ha dimostrato che la popolazione passò da 1,3
milioni di abitanti a 0,3: in pratica restarono solo donne e bambini. La British Encyclopaedia
del 1911 stimò che la popolazione paraguayana
fosse passata da 1.337.439 abitanti a 221.079 sopravvissuti, ossia appena il 17 per cento del totale.
Il Paraguay aveva praticamente smesso di esistere come comunità organizzata ed economicamente sviluppata. Restavano solo vedove, orfani,
madri, figlie e sorelle indifese, che decisero di
Cándido López, «Triple alianza» (XIX secolo)
portare comunque avanti un Paese ridotto in cenere, facendo sopravvivere la sua fede, la sua lingua e la sua cultura. Il matriarcato che si creò in quel momento permise al Paraguay di non
morire. Le nostre donne piene
di coraggio, forza d’animo, pronte
al sacrificio, dal cuore nobile e generoso, le nostre antenate, le nostre trisnonne, bisnonne, la
garra guaraní del Dna delle donne paraguayane.
Alcuni comandanti della Triplice alleanza volevano uccidere i paraguayani ancora prima che
nascessero. «Di quante vite e di quante risorse
abbiamo bisogno per porre fine alla guerra, ossia per trasformare in fumo e in polvere tutta la
nazione paraguayana, per uccidere persino il feto nel grembo della donna paraguayana?» chiese
il duca di Caixas, Luis Alves de Lima e Silva,
comandante alleato del Brasile. Le donne del
Paraguay scelsero invece di avere figli e di ricostruire così la famiglia paraguayana, consolidata
a povertà estrema nella quale le
donne che vivono nelle Ande devono provvedere alle necessità familiari ha come conseguenza anche la difficoltà nell’accesso
all’educazione e la mancanza di attenzione
per la salute fisica e mentale.
Data la povertà delle zone rurali — raggiunge il 66 per cento e la povertà estrema il
30 per cento — le donne sono prive di diritti,
pur essendo protagoniste dell’alimentazione
familiare: le donne delle campagne andine
infatti, da millenni, svolgono un ruolo importante nel campo della sicurezza e della
sovranità alimentare; contribuiscono all’esercizio del diritto all’alimentazione delle persone e sostengono proposte volte a far sì che i
popoli decidano il tipo di produzione per il
loro sostentamento.
Tale ruolo però non è riconosciuto né valorizzato nelle loro comunità e neppure da
parte dello Stato: le donne vengono escluse
dalla proprietà delle terre e dall’accesso
all’acqua, dalle prese di decisioni e dalla formazione in campo tecnologico. Fin dall’infanzia su di loro gravano i lavori domestici e
la cura della famiglia, anche se ciò significa
trascurare se stesse e la propria salute e mettere da parte le proprie aspirazioni.
Maltrattamenti fisici, psicologici e sessuali,
l’incesto seguito molto spesso da gravidanze
forzate per bambine e adolescenti, la tratta ai
fini di sfruttamento sessuale e il femminiciLa vita quotidiana delle donne andine
dio, sono alcune delle espressioni quotidiane
della violenza contro le donne delle campagne andine. L’impunità di fronte a simili fatti
è la norma, a causa dell’ignoranza delle donne riguardo ai loro diritti e alle norme che le
proteggono, ma anche a causa di una società
di tipo maschilista e della debole e inefficiente presenza e azione dello Stato, che arriva a
negare alle vittime il diritto alla giustizia.
che in passato e sono economicamente indi- zionano l’accesso delle donne alle opportuniIl diritto a una vita libera dalla violenza è pendenti, anche rispetto alla maternità. Il tà economiche all’interno del settore formale
pertanto lungi dall’essere una realtà concreta problema è che, se la convivenza è associata di ogni economia — pone il Perú al cinquanper le donne andine delle campagne. La nor- alla povertà, la famiglia si lacera facilmente, taseiesimo posto a livello mondiale e al decimativa vigente, che risponde a una visione e ne pagano il prezzo le donne e i bambini.
mo livello del continente americano.
urbana e occidentale, non ha incluso la proNonostante questi ostacoli, però, la donna
L’Ente delle Nazioni Unite per l’uguaspettiva interculturale. A ciò si aggiunge la andina svolge un ruolo importante all’interno glianza di genere e l’emancipazione delle
mancanza di formazione e di sensibilizzazio- dell’economia, in quanto amministratrice del- donne mette il Perú al quarantanovesimo pone degli operatori responsabili della preven- le risorse familiari, ma anche, più in generale, sto quanto a partecipazione delle donne a inzione e delle sanzioni per gli atti di violenza; esercitando incarichi sempre più importanti carichi ministeriali (insieme ad Haiti, Italia,
una cultura che considera normale la discri- in campo imprenditoriale, nella ricerca scien- Romania e Sud Sudan) e al cinquantottesiminazione e il maltrattamento di bambine, tifica e accademica, e persino a livello gover- mo posto rispetto al numero di donne preadolescenti, giovani e donne adulte.
nativo.
senti nel Parlamento (28 donne per 130
Nonostante la legge lo proibisca, ancora
Secondo l’Istituto nazionale di statistica e seggi).
oggi alle donne che decidono di denunciare informatica (Inei), ogni anno 187.000 donne
Indubbiamente la partecipazione femminiil proprio compagno, persino in casi
le è aumentata negli ultimi anni, ma ci sono
di violenza sessuale, si propone la
ancora molti problemi aperti, come per esemconciliazione, e le pene imposte agli
pio quello dell’accesso all’istruzione superioIl
diritto
a
una
vita
libera
dalla
violenza
aggressori si limitano a multe o a
re, a cui passa solo il 28 per cento delle dongiornate di lavoro comunitario.
ne, e quello dell’accesso alle assicurazioni saè lontano
Lo stato civile delle donne andine
nitarie, che dovrebbe essere garantito a una
dall’essere una realtà concreta
costituisce un problema: il 78 per
percentuale superiore all’attuale, che è solo
per chi vive nelle campagne
cento delle madri che hanno partoridel 67 per cento (Sis, Es Salud e altri).
to in ospedali pubblici e cliniche del
In una cultura che vede intrecciarsi cerimonie religiose tradizionali e liturgie cristiane
Perú tra gennaio e ottobre del 2013
trasmesse dai missionari, le donne svolgono
aveva lo stato civile di convivente,
solo il 9 per cento quello di coniugata (dati entrano nel mercato del lavoro e rappresenta- un ruolo non secondario.
La vita religiosa si snoda in due fasi: una
del Ministero della salute). Nello stesso pe- no il 44,3 per cento della popolazione econoriodo hanno partorito anche donne single micamente attiva del Paese; il 65,5 per cento da aprile ad agosto (periodo secco, di raccol(12,26 per cento), donne separate (0,23 per opera nei settori dei servizi e del commercio, ti e di buona salute) e l’altra da settembre a
cento), vedove o divorziate (0,04 per cento), mentre il 14 per cento si dedica all’agricoltu- marzo (periodo piovoso, di semine, di malatsempre in base alle cifre fornite all’agenzia ra. Il 35,6 per cento delle donne sono lavora- tia e di morte). Tra le due fasi, un periodo di
Andina.
trici indipendenti, mentre il 36 per cento so- transizione. Questi periodi permeano la vita
delle donne andine, tanto da determinare la
L’elevato numero di donne che partorisce no stipendiate.
con lo stato civile di convivente rivela la fraL’indice di opportunità economiche per le data dei matrimoni, che si celebrano da aprigilità e la vulnerabilità delle famiglie, ma al donne (The Women’s economic opportunity le ad agosto.
I calendari liturgici delle Ande seguono i
tempo stesso mette in luce la maggiore auto- index) elaborato da The Economist Intellinomia delle donne, che oggi lavorano più gence Unit — che valuta i fattori che condi- momenti più importanti del ciclo liturgico
poi nelle sue fondamenta dall’azione pastorale
di grandi figure della Chiesa come monsignor
Juan Sinforiano Bogarín.
Dopo centocinquant’anni l’affetto che Papa
Francesco ha espresso per le donne paraguayane, nel ricordare quei fatti storici, motivati da interessi meschini, che ebbero conseguenze insospettate e crudeli, ci permette di rincontrarci, rivalorizzarci e ricordare le nostre radici e cercare
di risanare le ferite di quel momento così tragico.
*Ambasciata del Paraguay presso la Santa Sede
I riti della terra
cattolico che si conciliano con le fasi della vita agricola: un primo e importante periodo
di raccolti-stagione di siccità, un secondo che
è la stagione definita delle piogge-periodo di
semina, e tra i due un momento di separazione e di transizione (il primo periodo va da
aprile a giugno, poi viene agosto, e poi c’è il
secondo periodo, da settembre a marzo).
Una volta terminato il raccolto, dopo l’immagazzinamento dei prodotti agricoli e la
conta del bestiame, occorre rinnovare la fertilità della terra e prepararla per un nuovo periodo di “gravidanza”, con un rito propiziatorio che si effettua nel mese di agosto come
devozione alla Pachamama. Nelle Ande Centrali si dà molta importanza a questa divinità, alla sua pienezza femminile e materna,
benevola ed esigente. La popolazione mette
in rapporto il culto alla Pachamama con
quello alla Vergine Maria.
Durante la festa dell’Assunzione della Vergine, chiamata comunemente Vergine Assunta e familiarmente Mamacha Asunta, si celebra infatti il “pagamento alla terra” per la
Pachamama. Le feste dei santi Domenico,
Lorenzo e Girolamo, celebrate ad agosto in
molte comunità delle Ande, coincidono anch’esse con questo omaggio.
Il terzo periodo del calendario rituale inizia nel mese di settembre, con la situa, cioè
la semina mediante l’irrigazione; la terra viene arata e aperta e inizia allora il periodo
della sua fecondazione. Con questo rituale si
cerca di allontanare e scongiurare le malattie,
le pestilenze e gli infortuni che avvengono
quando si conclude il periodo della siccità e
iniziano le piogge. La malattia infatti, e
quindi anche la morte, è collegata alle piogge, perciò in questo periodo critico si compiono atti purificatori e si cerca di allontanare ritualmente le influenze nefaste e i mali.
Le donne preparano il sango, impasto composto da farina di mais mescolata al sangue
caldo di un lama appena sacrificato. Con
questo yaguarsango, in modo rituale, si ungono il volto, le estremità e il corpo, e si cospargono le porte e l’interno delle case, e anche alcune provviste immagazzinate. Poi, si
butta una parte dell’impasto nei fiumi per
purificare l’acqua. Si consuma il sango anche
collettivamente, al fine di rinnovare il patto
Il loro ruolo
non è riconosciuto o valorizzato
né dalle loro comunità né dallo Stato
Oggetto di violenze e abusi
sono escluse dalla proprietà delle terre
e dall’accesso all’acqua
Dalle prese di decisioni
e dalla formazione
Nipote di una delle personalità più amate
della storia cilena, con oltre venti libri
Isabel Allende è una tra le scrittrici
viventi più note al mondo. Tra romanzi,
pagine autobiografiche, racconti, ricette e
libri per ragazzi, nel 1994 è arrivato, però,
il libro più difficile, Paula. È un lungo
diario di addio alla figlia, morta a 28 anni
di porfiria, malattia rara e gravissima che
la trascinò in quasi un anno di coma. La
madre, già scrittrice di successo, resta
costantemente al capezzale della ragazza:
prima nei corridoi di un ospedale di
Madrid, poi in una stanza di albergo e
infine accanto al letto nella casa in
California, parla e scrive incessantemente
a sua figlia. «Ascolta, Paula, ti voglio
raccontare una storia, così quando ti
sveglierai non ti sentirai tanto sperduta».
Se i medici tentano (inutilmente) di
salvare la giovane donna con la loro
scienza, la madre si affida invece alla sola
arma che ha: la narrazione. Perché non
esiste separazione definitiva finché esiste il
ricordo. Anche quando Paula si allontana
mujer per diventare, e tornare poi, espíritu.
(@GiuliGaleotti)
Il diario
Tra un’onda e l’altra
Si legge come un appassionante romanzo
il libro Tra un’onda e l’altra di santa
Francesca Cabrini. Racconta di una
donna, una suora che affronta viaggi
faticosi e terribili dall’Europa al
continente americano, da Le Havre a
Buenos Aires. Attraversa interi e immensi
Paesi, supera sui muli la Cordigliera delle
Ande, passa pericolosamente per il
Nicaragua, spesso senza trovare un posto
per dormire e per mangiare. E intanto
apre scuole, asili, fondazioni e organizza
gli emigranti. Dispensa speranza.
Francesca Cabrini è spinta dalla fede che
in quelle terre lontane a metà del
diciannovesimo secolo diventa desiderio di
fare e di fare per gli altri, per migliorare
un mondo che descrive in tutta la sua
povertà e disperazione. Il suo libro ci
dona un modello di emancipazione che sa
fare i conti con la solitudine e con il
pericolo e invita le donne sciogliersi da
tutti i vincoli. «Scioglietevi e mettete le ali
ve ne prego per istar sempre sollevate
dalla terra» è il messaggio di Francesca.
Anche, e forse soprattutto, alle donne di
oggi. (@ritannaarmeni)
Il film
Ixcanul
tra gli autoctoni e gli stranieri e per propiziare la semina.
Nei villaggi questi riti di purificazione si
realizzano all’arrivo delle prime piogge, considerate eccellenti per l’inizio della semina. Si
fanno offerte, e si crede che le prime piogge
si portino via le malattie, i mali e i peccati,
trascinandoli lontano.
Naturalmente, il ruolo della donna viene
messo in evidenza e valorizzato nella devozione per la Pachamama, ritratta mentre sorride: sorriso che è il tratto peculiare del volto
della donna andina.
Ixcanul (Vulcano, 2015), opera prima del
regista guatemalteco Jayro Bustamante, è
la storia di Maria, adolescente che vive in
un villaggio dove regnano ancora
superstizioni e tradizioni ancestrali.
Retaggi di cui la stessa Maria diventa
presto vittima, visto che i genitori le
combinano un matrimonio. Prima della
cerimonia, però, la ragazza, refrattaria alla
decisione, ha un’avventura con un ragazzo
e resta incinta. Scoperta la gravidanza, i
genitori spingono per l’aborto. Ma la
conclusione sarà per certi versi anche
peggiore.
Bustamante
racconta un mondo
chiuso e arcaico
che vive a poca ma
impermeabile
distanza dalla
società moderna. E
non ne fa certo un
bel quadro,
denunciando la
presenza di odiosi
soprusi soprattutto
nei confronti delle
donne. D’altronde
anche l’ambiente
contadino, tante volte descritto con
bonomia sul grande schermo, è qui
inquadrato nei suoi aspetti più crudi e
violenti, quasi contigui e propedeutici alle
ingiustizie della comunità che lo abita. Lo
stile del regista è descrittivo e piuttosto
distaccato, tanto che fino a mezz’ora dalla
fine ci si chiede perché abbia optato per
un film a soggetto e non direttamente per
un documentario. Nell’epilogo, però, si
tirano finalmente le fila del racconto,
rivelando una cospirazione che in realtà
ha innervato silenziosamente tutta la
vicenda. Non a caso la narrazione si
conclude intelligentemente in modo
circolare, a rimarcare il senso di
ineluttabilità che grava sulla protagonista
come, non è difficile immaginare, su tante
sue coetanee. (emilio ranzato)
women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women
IL
SESSO DEBOLE
«A prima vista — ha scritto qualche settimana fa «The
Economist» nel suo editoriale — oggi il patriarcato
parrebbe prosperare», con gli uomini che dominano dalla
politica alla tecnologia, passando per il cinema.
«Potrebbe dunque sembrare singolare allarmarsi per la
brutta situazione in cui si trovano i maschi. Invece ci
sono molte cause di preoccupazione». Se in generale i
maschi finiscono in carcere molto più delle donne, hanno
il più alto tasso di suicidi, sono spesso separati dai loro
figli e studiano meno delle donne, ve n’è però un gruppo
che soffre particolarmente: sono «gli uomini poveri e
poco istruiti dei Paesi ricchi che hanno grandi difficoltà a
relazionarsi con gli enormi cambiamenti che si sono
verificati nel privato e nel mondo del lavoro nell’ultimo
mezzo secolo». Il risultato, per loro, «è una
combinazione avvelenata di nessun lavoro, nessuna
famiglia, nessuna prospettiva». E il settimanale inglese
così conclude: «La crescente uguaglianza tra i sessi è una
delle maggiori conquiste dell’era post bellica: le persone
hanno maggiori opportunità rispetto al passato di
perseguire le ambizioni personali a prescindere dal loro
sesso. Alcuni maschi, però, hanno fallito nel relazionarsi
con questo mondo nuovo. È ora di dar loro una mano».
Per il benessere di tutti, varrebbe la pena di aggiungere.
A
SCUOLA DI GESTIONE PER LE SUORE DI
GERUSALEMME
Venti suore di diverse comunità religiose presenti a
Gerusalemme hanno preso parte a un corso sulla gestione
dei progetti di carattere sociale e caritativo, organizzato
nella casa delle missionarie comboniane. Durato una
settimana, il corso è stato coordinato da Charles Camara,
esperto di Project Management e collaboratore della
diocesi cattolica di Stoccolma, che ha indicato alle
religiose alcuni criteri-guida per gestire un progetto, come
la valutazione del bilancio, la stima dei costi operativi, le
modalità per la raccolta e la gestione delle offerte.
Partecipando a fine evento alla consegna dei diplomi, il
vescovo William Shomali, vicario patriarcale di
Gerusalemme, nel plaudere all’iniziativa, ha ricordato
come la Chiesa sia oggi chiamata a essere più trasparente
nella gestione di progetti e denaro, secondo le chiare
indicazioni di Papa Francesco.
L’ISTINTO
DI MAMMA CICO GNA
Tra i danni censiti dopo il rogo del municipio di Brunete,
piccolo centro a trenta chilometri da Madrid, c’è anche il
dramma di una famiglia di cicogne, che aveva messo su
casa sul tetto dell’edificio. Appena il nido è stato lambito
dalle fiamme — ha raccontato «La Razón» — papà
cicogna, seguendo l’istinto di conservazione, è volato via.
La mamma, invece, rischiando la vita, ha cercato in ogni
modo di salvare i due piccoli, bruciandosi gran parte
delle penne: i pulcini, infatti, nati da poco più di un
mese, non erano ancora in grado di volare, e così mamma
cicogna, trascinandoli con il becco, ha cercato di tirarli
fuori dal nido in fiamme. Purtroppo solo uno dei due è
riuscito a sopravvivere. Il piccolo superstite, ribattezzato
Brunete dagli abitanti della cittadina, è stato adottato
come mascotte insieme alla madre coraggio che ha sfidato
il fuoco per proteggere la sua nidiata.
Cerezo Barredo, «Magnificat»
(pittura murale, chiesa di Luciara, prelatura di São Félix,
Brasile, 1993)
dei migranti» ha sottolineato suor Neusa. «Le parole di
Gesù “Ero migrante e mi avete accolto” ci fanno capire,
vivere e vedere il volto di Cristo nel volto di ogni
migrante, soprattutto in questa realtà così vulnerabile»
hanno quindi aggiunto suor Zenaide Ziliotto, superiora
provinciale, e suor Ires da Costa, pioniera della missione.
La giornata si è conclusa con la preghiera nella cappella
della comunità Nostra Signora Pellegrina, dove erano
rappresentate varie congregazioni.
LE
RELIGIOSE
PER I MIGRANTI A
RIO BRANCO
Nella diocesi di Rio Branco, in Brasile, è stata
ufficialmente inaugurata una nuova presenza missionaria
per il servizio evangelico ai migranti delle suore
missionarie di San Carlo Borromeo - scalabriniane. Al
taglio del nastro erano presenti — oltre a circa
quattrocento migranti — il vescovo di Rio Branco,
monsignor Joaquín Pertíñez Fernández e suor Neusa de
Fatima Mariano, superiora generale della congregazione.
«Confidiamo che il Signore, per intercessione di Maria,
madre dei migranti, del beato Giovanni Battista
Scalabrini, apostolo dei migranti, e della beata Assunta
Marchetti, possa sostenere questa nuova presenza
missionaria della congregazione, come una realtà di
solidarietà e accoglienza in difesa della vita e dei diritti
Mensile dell’Osservatore Romano
luglio 2015 numero 37
A cura di LUCETTA SCARAFFIA (coordinatrice) e GIULIA GALEOTTI
Redazione: RITANNA ARMENI, CATHERINE AUBIN, RITA MBOSHU KONGO, SILVINA PÉREZ
(www.osservatoreromano.va, per abbonamenti: [email protected])
SCIENZIATE E LO SCIENZIATO
Aveva detto che era «meglio non avere donne nei
laboratori perché ci innamoriamo di loro, si innamorano
di noi e quando le criticate si mettono a piangere». E
così, giustamente travolto dalle critiche, Tim Hunt,
premio Nobel per la medicina nel 2001, si era dimesso
dall’University College di Londra. La nuova punizione
però ora arriva dalle colleghe scienziate che hanno
lanciato una campagna fotografica via twitter per
rispondere con il sorriso alle frasi sessiste. L’hashtag
#distractinglysexy è così utilizzato da biologhe,
archeologhe, chimiche, geologhe e via dicendo per far
circolare immagini ironiche sulla capacità femminile di
distrazione — tra tute da lavoro e occhialoni sul naso —
sul posto di lavoro. Ancora una volta, donne e ironia
contro il sessimo.
LE
RAGAZZE RAPITE E STUPRATE DA
BOKO HARAM
«No all’aborto di massa per le ragazze liberate dopo
essere state rapite e stuprate da Boko Haram; siamo
pronte ad aiutarle»: così monsignor Anselm Umoren,
vescovo ausiliare di Abuja e presidente del comitato per
la salute della Conferenza episcopale della Nigeria.
«Condanniamo con forza alcune linee d’azione suggerite
da diverse persone e gruppi in direzione di aborti di
massa» afferma in un messaggio inviato all’Agenzia Fides
il presule, facendo riferimento al dibattito in corso su
come aiutare le ragazze rimaste incinte. «Non è
sostenibile la posizione secondo cui l’uccisione dei
bambini concepiti a seguito della violenza sessuale dei
terroristi sia l’azione più umana da assumere. Dato che i
nascituri sono innocenti e ignari dei crimini commessi
contro le loro madri, è immorale punirli per i peccati e i
crimini dei loro padri traviati». Il responsabile della
pastorale della salute sottolinea che la Chiesa cattolica è
pronta ad aiutare le vittime che hanno subito «l’enorme
trauma» dello stupro. «In collaborazione con tutte le
persone di buona volontà, la Chiesa cattolica in Nigeria è
pronta a fornire tutto il supporto necessario per accelerare
la cura, la riabilitazione e il ristabilimento delle vittime, in
modo che possano essere reintegrate rapidamente nella
società».
donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne
Tutto nello stesso giorno
Maddalena, santa del mese, raccontata da Teresa Ciabatti
quindici anni Maddalena aveva
vissuto molte esperienze: pasticche,
sesso in chat con sconosciuti, sesso
a tre. Sì, lei aveva vissuto. Poi però
quella che le era sembrata vita, distinzione di privilegio — «tutti mi vogliono» —
era diventata colpa. È colpa mia, si ripeteva da
un mese. Per quello che ho fatto Dio mi ha
punita, si rannicchiava nel letto, le persiane
aperte, fuori la notte, si accoccolava in posizione fetale.
Lui era sparito il 12 marzo. Uscito per andare a vedere la partita al bar, mai più tornato.
Nessuno l’aveva visto. Malore, sequestro, allontanamento volontario. «Se fossi stata buona —
si ripeteva Maddalena — se avessi studiato, se
non fossi uscita di nascosto».
E intanto era passato un mese. Un mese senza papà. Con difficoltà aveva ripreso la vita di
sempre. Se la prima settimana non era andata
a scuola, poi era dovuta tornare. Tutti sapevano e la trattavano bene. Di più: con pena, piccola Maddy, povera Maddy.
Nessun maschio però le chiedeva di andare
in bagno, o di vedersi in palestra. Cos’era successo? Nessuno più la desiderava. Eppure era
sempre lei: stessi occhi azzurri, stessa bocca
piena, stesse gambe lunghe.
Nei corridoi vedeva gli altri amoreggiare, oh
le sembrava che il mondo intero amoreggiasse,
quanto amore intorno a lei! Vedeva le vite degli altri andare avanti: Simona si era messa con
Gianluca, Giada aveva fatto sesso con Federico, pensava di iniziare una storia, ma lui si era
messo con Carla. Dennis aveva chiesto a Stefania di vedersi di pomeriggio, lei era indecisa,
preferiva Paolo, ma Paolo voleva Maddalena,
lo sapevano tutti.
Anche se adesso Maddalena si domandava
se fosse ancora così. Non che le piacesse Paolo,
non le era mai piaciuto.
La vita di tutti procedeva, tranne la sua. Lei
era ferma al 12 marzo, inchiodata laggiù, quando invece erano passati due mesi, già due mesi
senza papà. «La colpa è mia? — si torturava
Maddalena — Davvero Dio mi ha punita?».
Giorno dopo giorno tuttavia la colpa si confondeva col privilegio perduto («Tutti mi vogliono»). Insieme al padre,
svaniva anche lei, lei desiderata dai maschi, lei invidiata
dalle femmine. Si allontanavano insieme, padre e figlia,
giorno dopo giorno. Sul vetro della finestra di camera, la
sua immagine riflessa le pareva sempre più evanescente,
un’immagine che si sovrapponeva al campo fuori, alla linea di palazzi sul fondo, il
punto più lontano, e no, papà non era neanche laggiù.
In quel punto spariva lui, e
anche lei. Non era solo lotta
contro l’assenza la sua. Stava
diventando altro, sopravvivenza, foga per non dissolversi anche lei. Lei c’era ancora! Era qui — avrebbe voluto gridare in piedi sulla finestra — «Guardatemi, amatemi!».
Nella sua mente succede
tutto lo stesso giorno.
Tre mesi. A tre mesi senza
papà, lei si avvicina a Paolo e
gli dice che deve parlargli,
una cosa privata, bagno femmine.
Nel bagno lo bacia. E lo
bacia ancora, mentre chiede
— ansiosa, disperata — se la
desideri: «Dimmi che mi
vuoi sempre». E lui dice sì,
intontito dall’eccitazione, dice
sì.
Allora succede qualcosa.
Maddalena si ferma. Pensa:
«Papà». Pensa: «Dio mi vede». Nella sua mente succede
tutto lo stesso giorno. Colpa
e redenzione.
Va bene, gli ha tirato giù i
pantaloni, ma poi basta. Peccato a metà. «Quasi non peccato, mio Signore».
Nella realtà torna in classe,
si siede al banco, passa l’ora
di storia, e quella di matematica. Nel ricordo invece, dal
bagno Maddalena fugge.
Fuori da scuola, fuori dal
cancello. Corre fino al campo, lo attraversa, arriva alla
strada sterrata, prende fiato,
poi torna a correre. Entra in
casa, e su per le scale, sempre
di corsa, due scalini alla
volta.
Nel ricordo è lo stesso
giorno, così avrebbe ricordato
per il resto della vita, nella
realtà ci sono venti giorni di
differenza. La mattina nel bagno con Paolo, venti giorni
dopo alla finestra di camera
sua. Venti giorni che l’avreb-
A
Dal Paraguay alle Madres de Plaza de Mayo
I tanti colori
della storia di Esther
di GIULIA GALEOTTI
a prima cosa che colpisce, entrando nella piazza, sono i colori. Il prato, le
bandiere, i toni della Casa Rosada, ma anche quelli del Banco de la Nación Argentina e della cattedrale, sulla sinistra. Eppure, a metter bene a
fuoco gli spazi, non v’è nulla di particolarmente sgargiante in Plaza de Mayo
nel cuore di Buenos Aires: il punto è che la storia delle Madres e, con loro, la
storia delle vittime della dittatura argentina, è — per chi non l’ha vissuta in prima persona — una storia in bianco e nero. È, infatti, la storia dei volti sorridenti
che rimbomba dalle migliaia di fotografie sventolate, nella disperazione, da chi
non si è voluto rassegnare alla scomparsa dei propri cari, inghiottiti nel silenzio
assordante della Guerra Sucia.
Eppure, scavando un po’, ci si accorge che nelle vicende di questo popolo indomito e delle sue Madres, di colori ce ne sono migliaia. È il caso della storia di
Esther Ballestrino, paraguaiana paladina dei deboli che, nel tentativo di sfuggire
alla dittatura nel suo Paese, si rifugia nella vicina Argentina, finendo così inghiottita da un altro disumano regime.
I colori della storia di Esther sono, innanzitutto, i colori di Encarnación, terza
città del Paraguay, dove la bimba nasce nell’inverno del 1918, il 20 gennaio.
Esther è vispissima sin da piccola, in famiglia, con gli amici, nello studio. E
mentre si diploma come maestra prima e si laurea, poi, in biochimica e farmacia
all’università di Asunción, è già attivissima in favore degli ultimi e dei perseguitati. Sostiene il Partito Revolucionario Febrerista d’ispirazione socialista e, mentre infuria la dittatura di Morínigio (1940-1948), a 28 anni è tra le promotrici
della Unión Democrática de Mujeres, che si scioglierà l’anno dopo per dare origine al Movimento Femenino Febrerista de Emancipación. È il 1947. Il regime,
però, non perdona: Esther si trova dunque costretta a scappare nella vicina Argentina, dove si sposa con Raymundo Careaga.
Oltre ai colori della passione politica, gli anni successivi hanno i colori di una
vita che scorre febbrile e appassionata a Buenos Aires. Nascono tre figlie —
Esther, Mabel e Ana María — ma la madre riesce comunque a districarsi tra gli
impegni, proseguendo nella sua professione di biochimica.
A metà anni Cinquanta, mentre Esther è direttrice di un laboratorio, arriva a lavorarvi
un ragazzo di origine italiana. Si chiama Jorge Mario Bergoglio. Le differenze tra loro sono tantissime, ma questo non impedirà la nascita di un rapporto profondo e duraturo.
Passano intanto gli anni finché, il
primo luglio 1974, con la morte di Peron, i colori dell’Argentina si fanno
sempre più tetri, culminando nel
golpe del 24 marzo 1976. E così
la dittatura irrompe per la seconda volta nella vita di Esther.
Il copione è il medesimo: lei —
appassionata di giustizia, amica
dei deboli e simpatizzante comunista — continua a parlare, a
scrivere e a battersi per la libertà, mentre il regime la guarda a
vista.
In realtà inizialmente Esther
chiede — e sorprendentemente
ottiene — la condizione di rifugiata dall’Alto Commissariato
delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr/Acnur), uno dei
pochissimi casi in tutta l’America latina, ma ovviamente ciò non impedisce che
la Guerra Sucia deflagri tra i suoi affetti più cari. Il 13 settembre 1976 viene sequestrato il genero Manuel Carlos Cuevas, marito della secondogenita Mabel.
È in questo frangente che padre Bergoglio riceve una strana telefonata dalla
direttrice di un tempo — con cui non ha in realtà perso i contatti. Lui, sacerdote
gesuita, corre a casa dell’amica atea e comunista, ma quando arriva è chiaro che
della suocera per cui è stata chiesta l’estrema unzione non v’è traccia. Esther gli
domanda aiuto perché la figlia minore, Ana Maria, è sotto controllo e bisogna
liberarsi della sua biblioteca marxista. Bergoglio non batte ciglio: prende i libri
e se li nasconde in casa. Il rischio che corre è enorme: nell’Argentina del tempo,
essere un religioso non è affatto una protezione. Nascondere i libri, però, non
salva la ragazza che il 13 giugno 1977 viene arrestata. Ha solo 16 anni ed è incinta di tre mesi: anche lei, come un numero impressionante di coetanee, viene torturata nel Club Atlético a San Telmo, un centro clandestino di detenzione.
Dal giorno dell’arresto della figlia minore, un nuovo colore entra nella vita di
Esther: il bianco dei fazzoletti delle Madres de la Plaza de Mayo, fondate il 30
aprile 1977 quando 14 madri marciano nella piazza chiedendo di conoscere la sorte
dei figli scomparsi. E dal 14 giugno, ogni giovedì, anche Esther è della partita.
Fortunatamente, però, in ottobre Ana Maria viene rilasciata: Esther capisce
che deve portare le sue tre figlie in salvo, prima in Brasile e poi in Svezia. Ma
l’esilio dura poco: le Madres la supplicano di restare dov’è, ma Esther torna:
«Resto qui, insieme a voi, finché non li riavremo tutti vivi», è la sua risposta, testimoniata anche da un infiltrato militare, Gustavo Astiz.
È un attimo, e il colore della tragedia chiude la storia di questa donna appassionata e coraggiosa. L’8 dicembre, infatti, all’uscita della chiesa di Santa Cruz
(tra le vie Urquiza e Estados Unidos), al termine di una riunione per raccogliere
fondi per la pubblicazione sul quotidiano «La Nación» della lettera che chiedeva conto alle istituzioni delle persone scomparse, Esther viene arrestata — insieme alla madre María Ponce e ad altre dieci persone, tra cui due monache francesi, Alice Domon e Léonie Duquet — dall’ex capitano della marina militare Alfredo Astiz. Ha 59 anni e non farà mai ritorno a casa.
Secondo alcune testimonianze, Esther avrebbe trascorso qualche giorno nel
settore Capucha dell’Esma (Escuela Mecánica de la Armada), il più efferato
centro di detenzione situato proprio nel cuore di Buenos Aires, prima di essere
eliminata con un volo della morte.
«Una donna straordinaria, una grande donna a cui devo molto», racconterà
decenni dopo quel giovane di origine italiana che aveva lavorato alle sue dipendenze a Buenos Aires: «In quel laboratorio capii il bello e il brutto di qualunque attività umana».
L
Nata e
cresciuta a
O rbetello,
Teresa Ciabatti
ha scritto i
seguenti
romanzi: Il mio
paradiso è
deserto
(Rizzoli, 2013),
Tuttissanti (Il
Saggiatore,
2013), I giorni
felici
(Mondadori,
2008), Adelmo,
torna da me
(Einaudi Stile
Libero, 2002).
Collabora con
La Lettura e
Io Donna.
Giovanni Bellini, «Madonna con Bambino e le sante Caterina e Maria Maddalena»
(1490 circa, particolare)
bero potuta liberare dall’idea — presto ossessione — che Dio ti vede e punisce. O premia.
E dunque nel ricordo: lei corre su per le scale, entra nella sua stanza, guarda fuori dalla finestra, al punto più lontano. E allora lo vede.
Una figura piccola piccola in fondo alla strada.
Maddalena non vuole gridare, ha paura che si
dissolva, che sparisca di nuovo. Smette persino
di respirare. Lui sempre più vicino. È davanti
casa, apre il cancelletto.
Lei ancora immobile alla finestra. Sente le
voci al piano di sotto, la mamma che piange. I
passi, sente i passi pesanti che non sentiva da
mesi, li risente! E la porta della stanza si apre,
e appare la figura scontornata nella luce, tanto
che lei deve strizzare gli occhi per metterlo meglio a fuoco. Oh, i suoi capelli hanno un alone
argentato.
Nella sua mente succede tutto lo stesso giorno. Colpa, redenzione, e risurrezione.
Dall’assenza
alla
presenza
di MARY MADELINE TODD
I
donne chiesa mondo
luglio 2015
proprietaria — mi ha risposto con gli occhi
colmi di tristezza — la cederebbe volentieri
per poter avere indietro suo marito e la
famiglia che sperava di farvi crescere».
Quando ci si allontana delle persone più
vicine, coloro il cui amore è una ricchezza
autentica, il senso di isolamento può rendere
il vuoto opprimente. Il problema dell’assenza
non è soltanto fisico, ma anche spirituale. Pur
stando con qualcuno, possiamo essere chiusi
al dono dell’altra persona. Nel dramma di
Karol Wojtyła Raggi di paternità, Adam, il
personaggio centrale, si trova in mezzo a una
folla di lavoratori alla fine di una giornata di
fatiche. È in mezzo a tante persone, ma si
sente completamente solo. Ha rifiutato sia la
paternità di Dio, sia quella propria,
considerando tali relazioni una zavorra alla
sua libertà. Sperimenta un risveglio quando si
rende conto che, a partire dall’interno della
famiglia, è stato lui a scegliere il suo
isolamento, e che non è tanto solo quanto
chiuso. È stata la sua paura di affidarsi a
un’altra persona e di accettare la
responsabilità per un’altra persona l’origine
della sua scelta di essere assente dalla
comunità. Si rende conto che può scegliere di
rischiare l’amore, di permettere a se stesso di
essere il “mio” di qualcun altro e di accettare
qualcun altro come “mio”. Di recente mi sono
fermata a mangiare con un’amica in un
ristorante molto affollato all’ora di pranzo. A
ogni tavolo c’erano persone sedute assieme;
erano in presenza le une delle altre senza dirsi
una parola. Tutte controllavano i loro
messaggi sui telefonini o la posta elettronica,
oppure navigavano in rete. Era un’icona di
“assenza reale”, ovvero dell’incapacità di
essere attenti al dono dell’altro. Essa isola la
persona e la lascia sola nella prigione
dell’individualismo. Nell’icona della Trinità di
Rublev vediamo l’esatto contrario di questa
assenza reale. Le tre persone divine sono
sedute al tavolo, guardandosi in faccia. Le
teste chine del Figlio e dello Spirito, che sono
rivolte verso il Padre, esprimono un’attenta
riverenza per colui che è come loro, ma anche
personalmente unico. La loro apertura
reciproca non li rinchiude in se stessi. Li apre
a una comunione condivisa con chi guarda
l’immagine. Il quarto posto a tavola è sul lato
dello spettatore, che è invitato non soltanto a
condividere il pasto, ma anche a entrare in
maniera più intima nella presenza dei tre e a
partecipare alla gioia della comunione di vita.
È possibile riscoprire il dono della presenza
reale in famiglia, ma occorre un modo di
pensare e di agire intenzionale e controculturale. La presenza presuppone la scelta di
essere con l’altro. Questa scelta è, di per sé,
un’amorevole affermazione dell’altro. La scelta
di stare con una persona dice: «Sei degno del
mio tempo. Stare con te è bello perché tu sei
bello». Tuttavia, più in profondità, la scelta di
essere attenti all’altro mentre siamo insieme
esprime un amore preferenziale. Dice: «Sei la
persona più importante per me in questo
momento. Sei più importante di questo affare,
di questa telefonata, di questa e-mail». Il
Mary Madeline Todd è una
religiosa domenicana della
Congregazione di Santa Cecilia
a Nashville, Tennessee, negli
Stati Uniti. Dopo il diploma
magistrale in letteratura, ha
conseguito il dottorato in sacra
teologia presso la Pontificia
università
San
Tommaso
d’Aquino a Roma. Tra le sue
pubblicazioni, «Two Women
and the Lord; the Prophetic
Vocation of Women in the
Church and the World», in
«Promise and Challenge» (a
cura di Mary Rice Hasson,
Huntington, Our Sunday Visitor, 2015). È professore assistente di teologia all’Aquinas
College di Nashville.
l’autrice
l cuore umano non può sentirsi
appagato senza amore, senza unione
con le persone care. Come
nell’eucaristia, anche nella famiglia
non possiamo sperimentare la gioia
della comunione se non c’è prima la
presenza, una presenza reale e
solida. Non è un segreto che oggi la
famiglia deve affrontare molte sfide
importanti. Spesso guardiamo ai
problemi e proponiamo soluzioni
dall’esterno, ovvero dal punto di
vista dell’economia, delle strutture
legali e sociali o dei cambiamenti
culturali, che sono fattori esterni importanti
per il benessere umano; ma il rafforzamento
della vita familiare inizia dall’interno, dal
punto di vista della persona e dal desiderio
innato di ognuno di amare e di essere amato.
Dalla prospettiva personale vediamo che non
stiamo solo cercando di affrontare problemi
sociali, ma che c’è anche una ferita interna
profonda che deve essere guarita, nel cuore e
nell’anima stessa della famiglia e della vita
familiare. Alla presenza di Gesù Cristo con
noi nella Chiesa, che ci parla attraverso la
Parola e dimora con noi nell’eucaristia,
possiamo riscoprire quella presenza che
guarisce le ferite dell’assenza. Imparare a
discernere la sua presenza ed essere presenti
per lui ci apre, a sua volta, alla presenza degli
altri. Oggi viviamo una crisi derivante dal
fatto che, sebbene desideriamo la presenza di
un’altra persona con cui poter condividere la
vita e noi stessi, troviamo invece assenza.
L’assenza più ovvia è quella fisica delle
persone tra di loro. Il lavoro è una parte
integrante della vocazione umana, ma può
diventare una via di fuga dalle fatiche, spesso
più ardue, di costruire rapporti. Il lavoro
dovrebbe essere al servizio della vita familiare
e non a suo detrimento. Purtroppo, nel
mondo molte famiglie vengono separate da
circostanze che sono al di fuori del loro
controllo, come la guerra e il terrorismo, che
le costringono a fuggire dalle loro case,
oppure la povertà, che le pone in condizione
di accettare qualsiasi tipo di lavoro ovunque
per poter sopravvivere. Siamo chiamati a
pregare e a lavorare per una società più
giusta, una società che, anche in tempi di
crisi, dia la priorità alla famiglia e al suo
bisogno di unità. Tra coloro che le circostanze
della vita rendono liberi di scegliere come
trascorrere il proprio tempo c’è un’assenza
forse ancor più dolorosa perché è stata scelta.
L’illusione che avere o sperimentare di più
possa colmare il vuoto interiore spinge le
persone a cercare beni, esperienze o piaceri.
Queste ricerche di per sé non hanno la
capacità di realizzare i desideri più profondi
del cuore umano. Specialmente nelle società
opulente, sono in tanti a cercare di possedere
e di fare sempre più, solo per ritrovarsi
sempre più insoddisfatti. Una volta, passando
davanti a una casa splendida con giardini
rigogliosi, ho fatto a una mia amica un
qualche commento a proposito. «Conosco la
susseguirsi di tanti di questi momenti, col
passare del tempo diventa per la persona una
garanzia d’amore, la base di un vincolo
profondo di comunione. Dopo questa scelta
che esprime una preferenza per l’altra
persona, la presenza è poi mediata dallo
sguardo. Quando Dio ha creato il mondo, il
suo sguardo ha rispecchiato e comunicato la
bontà di tutto ciò che aveva fatto. Dopo aver
creato la persona umana, uomo e donna a
immagine divina, lo sguardo di Dio ha
suggerito l’affermazione che erano cosa molto
buona. Il primo sguardo che si sono rivolti
Adamo ed Eva era pieno di meraviglia e di
stupore, uno sguardo che gioiva nel vedere un
altro con cui poter condividere la propria vita
in un incontro pienamente personale. Hans
Urs von Balthasar scrive spesso dello sguardo
della madre che comunica al figlio la bontà
della sua persona, risvegliando il bambino
alla realtà di essere amato. Nella famiglia ogni
persona è invitata a guardare all’altro, a
trasmettere con uno sguardo di ammirazione
e affetto la bellezza che si vede nell’altro. È
fondamentale al fine di essere presente l’uno
all’altro. Oltre che alla vista, la presenza si
affida all’udito, e più che all’udito, all’ascolto.
L’iconografia tradizionale rispecchia
l’importanza di vedere e sentire. Le persone
dipinte nelle icone hanno occhi e orecchie
grandi, ma la bocca di solito è piccola.
Questa raffigurazione è un’istruzione per la
preghiera attenta. Invita chi prega a guardare
e ad ascoltare, ma a parlare molto poco.
Questo atteggiamento è certamente
fondamentale per la preghiera, ma lo è anche
per una presenza attenta agli altri. Le persone
che vivono in città affollate sono spesso
quelle più sole. Circondate da tanti, sono alla
presenza attenta di nessuno. Ciò può
facilmente accadere persino in famiglia.
L’attivismo della vita moderna può assorbire
così tanto del nostro tempo e della nostra
attenzione, da lasciarne molto poco per le
persone a casa. L’onnipresenza del rumore e
la sovrabbondanza di parole possono renderci
sordi alla voce degli altri. Corriamo il
pericolo di diventare estranei che vivono sotto
lo stesso tetto. Guardare e ascoltare sono i
primi elementi dell’ospitalità, dell’accoglienza
e del dono della presenza reale. La verità di
questa dinamica è evidente nella visita di
Gesù in casa di Marta e di Maria a Betania,
così come viene narrata nel vangelo di Luca.
Marta lavora diligentemente per mostrare
ospitalità a Gesù. Prepara un pranzo che
potrebbe offrire un’opportunità di comunione
della mente e del cuore ma lo prepara con
grande distrazione dello spirito. Il problema
non è la sua azione, ma piuttosto il suo
spirito di attivismo. Concentrandosi troppo
sul lavoro che sta svolgendo, ha perso di vista
la relazione che è il motivo del suo lavoro.
Maria, d’altro canto, comprende il primato
della relazione con l’ospite. È consapevole che
guardare e ascoltare sono necessari se vuole
essere presente a Gesù. È questa la prima
ospitalità, il dono di attenzione amorevole per
l’altro. Questa attenzione amorevole può
motivare l’azione. La vita familiare è piena di
atti di servizio, ma, affinché questi gesti
comunichino l’amore che li origina, occorre
prima essere presenti gli uni agli altri. La
presenza rivela amore, e la presenza duratura
rivela amore immutato. È ciò che ci ha
insegnato Cristo con i doni dell’eucaristia e
dello Spirito Santo. Prima di ritornare al
Padre, ha assicurato ai suoi discepoli: «Io
sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del
mondo» (Matteo, 28, 20). Il desiderio di Dio
di essere con noi, espresso nella maniera più
piena dalla sua incarnazione, dal suo venire
tra noi come uno di noi, permane. In lui e
nella sua fedeltà c’è il primo e più profondo
rimedio all’assenza reale. Egli è realmente
presente, infinitamente attento, scegliendo
incessantemente di essere con noi e in noi.
Non è mai troppo indaffarato per sentirci, per
ascoltare i desideri del nostro cuore, che solo
lui può realizzare. Gesù c’incontra negli
eventi comuni della nostra vita quotidiana
così come incontra la donna di Samaria,
seduto accanto al pozzo, riconoscendo la
nostra sete d’amore e offrendoci di placarla.
Ci offre, come ha fatto con lei, il dono di
acqua viva che sgorga da dentro. Ci insegna a
rendere culto in Spirito e in verità, a
riconoscere che ogni momento può essere un
punto d’incontro con colui che ha sete del
nostro amore come noi abbiamo sete del suo.
Ci manda a condividere con le persone che
amiamo l’invito a incontrarlo a loro volta. Ci
rende testimoni del potere salvifico della sua
presenza. Gesù c’incontra come ha incontrato
i discepoli scoraggiati sulla strada di Emmaus.
Avvia con noi una conversazione,
profondamente interessato alle nostre
speranze e ai nostri sogni, alle nostre
delusioni e ai nostri dubbi. Partecipa al nostro
dispiacere e con la sua parola getta luce sulle
nostre domande. Cammina con noi sulle
strade che percorriamo e si siede a tavola con
noi, facendosi riconoscere per mezzo della
frazione del pane. In sua presenza,
apprendiamo di essere amati. Questo amore,
incondizionato e incessante, ci dà la pace per
accogliere gli altri, la libertà interiore per
scegliere di essere presenti per loro, uno
sguardo nuovo per guardarli in maniera
amorevole e la pazienza di ascoltarli con
cuore attento. Oggi, lo sforzo di essere
presenti agli altri è una sfida più grande che
mai. Abbondano le opportunità di partecipare
a eventi e attività, di accedere a informazioni
da tutto il mondo e all’intrattenimento su
richiesta. Per quanto queste opportunità
possano essere rinvigorenti, una così vasta
gamma di possibilità può creare l’illusione di
tempo illimitato e di impegno infinito.
Possiamo dimenticare i limiti della nostra
umanità. Sì, possiamo avere centinaia di
“amici” attraverso i social network, ma
riusciamo a conoscere in profondità solo
poche persone. Nel perseguire questa
molteplicità di legami superficiali, rischiamo
di non avere relazioni profonde. Talvolta ci
risvegliamo al bisogno di resistere
consapevolmente alla superficialità che ci
mantiene a galla nella vita. Possiamo anche
Andrej Rublev, «Trinità»
cadere preda delle pubblicità del consumismo,
che promettono gratificazioni istantanee dei
nostri sensi e delle nostre emozioni. Se ci
soffermiamo a riflettere sulle nostre
esperienze, scopriremo che per conoscere noi
stessi e gli altri in profondità serve la pazienza
necessaria per crescere nella conoscenza e
nell’amore nel tempo. La riscoperta della
ricchezza dell’amore, che la famiglia possiede
in comunione, presuppone un nuovo
impegno alla presenza reale. Invita a scegliere
di trascorrere del tempo con l’altro. Esorta
ognuno a essere attento, ad ascoltare e a
rallegrarsi nell’altro, la cui differenza è un
arricchimento e non una minaccia. Alla
presenza del santissimo sacramento, siamo
seduti ai piedi del maestro che può aiutarci a
imparare come stare fermi alla presenza
dell’altro, e quindi come essere attenti alla
bellezza di ogni altra persona. Scopriamo in
Cristo, presente a noi nell’eucaristia, e dentro
di noi attraverso il suo Spirito che alberga in
noi, la verità che l’amore è presenza
persistente. Nella sua dottrina sociale, la
Chiesa afferma ripetutamente che la società è
forte solo nella misura in cui lo è la famiglia.
La famiglia è forte solo nella misura in cui lo
è l’amore che unisce ciascuno agli altri.
L’amore in seno alla famiglia è forte solo
nella misura in cui lo è l’impegno a essere
realmente presenti, e in tal modo di amarci gli
uni gli altri come siamo stati amati per primi.